Patrizia Fughelli - Giovanni Pascoli e la malattia. Tra biografia e scienza medica

Introduzione

    La storia delle idee e della medicina può iniziare anche da qui. Digitale purpurea[1], non è solo una celebre poesia di Giovanni Pascoli dei Primi Poemetti, in questo caso è un’immagine che porta direttamente ad un aspetto poco indagato del poeta.
   Pascoli, definito “la pensosa dolcezza” e ricordato come cultore della bontà e fraternità, nutrì sempre grande ammirazione per i dottori tanto da definirli “un esercito che tutti i giorni e in tutti i luoghi combatte e vince, milita e muore, tentando di aiutare i malati con fraternità umana”. La medicina fu da lui proclamata come missione e volontà di credere nel bene e di gettare ponti di ideali speranze per un futuro migliore.
   Il dolore ha bisogno di una storia e con questa narrazione, i dati oggettivi propri dello scenario della realtà, cioè la malattia e i ferri chirurgici, verranno associati via via alle sensazioni di sofferenza e del lavoro mentale di elaborazione.
   Partendo da cosa significhi accedere alla storia del paziente, il mio intento è comprenderne la percezione dei fatti: le idee riguardo “ciò che non va” viste come il complesso sistema di credenze con le quali l’ammalato si spiega la sua patologia. Infatti quando una persona prova i sintomi di una patologia, come naturale operazione, cerca di darsene una spiegazione formulando ipotesi sulle possibili cause.
   Chi vive una sofferenza tende a rappresentarla come storia, dove si percepisce molto bene la difficoltà nel concettualizzare il corpo: in effetti ci si riferisce ad esso come sistema complesso in cui natura e cultura si compenetrano a vicenda. Per cercare di affrontare questo argomento, mi rifarò quindi agli studi umanistici che hanno adottato un approccio multidisciplinare, per proporre poi però un percorso particolare che tocca anche le teche, le “bolle”, contenenti i ferri chirurgici antichi conservate nei locali dell’ex Clinica Chirurgica dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna.
    Ho usato volutamente il termine “bolle” perché sia evidente il nesso con la qualità speculatrice che serve a controllare e domare l’impetuosità del reale. Queste teche  sono lo spazio ideale che ha regolato l’andamento di quel mondo dove ora, a distanza di un secolo, il disincanto ha preso il sopravvento sulla fascinazione.

 

Narrare la malattia

 


Maria Pascoli

 

Questi ricordi furono cominciati da me, per desiderio di Giovannino, molti anni fa, e le prime paginette le aveva lette anche lui con quel suo caro sorriso di approvazione incoraggiandomi a proseguire. Ma poi non potei piú continuare. Ora mi sono decisa ad appagare il suo desiderio. Egli voleva ch'io dicessi di lui, voleva che smentissi tante leggende e storielle che anche i compagni e gli amici spargevano sul conto suo, voleva, insomma, che dietro i racconti da lui fatti a me e dietro la conoscenza che io avevo della sua vita, della sua anima e del suo carattere, facessi chiaramente vedere ai lettori delle sue opere la sua retta e forte figura d'uomo. Ci riuscirò? È un dovere per me; ma l'adempirò bene? «Guai» mi diceva «guai se dovessi restare in altre mani!»
Il lettore non badi allo stile; sono una povera ed umile donna; può stare però sicuro che ciò che legge ha il pregio della verità.[2]
MARIA PASCOLI
  

   La narrazione in medicina si configura come quella forma di pensiero scritto che consente di organizzare e interpretare un’esperienza, e la successione di eventi nel tempo così incasellati, è volta al darne un senso.
   Chi vive una sofferenza tende a rappresentarla come storia, cerca cioè di trovare le ragioni ricostruendone lo sviluppo nel tempo e in questa narrazione in particolare, la descrizione di dati oggettivi è accompagnata non soltanto dalle corrispondenti sensazioni di sofferenza, ma anche dalla descrizione del lavoro mentale che ne viene compiuto per la sua rielaborazione.
   Ogni narratore nel raccontare una storia opera selezioni, eliminazioni, accentuazioni, sottolineature, enfasi: la narrazione mette ordine nel caos, definisce un percorso nel tempo, dà significato agli eventi, e tutto ciò è nelle mani e nella mente di chi racconta.
   L’anno in cui sono comparsi i primi segni della malattia da lui definita “solito incomodo” e che lo accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni, lo si apprende dalle agende annuali, saltuariamente scritte dal Pascoli ma specialmente da sua sorella Maria: è il 1908. A questo punto è bene sottolineare subito che si tratta di una dimensione che va oltre il fatto per diventare un vissuto, cioè “quel fatto” sistemato entro le caratteristiche di Pascoli.
   Penso saremo tutti d’accordo nel dire che il corso degli avvenimenti nella loro obiettività di cronaca di per sé non esprima molto, mentre nella soggettività diventa esperienza irripetibile; quindi raccogliere una storia come sequenza di eventi ha scarso significato, mentre ne ha molto di più valutare le reazioni emotive che hanno prodotto.
   Per questo è importante tenere come filo conduttore i ricordi della sorella più giovane, a lui estremamente vicina, anche se Vittorino Andreoli[3] sottolinea che in qualità di punto di riferimento per le raccolte postume, ha operato scelte e sistemazioni molto personali degli scritti del poeta dopo la sua morte. Il racconto di Maria è come un album di fotografie nitide e saldamente legate tra loro, che consente di capire appieno le valenze affettivo-relazionali che sicuramente hanno aiutato quest’ultima nell’espressione dei propri stati emotivi.
   Ancora indicata come misteriosa e detta genericamente “fistola”, il male era comparso a Castelvecchio e peggiorava rapidamente, tanto che la sorella scrive che era stato necessario intervenire:

 

Carissima Attilia, non so se glielo abbia detto il suo cuore. Ieri 7 aprile alle ore 14 e mezza, Giovannino è stato operato di quel disturbo che le accennai, e che vide anche il dottor Caproni. Era cosa più grave di quello che non si credeva. L’operazione è stata dolorosissima tanto da far uscire dalla bocca di Giovannino qualche alto gemito disperato. Io non le so dire di me. Ero in un’altra stanza con Gulì e nel sentire la voce di dolorosa di Giovannino ero diventata come una furia. Gulì abbaiava disperatamente. Che brutto e triste momento! Non me lo posso levare dalla mente! Hanno preso parte all’operazione tre bravissimi dottori. Ed ora, or l’uno or l’altro se lo curano con un amore indicibile.

 

   Dunque era il 7 aprile 1908 alle 14.30 quando fu operato a Bologna dal Prof. Bartolo Nigrisoli e  la malattia[4] si mostrò più grave del previsto.

 


Bartolo Nigrisoli

 

In luglio del 1908 Pascoli scrive al Nigrisoli: « …la ferita manda ancora sangue, e Mariù e io siamo impensieriti perché il dott. Cavazzi … ci spaventò in altri tempi ammettendo la possibilità che l’operazione riuscisse vana»[5] .
   Il paziente Pascoli racconta inoltre dei sintomi, dei disturbi e dei vari stati di disagio, ma prima di giungere dal medico ha compiuto un lungo percorso che comprende: la percezione del sintomo, una o più interpretazioni di esso, la preoccupazione che il disturbo provoca, la comunicazione di esso alle persone a lui più vicine e di cui si fida. Ne consegue che quando arriva dal medico ha alle spalle una storia piuttosto strutturata, delle ipotesi diagnostiche abbastanza definite, delle domande precise che però non riuscirà a fare.
   Turbe digestive su base epatica insorsero poi fin dal 1910 e il dott. Severino Bianchini narrò la malattia in questo modo: «Da qualche mese era cominciato un vago malessere, accompagnato a stanchezza, svogliatezza di cibo, senso di inquietudine generale, lento decadere di forze, dimagrimento»[6]; ma per i medici il sospetto diventa certezza non prima del gennaio 1912 quando i timori del Professor Severino Bianchini, del Professor Antonio Ceci e del dottor Alfredo Caproni, amici di vecchia data del Pascoli, hanno conferma.
   L’argomento comunque, anche a posteriori, appare pieno di discordanze, di reticenze[7], di lacune e l’opinione dei biografi è tutt’altro che concorde: si parla alternativamente di carcinoma dello stomaco e di cirrosi epatica come se fosse la stessa cosa. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che la diagnosi di cirrosi è il più delle volte legata ad un’eziologia alcolica e poteva nuocere, o meglio si credeva potesse nuocere, al buon nome del poeta. Se si tiene conto quindi che i medici curanti erano tutti suoi amici, legati a lui da profondo affetto, si vedrà che questo elemento è tutt’altro che trascurabile.
   Come ricorda Leonello Manzi[8], oltre alle cartelle cliniche e al certificato di morte, manca  quello che potrebbe essere il più incontrovertibile elemento di giudizio, cioè un reperto anatomo-patologico.
   Ai primi di febbraio 1912 il Caproni scrive così per telegramma al Bianchini: «In pochissimo tempo era decaduto. Nel silenzio dei fenomeni si era ordita la malattia insidiosa che, sorta nello stomaco, andava diffondendosi al fegato … Una visita brevissima bastò a rendermi conto della situazione tragica …».[9]
   Più che per fare diagnosi, che ormai era di tumore maligno[10] e più che per dare una vera cura, il Prof. Ceci cercò di dare un qualche sollievo all’infermo e a metà febbraio gli fece quindi una leggera paracentesi: al malato rimase impressa “la piccola mano del chirurgo dal dolce tocco, che lo aveva alleviato (sia pure con un bene effimero) senza farlo soffrire”.

 


Strumentazione per paracentesi

 

   Il chirurgo è la mano del medico, il medico è la mente del chirurgo. La dinamica a cavallo tra Otto e Novecento si pone come attività interventista e, dopo le conquiste dell’anestesia e dell’asepsi-antisepsi, assurge a “medicina operatoria”.
   La chirurgia, pur cercando di emanciparsi ed evolvere da “medicamentaria” a “ferramentaria”, è costretta ad annoverare tra i suoi ferri «le tenaglie del troppo dolore, unite al chiasso del troppo sangue»[11]; è da qui però che incomincia il suo riscatto professionale, sociale e culturale.
   Se si considera l’inizio del cammino novecentesco del chirurgo, esso è sul binomio “scienza e umanità” e, tenendo bene a mente quanto detto da Murri in proposito, cioè «Curate. Se non potete curare, lenite. Se non potete lenire, confortate»,  si capisce benissimo l’intento con cui fu fatta la paracentesi a Pascoli.
   Per capire meglio possiamo sicuramente rifarci al piccolo Museo dell’Armamentario Chirurgico della Scuola Bolognese, inaugurato nel 2008 nella Biblioteca delle Chirurgie dell’Università di Bologna. Il piccolo Museo, con oltre 150 pezzi chirurgici antichi[12] risalenti la maggior parte all’Ottocento proveniva, anche confuso con altri materiali, da varie collocazioni tutte comunque all’interno della Clinica Chirurgica; e in quella occasione vennero esposti in apposite bacheche di vetro
   E’ una vista che impressiona, certo: alcuni di essi hanno fogge tali che risulta persino difficile comprendere come potessero essere introdotti in un corpo. Altri assomigliano più a strumenti di tortura che altro. E ci sono anche gli strumenti usati per la paracentesi.
   La paracentesi, anche quella che è stata fatta al Pascoli, è una procedura medico-chirurgica che consiste nella perforazione con un ago o un trequarti, di cavità organiche abnormemente ripiene di essudato e trasudato.
   Il termine deriva dal greco παρά che significa "attraverso" e κεντέω "pungo", e si riferisce anche appunto all’evacuazione verso l'esterno di liquido che si è venuto a raccogliere nella cavità peritoneale ad esempio in conseguenza di ascite da cirrosi epatica scompensata.
   Per quanto riguarda Pascoli nello specifico, dove probabilmente la diagnosi era di cancro metastatico, gli fu introdotto a scopo evacuativo e ovviamente non diagnostico, uno strumento speciale chiamato “trequarti” all’interno della cavità addominale.
   Fu messo in posizione dorsale e il medico punse con un colpo breve e forte, e seppe di essere penetrato nel cavo addominale abnormemente ripieno di liquido perché non avvertiva più nessun  senso di resistenza. La puntura quindi fu un colpo breve e forte e, tolto il mandarino, diede flusso al liquido non troppo rapidamente per evitare fenomeni di anemia cerebrale consecutivi al rapido riempirsi dei vasi sanguigni addominali. Estratto il trequarti la ferita venne richiusa con lo sparadrappo.
   Una volta si faceva così, inventando di volta in volta gli strumenti di cui si aveva bisogno[13] ed è banale, ma forse non troppo, ricordare che l’efficientissima chirurgia di oggi non esisterebbe se il suo continuo progredire non avesse alle spalle quelle tecniche ingegnose. Tutti questi cambiamenti, questo essere in divenire portano sempre nel loro profondo il desiderio imperante del medico di conoscere molto bene il proprio mestiere per esercitarlo al meglio.
   La fiducia nella scienza di inizio Novecento porta gli strumenti chirurgici a diventare il simbolo di una professione, quasi un’estensione degli arti del chirurgo. In essi si realizzava quel felice connubio tra tecnologia e scienza, tra diagnosi del clinico e successivo intervento del chirurgo, che nelle menti degli operatori del tempo era visto sulla scia di come un giorno si sarebbe sancita la supremazia dell’uomo sulla natura.
   A questa fiducia nella scienza e nelle sue realizzazioni tecnologiche sottostava una visione meccanicistica del corpo umano: dovere del medico era quello di correggerne il cattivo funzionamento, inventando strategie e realizzando strumenti in grado di attuarle.
   La malattia, comunque, è sempre un “taglio”. Autobiografico, a volte. Ma sempre un “taglio”. E’ una rottura che però può portare alla guarigione; infatti la chirurgia, forse perché non immemore della propria tradizione eminentemente pratica, non è mai stata per statuto astensionista. E’ stata anzi per definizione, interventista, finalizzata a conoscere la malattia, ma soprattutto ippocraticamente a rimuovere il male.
   Un altro aspetto importante, ora come allora, è che il paziente chirurgico da sempre, non teme solo la malattia e le sue conseguenze, ma anche la violazione del proprio corpo insita negli atti chirurgici[14]. Questo non è avvenuto per Pascoli, intriso di fiducia per i suoi amici medici che partecipavano emotivamente al decorso della malattia: emozioni e sensazioni intense che non sono state percepite da loro come un ostacolo all’obiettività scientifica e come motivo di imbarazzo. La loro medicina clinica corrispondeva a un “fare” più che un semplice “agire”, ed essa mutuava frammenti di conoscenze da molteplici discipline sia “esatte” sia “umanistiche”.
   Richiamando la terminologia heideggeriana, “Dasein è quindi una parola possibile per identificare anche strumenti chirurgici creati per “esserci nel mondo”, ed essere inoltre insieme nella partecipazione comune alla sofferenza umana e nel riconoscimento del proprio limite anche da parte del medico. Da ricordare, al proposito, che Murri alla morte di Pascoli disse: «Son qui per unirmi al vostro dolore e per dimostrare l’impotenza umana».

Carissima Attilia, ho ricevuto la sua. Grazie. In verità si riscontra in Giovannino qualche miglioramento: forse si trova in uno stato migliore d’animo. Ieri venne a visitarlo, di sua spontanea volontà, il prof. Murri. Non trovò nulla di grave e di allarmante: tutti gli organi sanissimi. La malattia fu da lui qualificata epatite interstiziale, non cirrosi epatica come dicevano costi. Disse che la malattia non sarà tanto breve, che si tratterà di giorni e di settimane, ma che tutto andrà bene. Che commozione, Attilia, quando si sono visti! Come si sono abbracciati e baciati! Quella visita, sebbene improvvisa, ha fatto molto bene all’animo di Giovannino e al mio. E ieri sera eravamo molto lieti e la notte è andata bene. Solo che oggi nell’alzarsi ha sentito che poco o punto, per ora, può star su. Soffre dove ha avuto quella puntura e gli pare di gonfiarsi. Appena a letto s’è sentito meglio. Speriamo che in seguito possa stare levato qualche ora senza fatica e ciò gli gioverà.


Augusto Murri

 

   Per un medico il termine “epatite interstiziale” è sinonimo di “cirrosi epatica”, quindi ci troviamo di fronte a un gioco di parole che richiamano purtroppo una cosa sola e nella quale furono tutti d’accordo: il male era grave, rapido, incurabile e il medico poteva solo alleviare le sofferenze. E’ una narrazione che ricorre a stratagemmi caritatevoli.
   E’ chiaro che il mondo del malato e dei suoi famigliari è completamente diverso da quello del medico: quando il medico dà un nome alla malattia ha in mente con chiarezza il quadro clinico corrispondente, gli interventi necessari, la terapia, la prognosi; il paziente Pascoli e la sorella Maria collocano invece questa diagnosi nella loro storia personale e nella loro cultura.
Il rapporto tra la malattia e la vita quotidiana è nettamente evidenziato in modo diverso e il racconto divaga anche nel futuro in forma di aspettativa e di previsioni.
   Intanto la malattia seguiva il suo corso, così dicevano i medici e così pure Pascoli suggeriva  alla sorella di rispondere a coloro che chiedevano sue notizie.
   Era in Murri che Pascoli riponeva tante speranze e lui, raccomandando tanto riposo e di seguire una cura per migliorare la diuresi, intanto pensava già a una nuova paracentesi[15] perché il liquido addominale tendeva ad aumentare. Il paziente si sottoponeva di buon grado a quel tipo di intervento sapendo che Murri cercava di riparare l’organo guasto, era fiducioso che possedesse i mezzi per ripararlo. Accettava anche modifiche allo stile di vita e al mangiare, accoglieva le proposte dei medici suoi amici perché sentiva che loro rispettavano e tenevano conto del fatto che l’universo di significati che definisce l’identità e la cultura del paziente e dei suoi sistemi di riferimento, non può come per magia venire eliminato e sostituito dalla pura razionalità scientifica del discorso del medico.
   Da tutti i documenti consultati appare molto chiaro che i medici che hanno avuto in cura Pascoli tenevano conto dei rapporti tra loro, e tra loro e il paziente, non dimenticando la sorella e chi gli stava vicino; è in questo modo che hanno strutturato una relazione profonda di fiducia reciproca.
   A parte la specifica storia legata al sintomo, il paziente Pascoli ha un’altra e più ampia storia che comprende sia il suo personale concetto di salute e malattia, sia l’ambiguità del volere e allo stesso tempo non volere sapere. Stessa cosa vale per chi gli sta accanto perché la malattia non si limita al fenomeno biologico descritto dalla diagnosi clinica, ma costituisce un problema infinitamente più complesso  che coinvolge assetti emotivi, relazionali, progettuali. La malattia come processo biologico è dentro di lui e ne fa un malato, ma la malattia come problema complesso è invece fuori di lui e coinvolge a macchia d’olio tutto il suo mondo. Più volte la sorella si esprime dicendo che non aveva il più lontano pensiero che non dovesse guarire : «Ci vorrà ancora del tempo e della pazienza. È molto debole e smagrito; ma, superato il male, la debolezza si vincerà presto»; tuttavia questa volta, terminata l’operazione di cui si riferisce minuziosamente che il liquido estratto fu in minor quantità del solito, i medici fecero una più accurata e minuziosa visita palpando per tutti i versi e ci fu qualche parola che insospettí l’ammalato tanto che il Bianchini fu costretto ad esprimersi dicendo che il fegato andava bene ma che c’era un indurimento più sotto. Concluse comunque la sua spiegazione assicurando che sarebbe stato meglio.
   La presa di coscienza del Pascoli dell’aggravarsi del suo male e dell’avvicinarsi della fine, si capisce quando, in preda alla successiva gran debolezza, i medici gli ordinarono un cordiale da prendersi a cucchiaiate, e con quello a poco a poco riprese alquanto le forze e si rianimò ma cambiò il suo umore  e soprattutto con mente lucidissima, chiedeva con insistenza di Marcovigi[16] verbalizzando il suo peggioramento.

 


Giovanni Pascoli

 

La sorella invece continua a non rendersi conto della ormai evidenza e replicava che la sua debolezza era causata dalla paracentesi “un po’ troppo spietata” e che il rimedio era lui si nutrisse prendendo del latte e qualche uovo.
   Il 4 aprile il Prof. Murri diramò il seguente bollettino medico: «Le condizioni di malattia di Giovanni Pascoli in questi ultimi giorni si sono fatte allarmanti: oggi sono gravissime». La sorella riporta diligentemente sul diario:

 

Verso le ore 16 vennero a visitarlo il prof. Murri, il prof. Silvagni e il prof. Bianchini. … Il Murri pure si commosse molto. Io lo osservavo mentre lo visitava per poter capire come lo trovava, ma niente lasciò trapelare del suo pensiero. Dopo parlò così sottovoce col Bianchini che non potei intendere nemmeno una parola. Soltanto all’ultimo, sulle mosse di partire, disse abbastanza forte: «Ora potete fargli delle iniezioni di canfora». Io non sapevo allora che quando i medici ricorrono a quelle iniezioni è segno che non c’è altro da fare; ma Giovannino certamente lo sapeva perché, sentendo quelle parole, si volse subito con la testa a me, che ero in piedi al suo capezzale, dicendomi con tenerezza accorata: Mariucchin! poverina!» Oh! io non pensavo davvero che egli non fosse per superare quella crisi, per quanto grave, di debolezza! Che non dovesse da un momento all’altro dare qualche indizio di star meglio, che non dovesse mostrarmi il suo sorriso! Mi aveva pur detto, mentre già era stato preso dal male: «io non posso morire ora, perché mi trattengono i miei lavori e il mio Mariú!» E io credevo proprio che fosse impossibile.

La morte venne

Il prof. Silvagni che era lí, ma che non vide il mio atto essendosi in quel momento voltato a dir qualcosa ad altri presenti, allorché riportò gli occhi su lui domandò, con aria meravigliata e disapprovante, chi l’aveva mosso. Risposi che ero stata io perché potesse respirare meglio. Stette zitto. Forse non volle togliermi ancora dalla mia illusione, perché purtroppo m’illudevo. Non avevo capito che il mio adorato Giovannino, uscito finalmente da quel sonno in cui era rimasto 36 ore, era entrato in agonia! E m’illusi fino all’ultimo. Tre ore ebbe d’agonia come Gesù sulla croce! Alle ore 15 e qualche minuto del Sabato Santo – 6 aprile 1912 - a un tratto egli aprí del tutto i suoi dolci occhi, sollevò e abbassò convulsamente le braccia con un alto grido, poi reclinò da una parte la sua cara testa, emise tre brevi respiri e poi... più nulla.   (era il 6 aprile, ore 15,26)

 

   Il punto di incontro, l’inizio della storia comune tra medico e paziente, è il “sintomo”. Anche Pascoli aveva narrato ai medici il sintomo: narrazione che è iniziata passando  attraverso stadi diversi che comprendono: la percezione[17], la negazione, l’accentuazione, la durata; e poi l’interpretazione[18], la descrizione, le opinioni della sorella…
   E anche per il medico il sintomo è fatto di una narrazione: come minimo quella che si può trovare nei testi di semeiotica o di patologia medica, che ne propongono interpretazioni diverse in funzione delle possibili ipotesi diagnostiche.
   Il sintomo che qui compare è costituito da varie narrazioni dove, diversamente dall’usuale, quella dominante non è del medico.

Conclusione

   Nel parlare comune, il termine “narrare” è spesso collegato alla letteratura: qualcosa quindi di non scientifico, scarsamente legato ai fatti che stanno invece alla base del rigore proprio della scienza. L’anamnesi medica però consiste in uno scambio di narrazioni e la capacità di narrarle è possibile solo quando esiste una relazione di cura. Da notare poi che questa ha già di per sé un effetto terapeutico.
   Il cambiamento della medicina, della chirurgia, dell’ammalato e della malattia è qualcosa di estremamente complesso e non lineare. Unica cosa certa e stabile è la malattia in senso lato con il suo pesante fardello di sofferenza e dolore; e gli ammalati sono sempre esseri umani, che hanno paura e sperano fino all’ultimo. Quindi la triade è sempre: sofferenza – paura – speranza. La persona che trasforma la malattia in storia, trasforma il fato in esperienza, dove il comune denominatore è il legame del soffrire che riunisce i corpi nella loro condivisa vulnerabilità.
   I medici di oggi, rimeditando l'opera e la vita di Pascoli, possono intendere tutto il valore che il poeta dava a questa professione[19] dove tecnica e umanità devono coesistere: la natura umanistica della medicina, fondata sul rispetto, ascolto, speranza e solidarietà.
  

Note:


[1] Nell’Ottocento era la specie vegetale per eccellenza usata in estratto per il trattamento dello scompenso cardiaco lieve e per aumentare la diuresi; verrà somministrata al Pascoli nel corso della fatale malattia.  

[2] E’ un Proemio al lettore che viene riportato anche da Augusto Vicinelli sottolineando il fatto che il racconto inizia nel 1902 e si è interrotto nel 1912, anno della morte di Pascoli.

[3] V. Andreoli, I segreti di casa Pascoli: il poeta e lo psichiatra. Milano, BUR, 2006.

[4] Leonello Manzi ipotizza che questa infermità fosse un ascesso perianale inciso e fistolizzato.

[5] Cfr lettera inedita in L. Manzi, Malattia e morte di Giovanni Pascoli. Con cenni sui medici del poeta e documenti inediti. Bologna, Libreria Editrice Minerva, 1962.

6] S. Bianchini, L’ultimo viaggio, in Lucca a Giovanni Pascoli, Lucca, Rinascenza Italica, 1924.

7] Se dell’affezione al piede a Urbino e del tifo sofferto a Messina parlano tutte le biografie, c’è molto riserbo sull’infermità che appare dalle lettere negli anni di Bologna dopo il 1906.

[8] L. Manzi, Malattia e morte di Giovanni Pascoli, Con cenni sui medici del poeta e documenti inediti. Bologna, Libreria Editrice Minerva, 1962.

[9] Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli. Memorie curate e integrate da Augusto Vicinelli, con 48 tavole fuori testo. Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1961.

[10] Il giudizio del Prof. Murri, che lo visitò varie volte, fu di tumore maligno che  “svoltosi insidiosamente nello stomaco, aveva invaso il fegato, il quale andava dissolvendosi”. Anche il Prof. Ceci si espresse con il termine “neoplasma maligno all’addome”.

[11] G. Cosmacini, La vita nelle mani. Storia della chirurgia. Roma, Editori Laterza, 2003.

[12] Il primitivo nucleo di questa collezione di strumenti chirurgici risale alla donazione di Benedetto XIV (Prospero Lorenzo Lambertini, 1675-1758) a Pier Paolo Mulinelli (1702-1764), quando con Motu Proprio del 23 agosto 1743 istituì il corso di “medicina operatoria” affinché gli studenti non solo apprendessero teoricamente le tecniche operatorie di ciascun intervento, ma potessero eseguirle sui cadaveri sotto la direzione di Mulinelli stesso. Il pontefice commissionò l’armamentario chirurgico necessario alle lezioni pratiche al celebre armaiolo francese Lapeyronie, e il re Luigi XIV, venuto a conoscenza dell’incarico, non solo si interessò che esso fosse preparato nel miglior modo possibile, ma ne fece omaggio al papa. Il 28 novembre 1742  la preziosa collezione composta da 250 pezzi di cui 50 in argento fu consegnata a Mulinelli con l’obbligo di farne una ricognizione, in presenza di un notaio, almeno una volta l’anno per evitarne la dispersione. Con la riforma napoleonica degli Studi (4 settembre 1802), fu istituito il nuovo insegnamento di “Clinica Chirurgica e Operazioni Chirurgiche” e dal 1869 l’armamentario chirurgico venne destinato definitivamente alla neonata Clinica Chirurgica per essere utilizzato non più per le esercitazioni sui cadaveri, ma per le operazioni sui pazienti che venivano ricoverati nella clinica stessa.

[13] I chirurghi facevano schizzi su carta, poi si affidavano ad artigiani, in molti casi ad armaioli, o ad allievi di arrotini.

[14] Vedi S. M. Brooks Tighe, Strumenti chirurgici. Torino, Utet, 1997.

15] Fatta dal Prof. Nigrisoli il 26 febbraio alle ore 12.30; assistenti il Prof. Silvagni, il dott. Lamazzi e il dott. Miti, aiuto del Nigrisoli. Era la terza.

[16] Raffaello Marcovigi, detto “il biondino”, suo amico avvocato.

[17] Il 13 settembre 1911 scriveva di essere lancinato da dolori, che si credevano reumatici; e il 3 dicembre chiudeva laconicamente la lettera al suo amico Domenico Francolini con un «Non sto bene».

[18] Pensavo a quello che ha detto oggi il Murri, che posso mangiare di tutto. Capirai che quando si dice cosí a un malato è segno che non c’è...» «Ma via! che cosa ti metti in testa ora? Il Murri non ha detto affatto come dici tu. Ha detto che puoi mangiare vermicelli al burro, bistecchine, pesce bianco lessato e anche, se ti piace, qualche po’ di cioccolata essendo essa assai nutriente; e ciò perché tu non puoi sopportare il latte, il quale, del resto, anche lui, come gli scienziati tedeschi, non crede che sia un sistema di cura indispensabile». «Tu hai inteso cosí?» «Ho inteso cosí ed è cosí». «Allora non ci penso più, e dormo».

[19] Ne è la prova il discorso pronunciato nella Clinica di S.Orsola il 4 maggio 1908, dove elogia l’operato dei medici che nella loro vita danno spazio al sacrificio. «Avete una grande missione da compiere. Ricordatevelo. Voi siete l'avvenire», furono le frasi di Pascoli, che ripeté anche quando cadde gravemente malato.