Patrizia Fughelli e Maurizio Zompatori - Rapporti letterari: possibilità e limiti della medicina narrativa

«Real folks don’t discuss the latest issue of the New England Journal of Medicine. They tell stories about their lives».
J. Mc Donough

Alcune storie di medici e sui medici sono particolarmente utili per capire come la narrazione possa dare un senso morale ed anche una valenza estetica agli eventi biografici.
Una delle storie più belle è quella sulla morte di Anton Čechov, raccontata dal suo primo biografo, Henry Troyat, e che riportiamo di seguito:

Chekhov, medico e scrittore, morì ancor giovane di tubercolosi. Negli ultimi giorni di vita, lasciò la Russia e si trasferì in Germania, in una clinica vicino alla Foresta Nera. Sentendo che le sue condizioni peggioravano, fece chiamare il medico di quella clinica, il Dr. Schwohrer, che arrivò alle due di notte e poi raccontò così l’incontro.
Le finestre della stanza erano spalancate ma il paziente non cessava di rantolare e le sue tempie erano bagnate di sudore. Quando Chekhov lo vide, si mise seduto sul letto, appoggiandosi ai cuscini e, con estremo sforzo, in un gesto di cortesia, riuscì a dire in un tedesco incerto “Ich sterbe” - sto morendo -. Il dottore immediatamente gli fece una iniezione di canfora ma il cuore del malato non reagì. Il dottore propose di mandare a prendere una bottiglia di ossigeno ma Chekhov, lucido fino alla fine, protestò con voce rotta: “A che servirebbe? Prima che arrivi, sarò morto.” Così, al posto dell’ossigeno, il Dr. Schwohrer mandò a prendere una bottiglia di champagne. Quando la bottiglia arrivò, Chekhov prese un bicchiere e, voltandosi verso la compagna Olga, disse con un sorriso: “da quanto tempo non bevevo champagne!”. Svuotò lentamente il bicchiere, poi si adagiò sul fianco sinistro. Dopo pochi istanti smise di respirare.  Erano le tre del mattino del 2 Luglio 1904. Una grande falena dalle ali scure era entrata dalla finestra e sbatteva freneticamente contro la lampada. Il Dottore cominciò a dire qualche parola di consolazione quando, all’improvviso, il tappo della bottiglia saltò con un rumore  allegro, la spuma cominciò a versarsi abbondante dal collo della bottiglia e la falena volò via nella notte buia. Tornò il silenzio. Allo spuntare dell’alba, Olga stava ancora guardando il viso di Anton, che aveva un’espressione pacificata, quasi sorridente. Non una voce, scrisse più tardi Olga, non un suono. C’erano solo pace, bellezza e la grandezza della morte.

  
Oggi molti chiedono alla Medicina di diventare sempre più scientifica e quantitativa e che le decisioni mediche siano sempre più guidate dalle considerazioni statistiche ed epidemiologiche. Molti altri però rilevano che questo atteggiamento tende a chiudere le finestre su un mondo unico e irripetibile, e sottolineano l’aridità del linguaggio della biomedicina che non ci dice nulla sul vissuto del paziente. Un essere umano sofferente diviene così “l’infarto” del letto numero 5, facendo non solo coincidere di fatto malattia e malato ma annullando la persona.
La Medicina non è solo evidenza statistica, è anche fatta di storie, di narrazione di casi individuali e spesso è proprio il modo in cui un singolo caso si discosta dalla media che ci può fornire informazioni fondamentali. Il fatto che l’uomo Čechov, inscindibile dal medico Čechov, all’approssimarsi della morte usi una metafora, il calice di champagne, rende ancora una volta palese che è la narrazione a rendere possibile un processo di negoziazione di significato tra medico e paziente attraverso il rimodellamento delle rispettive interpretazioni del vissuto di entrambi.
Circa 15 anni fa negli Stati Uniti d’America è nato il movimento narrativo (NBM – Narrative Based Medicine), principalmente ad opera di Rita Charon della Columbia University, come reazione all’aridità della EBM (Evidence Based Medicine) da più parti criticata. Questa corrente di pensiero ha come base la considerazione che la malattia è sì un fatto obiettivo ma l’essere ammalato è un’esperienza soggettiva, intrisa di valenze morali. La NBM è basata  proprio sulla dimensione narrativa, quindi non solo biologica ma biografica e personale, che coinvolge medico e paziente in una comune prospettiva  empatica, nel tentativo di umanizzare la medicina, fino a creare un vero “life story book” di ogni paziente.
La Medicina Narrativa altro non è che il recupero della storia del paziente nel senso più profondo del termine, che va certamente ben oltre la storia clinica, vista come la storia della malattia e non del paziente. La narratività compare sulla scena proprio nel momento in cui la medicina sembra perdere la sua efficacia nel rapporto con il paziente e, di conseguenza, nell’individuazione e gestione degli stati di sofferenza. Comunque, anche senza allontanarci troppo dal solco della medicina scientifica e per non rischiare di cadere nella ciarlataneria o nello stereotipo del medico di famiglia del buon tempo andato, molti oggi sono d’accordo con l’idea che sia utile per il professionista della salute coltivare qualche competenza narrativa e non solo sulle fonti letterarie: infatti, nella NBM la dimensione letteraria è incastonata in una visione umanistica più vasta.
L’esercizio della Medicina è anche un’interazione tra persone che hanno emozioni, sentimenti, ricordi, speranze e che possono provenire da esperienze e culture molto diverse. Queste persone comunicano tra loro, non possono fare a meno di farlo ed entrano in relazione l’una con l’altra. Attualmente le relazioni  in campo sanitario non di rado presentano connotati negativi, come asimmetria culturale e informativa, atteggiamento paternalistico e decisionalità unilaterale, uso di un linguaggio tecnico e oscuro, scarsa attenzione per il vissuto e i sentimenti, incomprensione, quando non ostilità, derivante dal timore di conseguenze legali.  
Relazioni  e comunicazioni così insoddisfacenti non saranno la norma ma sono di certo molto frequenti ed hanno portato ad una progressiva “disumanizzazione” della Medicina, ormai tra l’altro sempre solo più tecnologica. La biomedicina continua a proporre solo soluzioni tecnologiche, spesso di dubbia efficacia, ad una moltitudine di problemi di natura sociale, culturale, personale per i quali la società nel suo insieme non trova risposte. Così si creano false speranze ed una tendenza individualistica, un frutto della quale è la litigiosità giuridica e un altro la Medicina difensiva. Tra i rimedi proposti, da più parti si è dunque sostenuta la necessità di educare i professionisti della salute al senso critico, al confronto dialettico, ai valori della tolleranza e della responsabilità, di aiutarli inoltre a riconoscere le proprie e altrui emozioni. Raccontare storie serve al medico, ad ogni medico, come educazione alla gestione personale delle emozioni. Nel romanzo filosofico Zadig o il destino. Storia orientale, di Voltaire, si legge a questo proposito: «Le emozioni. Quanto sono funeste! - disse Zadig- Sono i venti che gonfiano le vele - rispose l’eremita - A volte lo fanno affondare ma senza di esse il nostro battello non potrebbe navigare». Infatti il professionista della sanità ha bisogno non solo di sviluppare la capacità di ascolto e le tecniche di comunicazione, ma anche di recepire e comprendere meglio le emozioni, quelle del paziente e le proprie.
Come dice un vecchio adagio medico americano «Curare un paziente significa prima di tutto prendersene cura». L’empatia è un’attitudine e un attributo cognitivo, non un’abilità tecnica. Essa si può definire come la capacità di comprendere le esperienze ed il punto di vista altrui, oltre alla capacità di comunicare questa comprensione. Non la si può propriamente insegnare o imparare né la si dovrebbe  accentuare oltre il ragionevole  ma la si può coltivare e rafforzare attraverso tecniche di comunicazione e strategie formative, tra le quali vi è certamente la pratica della NBM, la quale, secondo una visione non estremista, non si contrappone alla Medicina scientifica ma la arricchisce. Si parla in questo caso di Medicina partecipata.
La NBM è dunque qualcosa di molto diverso dall’anamnesi tradizionale. E’ una anamnesi esistenziale e come tale integra quella tecnica. Richiede la capacità di  instaurare una relazione empatica e olistica, cioè di porre l’attenzione verso l’ambiente ed il vissuto globale di quella persona; richiede competenze linguistiche ed interpretative di contesti oscuri, creatività, disposizione affettiva, tolleranza, capacità di riflessione. Il paziente è qui presente in veste di un narratore che mette a disposizione, per così dire, l’esperienza di malattia che solo lui possiede fino in fondo, per aiutare a personalizzare il processo di diagnosi e cura.
A differenza di quanto sostenuto dagli analisi di ascendenza freudiana, cioè una persona scrive o racconta un’esperienza dolorosa per liberarsene, gli esponenti della NBM  ritengono che  la scrittura narrativa clinica serva, per così dire, per rendere udibile e visibile ciò che altrimenti resterebbe inosservato e inespresso. E’ possibile che il paziente non sappia esattamente come narrare la propria esperienza, oppure che non voglia farlo o che la sua narrazione non risulti utile al processo di cura ma in molti casi è vero il contrario e quello che spesso manca ora è invece la capacità di ascolto e di vera comunicazione da parte del professionista della salute.
Oggi si pensa che EBM e NBM non siano due paradigmi contrapposti ma che essi debbano integrarsi nella formazione dei  professionisti della sanità. I risultati migliori possono essere raggiunti solo con il tempo, l’esperienza e la crescita personale, come una forma particolare di competenza professionale, al cui centro sta il paziente nella sua integrale dimensione umana, con la propria personalità e cultura, la propria storia, le proprie scelte.
Nonostante il rischio, che noi poniamo tra gli svantaggi legati alla pratica della NBM e che in parte giustificano le resistenze verso la sua diffusione, che l’approccio narrativo/antropologico venga impiegato in modo dominante, crediamo che la pratica della narrazione medica rappresenti un reale strumento di conoscenza, davvero insostituibile, almeno in certi ambiti come la geriatria, la psichiatria, le patologie croniche e invalidanti ad esempio. Vero è che non deve sostituirsi alle normali attività diagnostiche e terapeutiche perché non fornisce certo una risposta specifica alle esigenze dei malati. Non si può pensare di rinunciare  in modo assoluto ad applicare nella prassi medica il metodo scientifico-clinico, senza contare poi che il contesto socio-economico impone di ridurre sempre più le inappropriatezze e di migliorare l’efficacia e l’efficienza di diagnosi e terapia, in base alle migliori evidenze disponibili. D’altro lato però una simile prassi  medica espone a gravi  rischi, quali ad esempio l’accettazione fideistica dei risultati della ricerca, che in realtà sono spesso effimeri e discutibili oppure condizionati da limiti culturali o da conflitti di interesse.  Certo, i risultati della NBM possono essere valutati solo qualitativamente, ciononostante li riteniamo davvero importanti nella formazione del medico e dei professionisti dell’area sanitaria.
Sviluppare e approfondire quindi la NBM ed è ovvio che, in questa ottica, anche gli studi letterari  possono contribuire alla formazione del medico. Tale idea è in evidente contrapposizione rispetto alla visione espressa circa 60 anni fa da Sir Snow nel suo famoso saggio sulle due culture, quella umanistica e quella scientifica. La tesi di Snow era che le due culture sono diventate irreparabilmente estranee l’una all’altra e che questo fenomeno è una delle cause della decadenza della civiltà occidentale. Nella NBM è invece chiaramente presente una tendenza alla riconciliazione tra di esse. I sostenitori della NBM, tra l’altro, sottolineano l’impiego di testi letterari nella preparazione dei medici, nell’idea che essi possano imparare ad ascoltare con maggior profitto i racconti dei loro pazienti e quindi ad orientare meglio diagnosi e terapia e a comunicare meglio con loro. Le opere letterarie consigliate sono davvero tante e belle. Tra gli autori principali, basterebbe ricordare Tolstoji e Chekhov, Mann, Kafka, Camus e tanti altri, fino ad Hemingway, Oliver Sacks e a saggisti come Susan Sontag.
L’idea portante è che la letteratura sia una componente essenziale del training medico, che stimoli l’introspezione personale e le doti di comunicazione. Ma c’è di più. Perché è così importante imparare dai professionisti della scrittura a narrare storie e, prima ancora, imparare a leggerle? Perché le malattie, specie quelle gravi, croniche e invalidanti, sono vissute come “rotture biografiche”, naufragi esistenziali e distruzione del mondo, a tal  punto da sovvertire i capisaldi della percezione di noi stessi e della realtà che ci circonda, farci perdere la comune prospettiva temporale e storica e la capacità di disporre liberamente di noi stessi. Senza contare poi che la malattia è vissuta anche come una frattura nell’ordine morale, che invoca giudizi e sollecita sforzi immani, nella ricerca di attribuire un qualche significato agli eventi e di rispondere a domande come “perché a me?”.
Da parte loro, i professionisti della sanità sviluppano negli anni un proprio linguaggio ed elaborano storie da raccontare, anche sulla propria vulnerabilità, sulla propria esperienza come ammalati o sul modo in cui l’interazione con i propri pazienti  ha cambiato il loro modo di pensare e di agire. Questi racconti, che si spera non  scadano al livello del Reader’s Digest, vengono scambiati tra colleghi, espressi a convegni, in diari autobiografici, in forma letteraria o ai pazienti stessi. Non è un caso che molti medici nel corso della loro vita a un certo punto scoprano di possedere la vocazione dello scrittore e tale diventino, con esiti molto variabili.
In questa prospettiva nel racconto di Troyat, prende valore l’incontro medico-paziente, in cui il comportamento di entrambi gli “attori” è composto da più livelli tra cui spiccano quello fisico/percettivo e quello narrativo. Il paziente assegna un certo significato ai vari sintomi e alle scelte che vanno emergendo via via e così fa il medico. Il dialogo, corrispondente al livello narrativo, deve essere letto e interpretato da entrambi i punti di vista. Inoltre, anche la forma del discorso, gli strumenti retorici, le metafore, la punteggiature, le pause, le sospensioni, i silenzi e le reticenze assumono una certa importanza.
Come hanno scritto Augé e Good, la malattia è insieme il più sociale e il più individuale degli eventi. Tutto in essa è anche sociale, non solo perché le istituzioni si fanno carico di alcune fasi della evoluzione della malattia ma anche perché gli schemi di pensiero che permettono di individuarla, di darle un nome e di curarla, sono eminentemente sociali. Pensare alla propria malattia significa già fare riferimento agli altri. La qualità dei rapporti interpersonali dipende dalla capacità di vedere le cose dal punto di vista altrui e di percepire e condividere le emozioni. L’identificazione della malattia richiede l’approccio biomedico ma la comprensione di essa e del malato  presuppone certamente uno sforzo aggiuntivo di comunicazione, volto a capire le idee del paziente, i suoi sentimenti, le sue attese verso ciò che deve essere  fatto, l’impatto dei suoi problemi sul suo funzionamento come persona. Seguire le esperienze del paziente dal suo punto di vista richiede la capacità di comunicare, di entrare nel suo mondo, ricordando che abbiamo a che fare con una persona, non con una malattia. Questo obiettivo richiede l’adozione da parte dei professionisti di un ruolo molto più attivo.
La NBM si pone nell’intersezione tra anamnesi personale, contesto storico e panorama socio-culturale, quindi  non rappresenta un approccio uguale per tutti, come accade invece per la biomedicina ma può e deve essere declinata in modo diverso a seconda del contesto. Apprezzare la natura narrativa dell’esperienza di malattia e di cura  e gli aspetti intuitivi e soggettivi della competenza clinica non implica il rigetto della biomedicina. Inoltre, una sana Evidence Based practice presuppone un paradigma interpretativo nel quale si incontrano il paziente ed il medico, con le loro biografie.
La NBM potrebbe dunque rappresentare un ponte, capace di mettere in relazione i professionisti della salute con i pazienti, i colleghi e la società e forse di rendere meno ostile l’opinione pubblica verso chi lavora quotidianamente in questo delicato settore.
Per tornare alla nostra introduzione, Henry Troyat primo biografo di Anton Čechov si configura come parte della storia, come poi la storia entrò a fare parte di lui, e in questi passi viene assegnata alla relazione medico-paziente un’immensa importanza pratica e simbolica. Levinas dice «The doctor is an a priori principle of human mortality. Death approaches in the fear of someone, and hopes in someone» ma in questo caso va rilevato che l’armonia di franchezza e tatto è una precisa scelta di non sopraffare il lettore né con l’ipocrisia né con la verità ad ogni costo.
Il punto di vista esterno è lo sguardo di uno spettatore che è anche attore, è un incrociarsi sospesi tra realtà interiore e realtà esteriore. Non importa quindi quanto quella medicina avesse avuto successo oppure no e lo sviluppo della NBM deve essere compreso in un approccio patient-centered che porta dunque il paziente a ridiventare il soggetto della medicina. La narrazione di questa malattia, di questo ultimissimo tratto di vita, ci dice non solo del caso medico specifico, ma sulla realtà ultima e più autentica di vita o morte del paziente. Infatti quando narriamo diamo significato alla sequenza di eventi che compongono il racconto e rendiamo esplicito il significato che vi attribuiamo e l’aver riportato quel breve passo in introduzione non è assolutamente un omaggio all’autore, ma una dimostrazione di come la storia della persona sia indispensabile per la comprensione degli atteggiamenti e delle scelte di fronte alla malattia. Sarà quindi possibile spiegare anche la scelta di come morire e il racconto delle ultime ore è emblematico: nessuna retorica, nessun paternalismo. Il contegno dell’uomo Čechov è l’abito di un’eleganza costante nel tempo e mai artificiosa, è un misto di animazione febbrile e di rassegnazione, di implacabilità analitica e d’ironica smorzatura. Lui non ha ceduto né al lamento né allo stoicismo per compensare la sofferenza.
Il valore di quanto narrato per chi legge, medico o potenziale paziente che sia va di pari passo con l’utilizzo delle storie di malattia per contribuire all’umanizzazione, al miglioramento della qualità delle cure e dell’appropriatezza dei percorsi di assistenza ai pazienti.

 

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