Dante e la coscienza di avere un corpo
Introduzione
Negli ultimi decenni la conoscenza medica ha fatto passi da gigante e ha distanziato la capacità del cervello umano di assorbirla nella sua interezza. Se l’ampliarsi rapidamente del sapere ha creato un dilemma a chi insegna medicina, è però ormai evidente che bisogna indirizzare gli sforzi a sviluppare negli studenti una competenza da pensatori flessibili e versatili.
Trattare in modo esperto con le nuove conoscenze mediche, con le complessità e con le incertezze del mondo che cambia rapidamente, sono competenze che richiedono capacità non solo cognitive ma anche emotive, indispensabili ormai per lo sviluppo olistico dell’identità professionale di tutti gli operatori della salute. A tal proposito, le opere di Dante Alighieri, così piene di stati di turbamento a vari gradi, sensazioni/emozioni appunto, non dovrebbero essere materia solo ed esclusivamente per filologi, storici e linguisti, arroccati in luoghi accuratamente chiusi per evitare sacrileghe contaminazioni; e non solo perché proprio l’Alighieri sarebbe probabilmente contrario, ma semplicemente anche perché le cose “vive” hanno contaminazioni di vario genere che sono indispensabili a nuove forme e nel nostro caso pensieri.
Occuparsi dell’aspetto Dante-medicina, potrebbe dirsi a prima vista facile, considerata la moltitudine di scritti sull’argomento: non mancano certo le fonti storiche e i precedenti letterari cui attingere. Ma, dopo una riflessione più attenta, se ne comprendono le difficoltà e soprattutto le insidie; per cui è necessario fare un passo in più, e soprattutto un passo diverso.
L’impostazione innovativa in queste divagazioni si concretizza nel guardare attraverso i ricordi della Società Medica Chirurgica di Bologna conservati sul Poeta e nel cogliere alcune note attuali di quanto di cultura si continua ad irradiare dal suo interno e dal suo patrimonio inestimabile, ancora in larghissima parte inesplorato.
La tradizione di coniugare una cultura più prettamente scientifica con l’amore per gli studi umanistici, era forse più coltivata in un passato prossimo, l’Ottocento, dove ci si laureava in “Medicina e Filosofia”, tuttavia questo scritto vuole essere un’utile occasione per sollecitare medici e sanitari a perseguire anche una nuova identità della professione che, per la sua forte e progressiva specializzazione, rischia di essere ingiustamente relegata in una dimensione sicuramente meno ricca di valenze comunicative e culturali, soprattutto per quanto riguarda il fondamentale rapporto umano con l’ammalato.
Tasselli e segni di una presenza tra due mondi
La Società Medica Chirurgica[1] nasce fin dai primissimi anni dell’Ottocento quando un gruppo di medici, ben consci della situazione in cui si trovava Bologna, decisero di programmare riunioni nella casa di uno di loro, e di discutere non solo delle moderne conquiste della scienza medica, ma anche delle necessità igienico-sanitarie della città.
Nell’Italia del primo Ottocento, quando il termine cultura faceva rima soprattutto con letteratura, era molto usuale che un medico fosse anche scrittore: l’incontro tra medicina e letteratura era collocabile nel loro essere “medici per l’uomo”.
Una trattazione ben strutturata deve avere comunque un preciso punto d’inizio che io vorrei porre in un passo fondamentale scritto nel volume Primo centenario della Società Medica Chirurgica di Bologna (1823-1923).[2]
Lino Sighinolfi[3] nel cap. XI cita la Società Medica e il VI Centenario della nascita di Dante e a p. 269 scrive: «La Società ad onorare il Vaticinatore dell’Unità Nazionale, il divino Alighieri, partecipò ufficialmente alle feste fiorentine del maggio 1865 quando fu celebrato il sesto centenario della nascita e conserva fra i suoi preziosi ricordi la medaglia inviatale in dono dal Municipio di Firenze».
In effetti, la Società Medica Chirurgica di Bologna possiede un ricco medagliere frutto di lasciti e donazioni, costituito da oltre cento pezzi. Sono medaglie commemorative di pontefici, congressi scientifici, illustri medici italiani e stranieri, personaggi del mondo politico e letterario. E tra tutte spicca proprio questa:
Si tratta di un esemplare che reca:
R. Mezzo busto del poeta col profilo rivolto a sinistra, attorno il nome Dante Alighieri .
Sotto alla troncatura del busto: Enr. Pazzi Mod.(ello)[4] e
In basso: Raf. Sernesi Inc. nell’Officina Mariotti.
V. Dentro una corona di rami alloro e di quercia annodati fra loro da un nastro: AL DIVINO POETA/L’ITALIA/NEL MAGGIO MDCCCLV/MUNICIPIO FIORENTINO
Bronzo, diam. mm. 57.[5]
La storia dice che il Municipio fiorentino, in occasione delle feste celebrate a Firenze nel maggio 1865, alla presenza del Re Vittorio Emanuele II, inaugurò il primo monumento nazionale a Dante Alighieri e affidò ad Enrico Pazzi sia la commissione della scultura sia della medaglia commemorativa.
Astraendo dal valore intrinseco della medaglia posseduta dalla Società Medica Chirurgica, essa acquista un pregio molto maggiore in virtù della solenne testimonianza dell’operosità sia benefica che altamente civile di quella che era all’epoca, ma lo è tutt’oggi, una delle più importanti istituzioni cittadine.
Ciò trova riscontro anche nell’opuscolo[6] donatole dall’Accademia d’Agricoltura e dalla Società di Belle Arti di Verona sull’inaugurazione del monumento a Dante Alighieri, e sarebbe interessante riuscire a capire se questo reperto, stampato in edizione limitata, sia anche un invito[7] per l’inaugurazione di detto monumento che si è tenuta a Verona il 14 maggio 1865. I fatti sono comunque che esso riporta la data “Verona li 31 Maggio 1865” e che al suo interno a p. IX viene scritto che lo «scoprimento della statua senza inviti e senza alcuna ufficiale cerimonia seguisse».
E’ evidente che le prevalenti manifestazioni della vita scientifica medica di Bologna, sono da sempre andate all’unisono con la vita sociale della Società Medica Chirurgica. Sono raccolte nelle pagine del «Bullettino delle Scienze Mediche» che, fondato nel 1829 e da quell’epoca pubblicato ininterrottamente, oltre a seguire la lunga marcia della medicina, ha fatto sì che medicina, ricerca scientifica e cultura si integrassero in modo mirabile.
Nel volume X, edito nel 1910, troviamo a p. 352 una comunicazione del Dott. Prof. Muzio Pazzi, bibliotecario della Società dal 1901 al 1919, intitolata Dante e la Medicina, che è piuttosto chiara circa il suo pensiero riguardo all’articolo intitolato Was Dante a Doctor? pubblicato sempre nel 1910 sul «British Medical Journal»:
«Dato il valore enciclopedico del nostro più grande poeta, non fa meraviglia che in mezzo alla miriade di commentatori che brulicano intorno alla base del superbo monumento dell’opera dantesca, come sciami di laboriose formiche ai piedi di torri gigantesche, o delle muraglie della Cina, né che si contino medici, letterati e dilettanti di cronache estasiati per le profonde cognizioni di Dante intorno all’ars medica, oltre che alla teologia, alla filosofia e alla giurisprudenza, né che i medesimi siano tentati a scoprire se l’autore dell’insuperato ed insuperabile Poema nazionale abbia studiato medicina».
Ora con questo tipo di premesse, è abbastanza difficile provare a parlare anche solo delle malattie di cui Dante doveva avere sofferto, tuttavia questo lo si deduce dai suoi scritti dove si nota immediatamente che nessun altro autore medievale parla di malattie da lui sofferte, con la stessa frequenza con la quale ne parla il Sommo Poeta. A volte ne riferisce direttamente, altre volte, e sono la maggior parte, vi allude attraverso metafore che attenuano gli aspetti più scopertamente autobiografici e suggerisce una lettura degli eventi in chiave simbolica.
Siamo in presenza comunque di un punto fermo: la precisione e la partecipazione emotiva con le quali Dante rappresenta i suoi “disturbi”, lasciano intendere che al testo letterario sottostia una forte dose di vissuto.
Alla luce delle recenti scoperte neurologiche in tema di narcolessia portate avanti dal Centro dei disturbi del Sonno e dal Laboratorio di Polisonnografia dell’Università degli Studi di Bologna, la domanda se Dante Alighieri fosse narcolettico, può essere uno dei tanti fili che lega le discipline letterarie a quelle scientifiche.
Nel novembre 2013, sulla rivista scientifica americana «Sleep Medicine» viene pubblicato un articolo intitolato Dante’s description of narcolepsy a firma del dottor Giuseppe Plazzi, neurologo dell’Università di Bologna e Socio della Società Medica Chirurgica, il quale sostiene che l’intera opera dantesca mostri i sintomi evidenti della narcolessia di cui soffriva il suo celebre autore.
Certo, non è la prima volta che il Sommo Poeta viene indagato attraverso l’anamnesi delle sue opere per cercare di fare diagnosi a causa dei suoi improvvisi assopimenti, sonno e sogni. Usati forse come semplici espedienti letterari, hanno fatto però sorgere più che alcuni dubbi perché sembra descrivano fin troppo bene i sintomi di una malattia, ora individuata nella narcolessia[8].
Già Cesare Lombroso (1835-1909), medico famoso e discusso inventore dell’antropologia criminale, verso il 1880 dopo avere preso in esame le cadute improvvise, le visioni e tutte le altre manifestazioni, aveva fatto diagnosi e sentenziato che Dante soffriva di epilessia. Ma Plazzi non cerca connessioni con la biografia o altro, si limita a spiegare la matrice possibile di alcune descrizioni dantesche riconducendole alla patologia, andando però oltre, aiutato sicuramente dalle conoscenze attuali molto più vaste che all’epoca del Lombroso. Quindi propende decisamente per una diagnosi di narcolessia e non di epilessia.
Plazzi individua il primo dei tanti indizi di questa malattia fin dalle prime terzine dell’Inferno: «Io non so ben ridir com' i' v' intrai,/tant' era pien di sonno a quel punto/che la verace via abbandonai».
La Divina Commedia inizia quindi con il suo autore Dante Alighieri che «pien di sonno» si addentra nella selva oscura. L’intero viaggio dall’Inferno al Paradiso, passando per il Purgatorio, avviene come una visione e fin dall’incipit, nella Divina Commedia si troveranno parole che riportano a sonnolenza, rapidi passaggi dallo stato di veglia al sonno, sonnellini brevi e ristoratori, sogni, visioni e allucinazioni, comportamenti automatici in condizioni di torpore ed episodi di debolezza muscolare con cadute a terra scatenate da forti emozioni.
La tesi di Giuseppe Plazzi è che l' insieme di questi segni, indizi comunque di una condizione patologica permanente e presenti in tutta l'opera letteraria di Dante, sia tipico della narcolessia, una rara malattia neurologica descritta nel 1870 dal neurologo e psichiatra tedesco Carl Friedrich Westphal (1833-1890), della quale Dante potrebbe avere sofferto visto che ne ha descritto così bene le “caratteristiche cliniche”. Fu poi Jean-Baptiste-Édouard Gélineau (1828-1906), un neurologo francese, che nel 1880 ne coniò il nome per descrivere una malattia di cui era affetto un giovane che presentava sia numerosi e irrefrenabili episodi di sonno (peraltro brevi e riposanti), sia episodi di cedimento del tono muscolare, fino all' improvvisa caduta a terra.
Effettivamente alla luce di quanto si andrà a dire, è difficile sostenere che la perfetta corrispondenza dell'insieme dei segni descritti da Dante nella Divina Commedia con la narcolessia, sia del tutto accidentale. O per lo meno, alla luce delle conoscenze attuali, è auspicabile cercare di capire se “occhi pieni di sonno, corpo pesante, cadere al suolo come un corpo morto”, possano essere raccolti come segni importanti per una corretta e veritiera anamnesi.
Dunque, all' inizio del poema ha talmente tanto sonno che non ricorda neanche come e dove abbia oltrepassato la soglia dell'aldilà: eppure Dante presta sempre un'estrema precisione ai dettagli, ad esempio quando colloca con esattezza l'inizio del viaggio nella notte prima del Venerdì Santo del 1300 e «Nel mezzo del cammin di nostra vita» ( Inferno - I, 1 ), quando ha 35 anni. Quindi, molto stranamente, omette di spiegare la causa di tanta sonnolenza, come se il vagare in uno stato così estremo da non ricordare dove lo avesse portato il suo camminare, fosse per lui una condizione normale.
Altro indizio. Nella Divina Commedia Dante descrive il suo sonno come vero sonno, e come tale viene testimoniato da chi lo osserva. Infatti, San Bernardo, guida nell'ultimo tratto del viaggio in Paradiso, quando si accorge che Dante si sta risvegliando, si preoccupa di tagliar corto sulla descrizione di chi siano santi e angeli che affollano il Paradiso: «Ma perché ' l tempo fugge che t' assonna,/qui farem punto, come buon sartore,/che com' elli ha del panno fa la gonna» (Par. XXXII,132-139).
Plazzi nel suo articolo fa notare anche il passaggio rapido dalla veglia al sogno: «e ' l pensamento in sogno transmutai» (Purg. XVIII,145) e i sonnellini brevi e ristoratori, caratterizzati dal loro essere senza nessuna fatica al risveglio: «come persona ch' è per forza/desta e l' occhio riposato intorno/mossi» (Inf. IV,1-4).
Per quanto riguarda i casi di debolezza muscolare e le vere e proprie cadute a terra scatenate da emozioni intense, annovera l’episodio di quando di fronte alla lupa Dante si sente improvvisamente debole: «Questa mi porse tanto di gravezza» (Inf. I,52) e quello quando, dopo aver ascoltato il commovente racconto della vita di Paolo e Francesca dalla stessa anima di Francesca da Rimini cade a terra per l'emozione: «E caddi come corpo morto cade» (Inf. V,142).
Come non passò sotto silenzio la tesi di Cesare Lombroso nel suo sostenere che Dante soffriva di epilessia, non passa sotto silenzio neppure la tesi di Giuseppe Plazzi che propende per la narcolessia: le aspre reazioni da parte degli studiosi letterari del Sommo Poeta, rinvigoriscono l’eterna lotta tra ambiti letterari e ambiti scientifici.
Le talvolta dure critiche sintetizzate nella frase “Nella Divina Commedia Dante cade «come corpo morto cade», e nel corso delle tre cantiche dorme e sogna, ergo Dante era sicuramente epilettico o narcolettico”, non reggono. Sonnolenza ed emozioni sono una novità per i topoi letterari medievali: il mal d'amore al contrario avrebbe causato insonnia. Non si tratta di proporre titoli assurdi, ma ad effetto, pur di conquistare visibilità: nei casi qui brevissimamente presentati (Lombroso e Plazzi), le ipotesi vengono argomentate non certo con seriosità pseudoscientifica. E’ vero che al momento non ci è dato di oltrepassare la soglia dell’intermediazione letteraria, ma fare ricerca vuol dire appunto cercare, verificare, oltrepassando il filtro della parola scritta.
Conclusione
Conoscere la storia dell’uomo e delle idee è una vera esigenza di genuina consapevolezza umanistica perché significa sapere dove si vuole arrivare conoscendo da dove si è partiti. La pluralità delle trattazioni da parte di medici e letterati, può essere sì conflittuale considerando i vari elementi nelle varie fonti, ma tende alla ricerca. La meta è scoprire, conoscere e valorizzare ciò che è comune a tutti pur salvaguardando la propria identità, quindi si parla di dialogo inter-culturale che consente di inter-agire creando relazioni, collaborazioni, iniziative. Penso saremo tutti d’accordo nel dire che l’uomo ha due grandi risorse per fare cultura: la capacità di ragionare e la capacità di credere nel progresso delle conoscenze.
Questo lavoro è una storia che parte e finisce da un punto preciso: ciò che è posseduto dalla Società Medica Chirurgica di Bologna e i rapporti dei suoi Soci con l’interno e con l’esterno fin dal lontano 1802. Vorrei concludere questa mia trattazione con le parole del Prof. Luigi Bolondi[9] che sanno mirabilmente racchiudere cosa vuol dire essere il fulcro da dove si irradia vero interesse per la cultura: «Se l’oggetto delle attività della Società, come recita lo Statuto, è lo studio e l’avanzamento della Medicina e della Chirurgia e delle scienze che la riguardano, occorre dunque sottolineare che questo viene perseguito, oggi come ieri, attraverso un continuo confronto del sapere medico con gli altri saperi, per affermare il legame profondo e inscindibile che esiste non solo tra i diversi saperi, ma anche e soprattutto tra il progresso della Medicina e il progresso della Società civile».
Note:
[1] Per un approfondimento si veda Stefano Arieti, Societas Medica Chirurgica Bononiensis, Bologna, Clueb, 2011.
[2] Primo Centenario della Società Medica Chirurgica di Bologna (1823-1923) – a cura della Società, Bologna 1924.
[3] Lino Sighinolfi (1876-1956) fu autore di numerosi lavori storici, relativi soprattutto a Bologna e alla storia dell’Università di Bologna.
[4] Enrico Pazzi (1819-1899) studiò all’Accademia di Belle Arti di Bologna, trasferendosi poi a Firenze dove svolse un’intensa attività artistica.
[5] Un esemplare d’oro fu donato a Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele II.
6] Contiene l’orazione inaugurale del monumento a Dante Allighieri letta da Giulio Camuzzoni Presidente dell’Accademia di Agricoltura e Società di Belle Arti.
7] L’edizione è limitata a 300 esemplari.
[8] La narcolessia è una malattia neurologica caratterizzata da sonnolenza improvvisa, perdita di forze e paralisi del corpo nonostante la persona sia sveglia. E’ una malattia che colpisce quattro persone ogni diecimila nel mondo e dipende dalla scomparsa di un piccolo gruppo di cellule nel cervello. La manifestazione clinica della malattia ha due picchi di incidenza: il primo intorno ai 15 anni e il secondo intorno ai 35 anni, che corrisponderebbero esattamente con il famoso «Nel mezzo del cammin di nostra vita» se calcoliamo la durata media della vita ai tempi di Dante.
[9] Presidente della Scuola di Medicina e Chirurgia dal 2012, e Presidente della Società Medica Chirurgica di Bologna dal 2006 al 2011.