Premessa
Nel breve spazio di un articolo non è certo possibile proporre una trattazione esaustiva per lo sviluppo del tema, per cui ci si limiterà ad affrontare solo alcuni aspetti peraltro importanti che dimostrano come i frati Cappuccini fossero un tassello veramente interessante nella Bologna dell’epoca.
Mentre da tempo la musica sacra gode di una ricca bibliografia, gli usi musicali dei Cappuccini non sono mai stati oggetto di studi particolari: la scarsità della bibliografia viene in questo articolo ripagata da alcune note inedite e da una prospettiva di lettura diversa. Infatti anche se la documentazione indiretta riguardante il rapporto tra la vita conventuale ed il canto non è proprio abbondante, quella diretta è però insperata, preziosa e giunge fino a noi grazie all’attività di conservazione sempre operata nel tempo dai frati Cappuccini. Il Polo Culturale dei Cappuccini di Bologna con la mostra “Musica in Convento” dal 19 al 22 settembre 2013, dove sono stati esposti libri e manufatti dal 1550 ai giorni nostri, non solo si è preoccupato di evidenziare le peculiarità cappuccine, ma ha mostrato al pubblico anche alcuni testi di epoca pontificia preziosissimi.
Una trattazione ben strutturata, anche se ovviamente in questo caso non “tecnica” da critici musicali, deve avere comunque un punto d’inizio che si vuol sì porre nella semplice e necessaria illustrazione della storia dei Cappuccini a Bologna, ma per passare poi rapidamente ad analizzare il reale impiego della musica nei conventi destreggiandosi tra regole e vita quotidiana. Successivamente si rifletterà sul fatto che nella sua origine, l’Ordine si differenziava dal canto florido e artistico della tradizione cristiana e ciò non lascia dubbi sulle esigenze primarie avvertite dal nascente Ordine. Uno Statuto disinteressato dunque, estraneo all’espressione musicale che però non lascia sprovvisti di autentiche gemme.
Si affiderà quindi la conclusione del percorso alla riflessione sul “fare” dell’uomo e soprattutto sul “fare” dei frati Cappuccini.
Per una primo inquadramento storico dei frati Cappuccini a Bologna
I Frati Cappuccini vennero a San Giuseppe nel 1818 e vi abitano tuttora. La loro presenza a Bologna è attestata dai documenti dell’Ordine fin dal 1537, ma è dall’anno 1554 che i Cappuccini vi prendono dimora stabile. La storia dice che in quell’anno padre Angelo Della Chiesa da Savona, antenato di papa Benedetto XV, predicò la quaresima in San Petronio: il favore popolare e l’aiuto del Senato bolognese permisero a padre Angelo di ottenere il luogo che sarebbe stato la residenza dei Cappuccini fino al 1810.
La località posta sulle colline bolognesi tra Barbiano e San Michele in Bosco, era chiamata allora Belvedere o Belgodere. Il 3 maggio 1554 padre Angelo si recò sul luogo e ne prese possesso, cambiandone il nome in quello di Monte Calvario, nome che rimane corrente fino all’inizio del XIX secolo. Vennero costruiti quindi il Convento e la Chiesa (Santa Croce di Monte Calvario) secondo canoni di un’architettura semplice e spoglia, come si confaceva all’ ”essere Cappuccini”.
Non è purtroppo possibile tracciare una storia precisa di questi frati a Monte Calvario anche a motivo della loro austerità, comunque quello che è certo e visibile, è che Chiesa e Convento accrebbero nel tempo il loro patrimonio artistico.
La permanenza dei frati Cappuccini a Monte Calvario durò fino al 1810: la legge di soppressione generale di quell’anno pose termine alla loro vita di comunità religiosa. Chiesa e Convento vennero venduti, ed in seguito trasformati o in parte abbattuti. Sul luogo fu costruita quella villa che, dal nome di uno dei proprietari, si chiama ancora oggi Villa Revedin. Da notare che la strada che da via Castiglione conduce a San Michele in Bosco fino al 1942 si chiamò via dei Cappuccini e solo successivamente via Vittorio Putti.
Quando la tempesta rivoluzionaria si calmò, i Cappuccini ricomposero le file e tentarono di riacquistare la loro dimora di Monte Calvario, ma a causa della richiesta troppo onerosa dei nuovi proprietari dovettero ripiegare su altra scelta. Aiutati dal cardinale Carlo Oppizzoni (1769-1855), Arcivescovo di Bologna e Arcicancelliere della Pontificia Università di Bologna, si orientarono sul Convento e la Chiesa di San Giuseppe, che si confacevano alle norme dell’Ordine di avere luoghi fuori dell’abitato. L’11 ottobre 1818 i Cappuccini entrarono nel Convento, acquistato da benefattori, e stabilitisi a San Giuseppe, dovettero adoperarsi per riadattare gli ambienti alla loro vita comunitaria.
La musica non è musica, il canto non è canto
La figura del Cappuccino è parte di noi italiani. Alessandro Manzoni attraverso la sua arte ha creato il modello universale nel personaggio di padre Cristoforo e se gli storici dimenticassero di occuparsi di queste presenze, fisiche e spirituali, sarebbe la perdita non di qualcosa di esterno ma di interno a noi. Ovviamente non certo per un puro gusto di “farne museo”, ma per riscoprire il cammino di ricerca dei frati Cappuccini come lavoro di scavo in quella identità collettiva.
Il rapporto “musica e conventi” era stato trattato un po’ di tempo fa in un bellissimo articolo di Piero Mioli[1] che offre completezza di esposizione con riferimenti storici importanti, per cui con questo lavoro si cercherà di portare qualche spunto riflessivo solo sulla prima metà dell’Ottocento e sulle tracce lasciate nelle cronache dell’epoca dove alcune testimonianze di vita quotidiana cappuccina furono capaci di disattendere le norme costitutive facendo ricorso ad assidui interventi esterni.
Come prima cosa bisogna sottolineare che nella civiltà cristiana non si parla di “musica” ma di “canto sacro” o “messa cantata”: solo questi si ritrovano sotto forma di lemmi nei vari indici consultati, mai la parola “musica”. Quindi la musica non è un fenomeno a sé stante, ma è espressione che dipende dal rito e mai superiore alla parola. Del resto ci si rifà al canto cristiano autentico, quello comunemente detto “gregoriano”[2] perché semplice e sentito come originario.
Per quanto riguarda le varie fonti della costituzione dei Cappuccini, in esse non si fa nessuna menzione dell’impiego del canto o di strumenti musicali tipo l’organo e l’armonium nelle funzioni sacre, ma il 30 luglio 1841 i superiori dell’Ordine dichiararono ufficialmente che non era permesso tenere organi nelle loro chiese. Ancora: il Ministro Generale Venanzio da Torino, in una lettera inviata subito dopo il Capitolo Generale del 1847, biasima la comparsa nelle loro chiese di un qualunque tipo di canto vocale o strumentale.
Il Mioli inoltre riporta nel suo articolo che il 25 maggio 1859 si permise ai frati del convento di Genova di cantare la messa di San Lorenzo di Brindisi e che il 17 dicembre 1852 il Definitorio Generale dichiarò che gli organi potevano essere accettati qualora già introdotti ma facendone un uso limitato alla maggiori solennità rituali.
Se ci si sofferma anche solo superficialmente e “da profani” sulla vita pratica quotidiana, si vede che essa ha ignorato o contraddetto il rigore della sua impostazione; e tanto per fare un esempio lapalissiano. si pensi all’Alleluia che è una parte della Messa e un vocalizzo che rinuncia al testo.
Nel tempo non si contano le condanne scagliate contro certa musica sacra che appariva troppo profana e che metteva in ombra il testo della preghiera, comunque i frati minori Cappuccini dipendevano da uno statuto letteralmente disinteressato, o quanto meno estraneo all’espressione musicale a differenza ad esempio con agostiniani, carmelitani, olivetani e francescani per cui avrebbero dovuto non essere compresi nei richiami dei Superiori. Il contrasto tra la teoria e la pratica, fra quanto viene “caldamente raccomandato” dall’alto e quanto viene compiuto in una realtà che è sempre più articolata e meno coercibile del previsto, però si vedrà che agisce anche a proposito della tradizione cappuccina.
L’articolazione della frase attraverso l’uso delle pause, la chiarezza della pronuncia delle parole, il divieto all’uso della voce femminile, l’uso del registro scuro e grave, il non variare l’altezza del suono ma tenere una linea uniforme, il non cantare ma dire o recitare: questo era il canto “alla cappuccina”.
“Dire” è il verbo usato più di frequente, seguito da “leggere” o anche “recitare”, e non c’è dubbio che il regolamento cappuccino imponesse una semplice recitazione dei testi. A dare un’idea ancora più chiara della posizione dell’Ordine dei Cappuccini, si può sicuramente rimandare all’invito costante di “lodare Dio più col cuore che con la bocca”.
Il silenzio della musica cappuccina si leva umile e sincero fra la miriade di grandi musiche d’origine per esempio francescana, ma ad esempio una testimonianze sta a dimostrare una certa libertà di comportamento: si tratta del Missae in agenda defunctorum ex Missali Romano[3] del 1823 in eleganti caratteri bodoniani, con testi tratti rigorosamente da passi biblici o patristici (Ambrogio, Girolamo, Agostino, Gregorio).
Nel primo Ottocento a Bologna, come in varie parti d’Italia ed Europa, la musica sacra aveva accolto si può dire con naturalezza, alcune forme profane, dal belcanto classico allo strumentalismo puro, e questo disattendere dimostrato verso le raccomandazioni superiori era riuscito evidentemente a insinuarsi anche negli usi dei Cappuccini. Ma tanta tolleranza non poteva durare per sempre: verso la metà del secolo operava già il “movimento ceciliano”[4], intento a purificare la musica sacra dalle insistenti contaminazioni e a privilegiare invece il canto gregoriano. Quindi si ritrovano nuovamente espressioni musicali più adatte all’austerità della pratica religiosa e sicuramente più semplici e neutre rispetto al testo.
L’Ottocento è il secolo che comincia all’insegna di un nemico della Chiesa come Napoleone e prosegue sotto la protezione di un fenomeno conservatore come la Restaurazione, ma è poi sempre lo stesso che concede grandi libertà a tutte le arti. Nelle indicazioni di Analecta Ordinis Fratrum Minorum Capuccinorum la liturgia delle ore si manterrà complessivamente seguace degli antichi precetti, ma i momenti più solenni della vita conventuale, le visite illustri lasciano tracce non più casuali e ambigue come prima. Un esempio fra tutti: le commoventi cerimonie di riacquisto dei singoli conventi dopo la bufera napoleonica (1815-1822).
Il canto del Te Deum, il canto dell’Alleluia, la volontà che alcune delle ore liturgiche “si cantino” a differenza di quelle solo “da dire” sono fari del nuovo corso che i conventi cappuccini avviarono in materia di canto, mentre l’obbligo dell’acquisto dei salmi[5], è da ascrivere ad un’apertura culturale piuttosto che ad un approccio reale, visto che una copia per convento non bastava certo a fini attuativi.
Nei Cappuccini, fin dalle origini, l’elemento ascetico è strettamente unito alla funzione sociale, ma ciò che li distingue dagli altri Ordini religiosi nati nello stesso periodo tra Riforma e Controriforma è che essi non mirano a concretizzare la loro “modernità” in strutture tipo scuole o ospedali, ma tendono sempre e soltanto a dare una testimonianza evangelica nella società del tempo, con la vita povera e la Parola, concretamente.
Il 29 settembre 1844 viene consacrata la nuova chiesa si S. Giuseppe e le musiche che accompagnarono la solenne consacrazione furono tutte di carattere tradizionalmente gregoriano.
Conclusione
E’ stato scritto più volte che la coppia “prete” e “Cappuccino”, di don Abbondio e fra’ Cristoforo, come principio costruttivo della trama del romanzo manzoniano ha rappresentato per la spiritualità italiana e non soltanto italiana, una contrapposizione forte fra la filosofia dell’utile e una filosofia del sacrificio e della dedizione. In realtà Manzoni ha colto, al di là della metamorfosi letteraria, semplicemente un rapporto di complementarietà e di tensione che ha funzionato per secoli nelle nostre terre. Quindi il senso ultimo di questa seppur breve riflessione sulla “musica cappuccina” sta in fondo nell’aver voluto riproporre ancora una volta la differenza tra “ragione tecnica” e “ragione etica” rifacendosi all’Etica Nicomachea di Aristotele e ricordando quindi che la prima regolamenta il fare dell’uomo, mentre la seconda regolamenta il suo agire.
La presenza in Emilia Romagna di importanti e generosi benefattori e la concomitanza nello stesso periodo di celebri Scuole di artisti, hanno fatto dei conventi Cappuccini una concentrazione di beni culturali di inestimabile valore: si tratta soprattutto di libri e quadri. Il risultato è che le biblioteche dei conventi sono state naturalmente alimentate nei secoli con tantissimi volumi ora antichi e di pregio, dove il connubio tra bellezza e semplicità tipico del francescanesimo cappuccino, era ben visibile.
La biblioteca del Polo Culturale dei frati Cappuccini di Bologna svolge da alcuni anni un costante sforzo di inserimento in un mondo culturale più ampio di quello religioso e non è certo concepita come semplice deposito di beni culturali, ma si configura come vero centro culturale, un vero e pulsante luogo di ritrovo dove arte e spirito si incontrano.
La mostra sul “canto alla cappuccina” è stata così il ponte culturale e religioso tra passato e presente, tra Chiesa e società, e questo scritto vuole essere un piccolo contributo, a carattere più divulgativo che scientifico, per suscitare curiosità che portino a più estese ricerche da parte di storici della musica.
Note:
[1] Cfr. I Cappuccini in Emilia-Romagna. Storia di una presenza. A cura di Giovanni Pozzi e Paolo Prodi. EDB, Bologna 2002.
[2] Derivato dalla parola e intonato su testo latino, si presentava come monodico, sempre e solo vocale, ma soprattutto privo di nomi di autori. Fiorì lentamente durante i primi secoli del primo millennio e stabilito, fissato, scritto nel IX secolo.
[3] Chiesa Cattolica, Missae in agenda defunctorum ex Missali Romano. Parmae: typis Bodonianis, 1823
[4] E’ il nome che assunse un movimento musicale che riformò la musica sacra nell’ambito della Chiesa cattolica. Così chiamato in onore di Santa Cecilia, patrona della musica, fu una risposta alla quasi totale centenaria assenza del Canto gregoriano e della polifonia rinascimentale dalle celebrazioni liturgiche cattoliche.
[5] Sono libri contenenti gli antichi salmi biblici in notazione gregoriana.