Nel documento si denuncia una deriva produttivistica del sistema formativo. Il modello produttivistico, a seguito del forte impatto delle prime indagini PISA, ha condizionato le politiche educative degli Stati a partire dai primi anni Duemila. Questo modello manageriale e tecnocratico ha imposto i suoi principi e orientato l'applicazione dell'autonomia scolastica: valutazione delle "competenze, competizione tra scuole e tra Stati, pilotaggio dei risultati. In questo quadro, l'insegnate rischia di non essere più colui che ha la responsabilità della trasmissione delle conoscenza attraverso l'organizzazione di situazioni di apprendimento ma può diventare l'anello di una catena meccanizzata orientata al teaching to test. Il rischio è evidente: una formazione direttamente addestrativa che si ritiene (ma a ragione?) funzionale al sistema produttivo
Un concetto controverso: la competenza. Che cos'è?
Il documento contiene dunque giustificate critiche all'evoluzione dei sistemi formativi. Lo stesso documento solleva però anche molti dubbi sia quando se ne ricercano i responsabili sia quando si propongono le possibili soluzioni. Tra i responsabili i firmatari indicano la pedagogia e la didattica (il "didattichese"), che a loro dire avrebbe promosso una deriva nella direzione di una scuola delle "competenze". Quando si parla di competenze come procedure scollegate dall'autentica formazione si ha di mira una possibile declinazione del concetto, quella di un mero saper fare esecutivo che sarebbe separato dalle conoscenze. Ora, è pur vero che una parte della ricerca didattica, più legata a una declinazione letterale della pedagogia per obiettivi e in linea con le esigenze poste da alcune politiche scolastiche, rischia una deriva comportamentista di questo tipo. Bisogna però fare alcune distinzioni. La ricerca più attuale in psicologia dell'apprendimento ci dice che la conoscenza autentica non è separabile dalla sua competenza a utilizzarla in contesti pratici o cognitivi. Il sapere (le conoscenze disciplinari) non è un insieme di oggetti, di nozioni, ma un campo di problemi la cui soluzione evolve nella storia. Conoscere un concetto, dunque, non è solo conoscere la definizione o automatizzare le procedure del suo utilizzo ma conoscere il suo potere operativo. E' questa l'autentica competenza, da non confondersi con la semplice procedura che si potrebbe definire una competenza di basso livello epistemologico, routinaria ed esecutiva. Quindi è giusto e necessario che la scuola abbia come obiettivo l'apprendimento di competenze, intese come strumento per pensare il transfert. Il problema principale della scuola non è l'insegnamento, ma l'apprendimento.
Per un'organizzazione didattica che superi la "forma scolastica"
Non pare però questa la via scelta dal documento. Quando i firmatari parlano giustamente del ritorno alla centralità del "fare scuola", propongono il ritorno dell'"ora di lezione" rivelando così la loro sostanziale adesione ad una pedagogia, quella "tradizionale". E' la pedagogia che sta alla base di quella che è stata chiamata "forma scolastica" (l'espressione è del sociologo Guy Vincent), il sistema organizzativo generalizzatosi nell'Ottocento sul modello delle organizzazioni religiose: insegnamento simultaneo e collettivo, classi omogenee per età, separazione dal mondo esterno, valutazione "bancaria" con i voti, lavoro individuale dell'insegnante. Quest'organizzazione è un prodotto della storia ma per molti, insegnanti e non, sembra un dato "naturale". Il mondo della scuola sembra spesso ignorare il ruolo centrale dell'organizzazione e dei materiali nella didattica. Una buona azione dell'insegnamento/apprendimento è possibile solo in presenza di un'adeguata organizzazione del lavoro che dovrebbe essere responsabilità dei gruppi di insegnanti. Solo una nuova e migliore organizzazione può contrastare il modello tecnocratico che il documento denuncia. La "forma scolastica" va superata perché non si fa carico dei problemi dell'apprendimento degli allievi e produce abbandoni. Il buon insegnante, in collaborazione con i suoi colleghi, dovrebbe proporsi di organizzare situazioni in cui l'allievo sia messo nelle condizioni migliori per apprendere, mobilitandolo, mettendolo in azione (pratica e cognitiva). Tutto ciò non si può fare con la lezione trasmissiva, per quanto sia accattivante. Privilegiare la relazione umana e formativa, poi, vuol dire soprattutto rinunciare alla dimensione simbolica dell'insegnante dispensatore del sapere, colui che guida le attività attraverso l'esposizione dei contenuti. La pedagogia tradizionale pensa di aiutare il ragazzo a superare le sue difficoltà ipotizzando che possieda già quell'autonomia che non gli si vuole concedere. Se a scuola si vuol formare il piacere di apprendere lo si può fare solo a partire dal naturale piacere di "fare" e di sapere che ha ogni ragazzo, non con l' "ora di lezione" (un'evidente reminiscenza idealistica, ancora presente nella cultura di molti inseganti e intellettuali italiani).
Per un rinnovato attivismo pedagogico
Per fare una nuova scuola abbiamo dunque di fronte più ostacoli: da una parte il modello tecnocratico che guida le politiche dell'istruzione, dall'altra l'immobilismo di parte del mondo della scuola (soprattutto nelle secondarie) che dà spesso per scontato che quella ereditata dal passato sia la migliore organizzazione delle attività.
Quest'organizzazione taylorista del lavoro nella scuola è stata messa in discussione da tutti i movimenti delle scuole attive, riuniti per la prima volta nella Lega dell'Educazione Nuova, di cui ricorre quest'anno il centenario del primo Congresso (Calais,1921). Il loro impegno non è riuscito a modificare la "forma scolastica", il modello organizzativo a cui si sono sempre adeguate le politiche scolastiche, compreso l'attuale modello tecnocratico. Per preparare una nuova scuola è necessario prima di tutto prendere congedo da quel modello didattico e affrontare le questioni pedagogiche poste dal progressismo pedagogico, almeno da Dewey in poi. In caso contrario non avremo una "nuova scuola" ma ua scuola vecchia e superata, non all'altezza delle sfide di questo secolo.
Primi firmatari del documento
Bellino Roberta
Bottero Enrico
Iosa Raffaele
Lancellotti Maria Grazia
Navigli Mario
Nutini Massimo
Palermo Reginaldo
Stefanel Stefano
Tosolini Aluisi