Patrizia Fughelli - Il Cardinale Oppizzoni e il «Prendersi cura» in medicina

Per ottenere una comprensione non parcellizzata di un qualsiasi fenomeno è necessaria una comparazione condotta non solo tra vari campi del sapere ma anche della prassi umana. Il rafforzarsi del metodo comparativo  conduce quindi naturalmente all’integrazione dello studio comparato delle arti, medicina inclusa, e della letteratura nel senso più ampio possibile.
Questo mio lavoro vuole contribuire a definire alcune linee tematiche non molto indagate nell’evoluzione della cura delle sofferenze e non è un caso iniziare l’indagine dalla prima metà dell’Ottocento dove, per quanto riguarda il pensiero medico, la figura più importante non è quella di un medico, bensì quella di un cardinale.
Il Convegno di studi promosso dall’Istituto per la storia della Chiesa di Bologna tenuto nel novembre 2013, intitolato «Il cardinale Carlo Oppizzoni tra Napoleone e Unità d’Italia», per quanto estremamente interessante non ha presentato nessuna relazione che parlasse di Storia della medicina e soprattutto del rapporto di Oppizzoni con la medicina, per cui in questo necessariamente breve articolo, cercherò di colmare questa lacuna facendo un po’ di luce su due facce di questo aspetto.
Se l’11 ottobre 1818 i Frati Minori Cappuccini di Bologna poterono entrare nella sede del convento di San Giuseppe, questo avvenne per merito dell’arcivescovo cardinale Carlo Oppizzoni (1769-1855), arcicancelliere dell’Università di Bologna e protettore della Società Medica Chirurgica. Qui, esattamente nell’archivio e nella biblioteca, sono conservati documenti estremamente importanti per capire fino a che punto la figura di Oppizzoni ebbe estrema rilevanza nelle vicende religiose, politiche e “umanamente mediche” dei suoi tempi. Il suo fu un lunghissimo governo episcopale, dal 1803 al 1855, iniziato con presupposti non certo positivi e fu uno dei più importanti e controversi.
Nel corso dei loro duecento anni di vita, l’archivio e la biblioteca del Convento sono sopravvissuti a difficoltà di vario genere. Luoghi destinati all’esercizio per mettere alla prova e rafforzare le capacità intellettuali e morali di eruditi (frati e laici), hanno raccolto un notevole patrimonio bibliografico costituito da diverse migliaia di volumi e di documenti, grazie a scambi, donazioni e acquisti. Da tutta questa preziosa documentazione, spicca una circolare [1] del cardinale Oppizzoni dove, con toni solenni ed eleganti [2], si associa all’iniziativa dei medici e scrive ai parroci perché raccomandino la vaccinazione antivaiolosa sui bambini.
In questo documento, la prima cosa che balza agli occhi dei letterati è l’uso dell’arte retorica per propagandare la vaccinazione. Anche se questa di solito viene percepita come definizione di “segno negativo”, le parole di questo testo rispondono ad esigenze strategiche di persuasione, che sono poi azioni destinate a produrre effetti concreti. Si può dire che la capacità di comunicare, molto ben sviluppata in Oppizzoni, è stata l’essenza del tessuto sociale dell’epoca nel senso che è stata la strada maestra per l’intreccio dei rapporti individuali e collettivi, basilari per lo sviluppo della comunità bolognese. E la comunicazione in medicina ha rivestito un aspetto molto particolare perché ha  incluso ed esasperato fattori emozionali. Infatti, il propagandare la vaccinazione mostra ragioni valide ma sicuramente controintuitive [3] e le perplessità hanno in questo caso anche spiegazione psicologica soprattutto per quanto riguarda la popolazione: si pensi al nostro percettivo senso del disgusto che ci preserva da alcune infezioni tenendoci alla larga ad esempio dai cibi marci; ecco che è sempre la repulsione che ci fa inorridire di fronte alla dose, seppur minima, di agenti contaminanti introdotta nel corpo attraverso la vaccinazione. 
Per quanto riguarda il vaiolo[4], viene immediatamente alla mente papa Leone XII (1760-1829) che sembrerebbe avere proibito «l’innesto del vaiuolo che mischiava le linfe delle bestie con quelle degli uomini», ma questo non corrisponde al vero del tutto: a Bologna la Circolare del Legato non proibiva ai medici condotti di somministrare la vaccinazione [5] a tutti quelli che la richiedevano. Inoltre, come risulta da quanto riportato dalla Società Medica Chirurgica sul periodico societario [6], la Sacra Congregazione degli Studi nel 1827, dunque mentre Leone XII era ancora papa, aveva approvato i regolamenti della Società tra i quali c’era anche quello di darne valido impulso. Vero è comunque che Leone XII non aveva fiducia in questo metodo preventivo e non voleva che i regolamenti dello Stato lo favorissero.
Inizialmente la vaccinazione incontrò vari generi di difficoltà che spaziavano dall’atteggiamento di medici portati a sottolinearne soprattutto gli inconvenienti, fino a chi credeva contrario al volere di Dio sottrarsi ad una malattia vista evidentemente come espiazione. Inoltre, considerando appunto ad esempio il vaiolo, la pelle dei malati era vista come l’espressione cutanea ed esterna di un purgatorio viscerale interiore, indispensabile per liberare l’uomo dall’originale impurità della carne, così come era indispensabile il battesimo per liberare l’anima dal peccato originale.
Anima e corpo erano collocate in scale gerarchiche differenti: l’anima, dotata di vita eterna, si contrapponeva al corpo, destinato a una finitezza che lo rendeva indegno di cura. Tuttavia anche in ambiti ecclesiastici si cominciava a controbattere obiettando che l’anima comunque si serviva del corpo come di uno strumento necessario perché senza di esso non poteva compiere la sua finalità.
Considerando un simile preambolo pregiudiziale, la prima cosa del  documento di cui prima e che invece balza agli occhi dei medici, è una domanda: come mai il cardinale Oppizzoni non ebbe il blocco ideologico opposto da più parti al metodo preventivo, consistente nel cosiddetto innesto o inoculazione? E che anzi sollecitasse i preti a fare opera di convincimento presso le famiglie?
Dalla lettura della documentazione conservata si evince che potrebbe essere plausibile parlare non solo di “un’ipotesi igienica”, tipo quella che sarebbe stata di Stanley Plotkin [7] ma circa ben cento anni dopo, si potrebbe addirittura pensare che Oppizzoni non percepisse affatto una netta scissione o un aspro conflitto tra medicina e religione. I conti non li faceva contrapponendo le risposte della medicina a quella della religione ma con l’esigenza di oltrepassare la situazione esistente, sottolineando che rispondevano a bisogni diversi. Fu grazie anche a questa visione che i medici di allora riuscirono abbastanza agevolmente  a percorrere la strada verso l’ “immunità di gregge”, che ha protetto poi da quell’epidemia sia il piano individuale che su quello collettivo, e quindi si è conseguito un valore etico per la tutela della salute pubblica.
Inizialmente malattia e popolazione si incontrano su un terreno comune: quello della “dipendenza” e il ruolo centrale è quindi giocato dalla relazione, asimmetrica, che richiede da parte di chi ne detiene il “potere”, una grande assunzione di responsabilità. Ecco perché il “prendersi cura ha a che fare con l'impegno tipico dell'azione educativa: cura come direzione consapevole, scelta ed esercitata come impegno etico-deontologico.
Altro fatto da considerare, e non di poco conto, è che solo allo stato laico veniva concesso dedicarsi alla cura dei corpi venendo così a contatto con la loro pelle e le varie sostanze [8], mentre allo stato sacerdotale si chiedeva di mantenersi separato nell’intento di conservare “purezza”. L’interdizione alla pratica medica [9] rivolta a tutto il clero ebbe un effetto centrifugo e la medicina venne solitamente respinta nell’ambiente,  ma il cardinale Oppizzoni non ebbe alcun “blocco ideologico” perché evidentemente conosceva bene cosa volesse dire vaccinare [10]: sapeva distinguere tra mito e realtà. La storia dice che nel 1796 Edward Jenner (1749-1823) condusse un esperimento che alla fine lo avrebbe portato a debellare il vaiolo: inoculò ad un bambino materiale tratto da una pustola di vaiolo bovino e circa sei settimane dopo, inoculò in modo convenzionale materiale vaioloso sullo stesso bambino. Siccome non ci fu alcuna reazione, Jenner si persuase di avere dimostrato che il vaiolo bovino poteva produrre l’immunità per il vaiolo. Domanda: Jenner aveva fatto qualcosa di immorale? In ambito medico si dice che il suo primo esperimento non sarebbe mai stato approvato da un comitato etico moderno.
Si era comunque in presenza di un problema di carattere logico, e non di poco conto, che neppure oggi riusciamo a dipanare del tutto: i teologi che erano stati chiamati a pronunciarsi sulla legittimità o meno del vaccino quale protezione preventiva, erano dubbiosi perché l’inoculazione sembrava contrastare con i disegni imperscrutabili della Divina Provvidenza, sola arbitra della vita e della morte, della salute e della malattia. Era una questione che non solo richiedeva un netto pronunciamento fra scienza e religione ma che soprattutto costituiva un momento di confronto con le correnti più avanzate del movimento illuminista.
Da una prospettiva storica il ruolo di Oppizzoni con il suo schierarsi, è sicuramente di avere favorito il confronto tra diverse posizioni ideologiche e di avere modificato radicalmente l’atteggiamento dell’uomo verso la sofferenza. Siamo in presenza di un processo, descritto come nascita dello Stato terapeutico, che mostra chiaramente che il miglioramento nelle aspettative di vita del XIX secolo passa attraverso l’arte della difesa praticata da medici impegnati sul fronte sanitario. Le serie preoccupazioni di Oppizzoni, che condivideva con i medici dell’epoca, sono ben visibili nelle relazioni e nei suoi appunti conservati in modo mirabile: qui mostra il quadro buio della situazione sanitaria e, nonostante avesse ben chiaro il concetto “medico che cura, Dio che guarisce”, evidenzia la necessità che il sacerdote e il medico collimino in un’opera di “educazione all’igiene”. Quindi Oppizzoni supera anche il concetto secondo il quale la funzione del medico è intesa solo come ancillare all’intervento del parroco. Da questo momento in poi la teologia perse a poco a poco la sua ambizione inglobante.
Si evince però altrettanto chiaramente anche che, trovandosi ad affrontare un’idea di medicina che intendeva essere liberatrice [11], vigilò attentamente sulla produzione scientifica anche medica perché era il nuovo modo di ragionare, il quale implicava una “verità” clinica basata su malattia-metodo-esito, che suscitava più di una perplessità nell’ambiente ecclesiastico. Non bisogna dimenticare che la prima metà dell’Ottocento in generale fu un periodo storico di scontro frontale tra ragione e religione, ma il cardinale Oppizzoni seppe usare perfettamente la prudenza necessaria per evitare conflitti e reazioni locali allo scopo ovviamente anche di non compromettere il prestigio della religione. [12] Si trattava da un lato della necessità di sopravvivenza e dall’altro di usare strategicamente la medicina per la conquista delle anime, quindi la cura dei corpi non fu necessaria solo alla “permanenza in vita” della popolazione ma anche strumentale all’evangelizzazione.
Nei primi decenni della Restaurazione molti medici, uomini di cultura dell’Italia pontificia, avevano guardato a Bologna con fiducia per pubblicare i risultati delle proprie ricerche. Qui avevano avuto modo di sedimentarsi i frutti di una più ampia circolazione di libri e di idee [13] ma, alla diffusa libertà di stampa, si sostituì un pesante controllo tramite l’obbligo di “approvazione”, concesso da Revisori nominati dal cardinale Oppizzoni, e l’obbligo della “licenza di impressione”, concesso dalla Cancelleria Ecclesiastica Arcivescovile.
Vero è che, nonostante il mondo della medicina in epoca preunitaria veda sempre lo stesso pubblico, registri però la moltiplicazione dei periodici medici come luogo di dibattito anche culturale e l’analisi dei meccanismi comunicativi, di circolarità e fruizione dell’informazione, passa qui attraverso una semplice considerazione: l’accento è posto sì sulla trasmissione lineare delle conoscenze indirizzata ad un particolare profilo di utente ed implica l’idea di un sapere specializzato, ma anche sulla necessità di rendere partecipi dell’intero processo di produzione scientifica (creazione, controllo, verifica) i membri di una “certa” comunità. Va da sé che, anche in un clima come quello di contrapposizione tra medicina e potere, si capisce che non bastava solo un buon linguaggio a trasmettere nuove conoscenze, ma sono state necessarie Persone vere e un po’ fuori dagli schemi che pensavano già alla necessità di una visione geograficamente globale della medicina e salute pubblica.
L’organizzazione dell’informazione in questo periodo ha avuto sicuramente un ruolo chiave ed è proprio in periodi di “emergenza” in cui la conoscenza e la circolarità dell’informazione scientifica diventano strategiche, che vengono sviluppati nuovi strumenti e nuove modalità per consentire ogni ulteriore progresso. La medicina nel momento in cui deve mettere sulla pagina il resoconto delle sue operazioni, assume inevitabilmente la fisionomia di una narrazione, e come tali acquistano la dimensione di un racconto letterario. Lo stesso potrebbe dirsi nella registrazione di un decorso di una malattia. In fondo, l’anamnesi, avendo una temporalità, implica sempre una natura diegetica.
L’aspetto inedito, in questo caso lo si trova soprattutto nelle Circolari ed appunti del cardinale Oppizzoni, dove si trovano citazioni per il riconoscimento della validità ed autorevolezza, e dove si evince che non bastano più le “parole”, sostituite a questo punto da “termini”. Nell’esposizione c’è sempre un aggancio alla realtà, reso esplicito nella presentazione stessa, attraverso l’accurata distribuzione e organizzazione del materiale storico-informativo e lo scopo di questo tipo di informazioni era di far riflettere sui problemi sociali e sull’ambiente.
Ciò che appare evidente è che, considerato che la lettura “scientifica” nella Bologna del primo Ottocento era divenuta pratica sociale molto diffusa tra i medici,  di fronte a questo fenomeno, le autorità pontificie sembrano oscillare tra la difesa delle tradizionali pratiche di controllo controriformistiche e l’esigenza di più funzionali strumenti repressivi. Nessuno dei due comportamenti riuscì però a raggiungere l’obiettivo. Infatti la storia della censura nell’età della Restaurazione è prima di tutto la storia della sconfitta di una politica che tenta di frenare con strumenti repressivi una trasformazione culturale assolutamente inarrestabile, che ha le sue radici nella naturale evoluzione della società in senso moderno.
A ben guardare, la storiografia italiana non è certo avara di contributi sulla censura libraria nella prima metà dell’Ottocento, ma questi scritti non sono “usabili”, perché nascono tutti per lo più in due periodi chiave per la ricostruzione storica dell’identità nazionale: l’età postunitaria ed il ventennio fascista. I primi, che affondano le loro radici nella nascente ricerca archivistica di ispirazione positivistica, sono contrassegnati da un assolutamente fuorviante furore anticlericale, i secondi, tra i quali si registra pure il Sighinolfi [14], sono altrettanto assolutamente intrisi di retorica patriottica che spesso conduce a forzature. Stupisce però che il periodo storico che va dalla fine dell’età napoleonica alla formazione dello Stato unitario sia rimasto sostanzialmente in ombra per tantissimi aspetti e fatalmente condizionato da interpretazioni che oggi appaiono quantomeno inadeguate. Se la riaffermazione del principio del controllo preventivo della stampa fu comune a tutti gli Stati preunitari, diverse e molteplici furono le modalità di attuazione che dipesero non solo dalle legislazioni vigenti nei singoli Stati, ma anche dalle preferenze ideologiche e culturali dei singoli censori.
Vien da sé ora considerare ancora di più se possibile, il rilievo della scrittura e della registrazione, e non c’è dubbio che la società della prima metà dell’Ottocento fu anch’essa una società dell’informazione, intendendo con ciò tanto la necessità della comunicazione per la società quanto il fatto che fu un’epoca storica caratterizzata da una vera espansione della comunicazione nonostante la censura. Di certo una società per esistere deve comunicare, ma l’atto di comunicare da solo non basta anzi si rivela come una funzione subordinata a qualcosa di più sostanziale, cioè la registrazione.    
L’importanza del linguaggio e della scrittura nel “fare medicina” a Bologna in epoca preunitaria,  sembra difficilmente contestabile come fatto intrinsecamente sociale, e in effetti la scientificità ha a che fare con la documentalità [15], cioè con un sistema di comunicazione, iscrizione e attestazione. Una delle idee di fondo risiede anche nel fatto che la condizione indispensabile per la medicina è comunicare le scoperte e registrarle; inoltre il “deposito” in biblioteche e/o archivi conduce a una sorta di tradizionalizzazione delle scoperte.
Se, come ho fatto, si considerano come punto di partenza i documenti riguardanti il cardinale Oppizzoni conservati presso la biblioteca e l’archivio del Convento dei frati minori Cappuccini di Bologna, è bene dire subito che il termine “biblioteca” designa un deposito di libri, significando quindi tanto il contenente quanto il contenuto. Documento traduce il latino documentum, da doceo e significa “ciò che mostra o rappresenta un fatto”. Questa descrizione si coniuga perfettamente alle sfere che ho citato in questo articolo: quella storica, dove documento designa tutto ciò che appare rilevante per la ricostruzione del passato e quella informativa, dove il termine comprende tutto ciò che diffonde un’informazione. Nella prospettiva che ho proposto, il documento va concepito, piuttosto che come qualcosa di dato una volta per tutte, come reificazione di atti sociali. Ma che cosa stabilisce il nesso tra questi oggetti di cui sopra e i soggetti che stanno alla loro origine? E’ la firma, la cui importanza è decisiva e fondamentale. Oppizzoni quindi che si esplica attraverso l’imprimatur. Quindi un altro aspetto stranamente non ancora considerato sempre dagli storici, documentazione alla mano, é quello di  Oppizzoni appunto quale promotore e “validatore” di questioni mediche. Quello che sarebbe diventato il meccanismo del peer review si affermò come il criterio più efficace per assegnare attendibilità e valore scientifico alle pubblicazioni: in fondo ad esempio ai vari volumi del Bullettino delle Scienze Mediche compare una sua approvazione ed è evidente certo che teneva la stampa sotto la sua sorveglianza, ma anche che la sua circolare si pone di conseguenza come una sorta di validazione.
Se si mette in evidenza il tratto “scientifico” di una prosa non medica nei vari scritti di Oppizzoni è visibile una sorta di evoluzione nella struttura e nel contenuto: quanto scritto, unitamente  alla presentazione di nuove idee, è preceduto e motivato da una rassegna, da quanto fatto fino a quel momento, volto a mostrare l’insufficienza delle idee esistenti. Si è comunque riscontrato che i risultati spesso sono presentati in forma interrogativa. Il pregio di queste circolari, appunti e interventi, è nei loro valori etico-umanistici legati al senso critico, alle problematicità e alle scelte: al loro interno si parlava soprattutto di responsabilità e le questioni che venivano affrontate erano molte, non solo religiose o deontologiche, ma pratiche.
Bisogna evitare assolutamente sia di porre la medicina unicamente sul versante della razionalizzazione sia di attribuire alla Chiesa di Oppizzoni un’anima unica essenzialmente conservatrice e incompatibile alle novità, comprese quelle provenienti dalla medicina. Quello del cardinale Oppizzoni, ad una prima analisi, fu un avvicinamento alla medicina che mise da un lato la ricerca delle cause, considerate al pari di questioni metafisiche magari già “risolte”, e che virò nettamente verso una medicina che invece si configurava come impegno a lottare socialmente contro la miseria riconosciuta come prima causa di malattia. E’ in questo modo che cominciò a realizzarsi  un fondamentale cambiamento: lo spostamento dell’attenzione dalla malattia al malato.
La storia delle idee e della medicina può attingere anche da questo articolo che ricorda il nostro passato prossimo, dove si vuole anche auspicare una nuova alleanza tra medici, operatori sanitari, ricercatori e industria. Tutto questo per evitare che il patrimonio di salute pubblica, conquistato in anni di campagne vaccinali e alla cui formazione Oppizzoni ha partecipato attivamente, vada disperso. Se oggi è possibile avanzare dubbi sul bisogno di una operazione vaccinale è perché probabilmente si è persa la memoria storica delle epidemie e della mortalità infantile, le quali, prima che fossero scoperti vaccini e antibiotici, sterminavano nel vero senso della parola intere generazioni. Spetta anche a storici della medicina come me ristabilire questa memoria e difenderla da chiunque metta a rischio la salute di tutti.

Promuovere il diritto al significato non è sempre sufficiente. È tuttavia sul piano del fine intreccio delle biografie che si possono spesso cogliere in modo nitido i meccanismi attraverso cui fenomeni sociali di ampia portata vengono incorporati come eventi biologici. Quindi, sebbene i mattoni della nostra esistenza siano definibili in termini biologici, il progetto di edificazione è intimamente sociale e culturale.

   Vorrei concludere citando Piero Camporesi [16]

«Alla luce del postmoderno (dove il prefisso è indicatore più che altro di una vistosa marcia all’indietro e di un allontanamento da più umane forme di vita) è probabile che cresca non certo la nostalgia o l’invidia, ma la rispettosa considerazione verso il premoderno; che si valutino in chiave diversa la fatica e il sacrificio di quanti, esclusi dai privilegi dell’informatica per giustificabili carenze di secoli, tenuti lontano dai lenti passi del tempo dalle meraviglie tecnologiche dei nostri giorni, si arrabattavano per rendersi utili al prossimo sofferente, per lenire gli affanni degli  altri con senapismi e cataplasmi , con clisteri e suffumigi, con il complicato, farraginoso e forse inutile armamentario della farmacopea galenica, ma soprattutto con umana pietà e cristiana carità»

Note:



[1] La stessa circolare è conservata anche presso l’Archivio Generale Arcivescovile di Bologna, Raccolta Oppizzoni.

[2] Ai giorni nostri si parlerebbe anche di un altro meccanismo cognitivo noto come omission bias, secondo il quale si tende a considerare più pericoloso qualcosa che si fa piuttosto che qualcosa che non si fa. Nel caso dei vaccini l’iniezione che immunizza, che è un’azione concreta, viene percepita come rischiosa per i possibili effetti collaterali della malattia che previene, la quale viene considerata come un’eventualità.

[3] Chiesa Cattolica, Missae in agenda defunctorum ex Missali Romano. Parmae: typis Bodonianis, 1823

[4] E’ il nome che assunse un movimento musicale che riformò la musica sacra nell’ambito della Chiesa cattolica. Così chiamato in onore di Santa Cecilia, patrona della musica, fu una risposta alla quasi totale centenaria assenza del Canto gregoriano e della polifonia rinascimentale dalle celebrazioni liturgiche cattoliche.

[5] Era gratuita.

[6] Cfr. Circolare di S.E.R. il signor Card. Arcivescovo ai R.R. Parroci della Città e Diocesi di Bologna sull’importanza della Vaccinazione. In Bullettino delle Scienze Mediche, 3, 7, 1845.

[7] Stanley Plotkin, medico americano operativo verso il 1960 sul campo dei vaccini, sostenitore della tesi secondo la quale “era l’acqua che contribuiva alla crescita della popolazione”. Ai giorni nostri è noto che esiste una diversa risposta ai vaccini in rapporto al soggetto vaccinato (non responders/iper responders) e che è il sequenziamento genomico che consente il percorso individuale.

[8] Le tecniche diagnostiche della medicina erano basate sull’applicazione diretta dei sensi del medico (la vista, il tatto, l’odorato, il gusto) all’esame del paziente.

[9] Il cardine su cui tutto ruotava era la teologia che era il culmine di ogni sapere e tutto parla di Dio.

[10] Per un approfondimento si veda Arthur Boylston, The origins of vaccination: myths and reality, in «J R Soc Med» 2013, 106, p. 351


[11]I medici, per di più, non sono più impegnati in dotte diagnosi senza cure, ma sono operativi e operatori, sono interventisti.

[12]Fu sempre convinto che la cultura in sé, non sorretta e mediata dal filtro della fede e della morale cristiana, rappresentasse un pericolo per gli uomini.

[13] Per un approfondimento si veda Maria Gioia Tavoni, Libri e lettura da un secolo all’altro. Modena, Mucchi editore, 1987.

[14]Lino Sighinolfi (1876-1956) autore di numerosi lavori storici, relativi soprattutto a Bologna e alla storia dell’Università e della cultura, conseguì nel 1912 la libera docenza in Storia moderna all’Università di Bologna.

[15] Cfr. M. Ferraris, Documentalità. Perché è necessario lasciare tracce. Bari, Editori Laterza, 2009

[16] Piero Camporesi, Il governo del corpo. Saggi in miniatura. Milano, Garzanti, 1995