Paola Cadonici - Cibo e parole

"Quando sei invitato a tavola
vai presto per non essere chiacchierato"

(Filosofia popolare)


Chi si occupa di comportamento umano non si stupisce di trovare la bocca nell’occhio del ciclone disfunzionale, visto che è la sede di diverse funzioni fisiologiche e simboliche.
Quando veniamo al mondo siamo solo delle bocche circondate da corpi. Mentre mangiamo, per non morire fisicamente, ci prendiamo la nostra dose di relazione per non morire affettivamente. All’inizio della Vita spalanchiamo la bocca al seno che ci viene offerto e banchettiamo con chi ci ama perché la nostra comunicazione affettiva comincia e finisce col cibo.
Il linguaggio corrente conserva una traccia tangibile del significato relazionale contenuto nel cibo, tutte le mamme, anche le più colte, amano dire: -non mi mangia niente- quando parlano dell’inappetenza dei loro figli. Appena siamo in grado di coordinare i movimenti manuali portiamo alle labbra tutto ciò che ci capita a tiro. La bocca diventa la porta tra noi e l’esterno, ma anche tra noi e la nostra interiorità, è grazie ad essa che ci apriamo al mondo, che portiamo il mondo a noi e che scopriamo di avere un mondo dentro di noi. Appena ci impadroniamo dei primi suoni, cerchiamo di nobilitarla con la funzione verbale, ma, quando le parole non servono o non bastano, la facciamo ripiombare negli abissi cannibalici del morso, che ci ha dato i natali orali. Nei primi approcci interpersonale il bambino morde i suoi coetanei per conoscerli, per difendersi da loro, per minacciarli. Dopo una comunicazione tirata con i denti, finalmente arriva ad una comunicazione evoluta, fatta di voce, parole e silenzi.

Possiamo aspirare a diventare emotivamente adulti solo se vinciamo la paura dell’Altro, se rendiamo ragionevole il nostro egoismo, se mettiamo la museruola alla nostra aggressività, se educhiamo la nostra oralità ed ingentiliamo i nostri morsi trasformandoli in baci.
Senza i “se” la nostra vita di relazione rischia di essere lastricata da troppi “ma”. Nel linguaggio corrente c’è un modo di dire che ricorda quanto le nostre effusioni affettive abbiano origini cannibaliche: mangiare di baci.
Quando lo sviluppo emotivo procede senza grossi intoppi, la bocca con il passare del tempo dimentica il linguaggio primitivo del cibo e del morso e soddisfa il suo bisogno comunicativo unicamente con la Parola. Nella fame malata la bocca sembra non aver fatto il salto qualitativo dal mangiare al parlare ed usa il primo al posto del secondo.
Nemmeno il morso è stato del tutto superato da chi mangia troppo o da chi digiuna, a giudicare dall’aggressività espressa nei disegni e nelle libere associazioni verbali in terapia.
La bocca nei disturbi alimentari rimane intrappolata nella fase cannibalica.
L’anoressia e la bulimia, che presentano problemi relazionali irrisolti, continuano a banchettare con l’Oggetto d’Amore, la loro è simbolicamente una comunicazione a morsi.
Il cannibalismo comunicativo dell’anoressia e della bulimia è molto simile a quello della balbuzie.

In tutte e tre le forme troviamo una bocca onnipotente che tiene tutti col fiato sospeso.
Ad un corso di Teatro è stato chiesto a dei ragazzi che personaggio dell’Odissea avrebbe voluto interpretare, Marco, che è affetto da balbuzie, ha risposto: -Polifemo-.
Alla richiesta di un chiarimento sui motivi della preferenza ha aggiunto: -è un gigante, può guardare tutti dall’alto e ha una bocca più potente di un’arma -.
In terapia alla domanda -che animale ti piacerebbe essere?- Martina, che soffre di anoressia, risponde: -un lupo - e Lisa, che è affetta da bulimia, risponde: - un coccodrillo-.
Visto che a livello sociale ci sono due fenomeni emergenti : i disturbi alimentari e l’impoverimento linguistico, viene da domandarsi se possano essere collegati e se abbiano una matrice comune.
La superficialità relazionale causata dalla fretta produttiva e il conseguente impoverimento della comunicazione impongono la nascita di nuove forme espressive più agite che raccontate.
La fame malata forse può essere considerata un codice disperato coniato da una comunicazione inibita. La contrazione del lessico sta avvenendo in senso quantitativo e qualitativo, secondo numerosi studi fatti sui ragazzi della scuola dell’obbligo.
Oggi si parla male, si legge poco, si scrive peggio e non c'è più una differenziazione tra parlato e scritto. Fra le forme verbali che possono essere considerate dei fossili troviamo il congiuntivo.

Si chiede Beppe Severgnini nell’articolo La salute del congiuntivo:

Cosa succede al congiuntivo? E’ moribondo. Omicidio, suicidio o evento accidentale? Niente di tutto ciò. Credo che si tratti di una conseguenza logica di un fenomeno illogico. Sempre meno gente, quando parla, esprime un dubbio; quasi tutti hanno opinioni categoriche su ogni argomento....La crisi del congiuntivo, quindi, non deriva dalla pigrizia, ma dall’eccesso di certezze... . La crisi del congiuntivo coincide con il tramonto di verbi quali “ penso”, “credo”, “ritengo”. Pochi oggi pensano, credono e ritengono: tutti sanno e comunicano. L’assenza di dubbio è una caratteristica della nuova società italiana.

L’autore ritiene che alla base di questo eccesso di certezze ci sia la TV che, con l’insistenza di un martello pneumatico, cerca di inculcarci una falsa idea di sicurezza.
Se ci sentiamo dire tutti i giorni dalla pubblicità che siamo tanto furbi, nessuno può farcene una colpa se poi finiamo col crederlo davvero.
I messaggi televisivi hanno spazzato via in pochi anni il Dubbio che ha costituito la ricchezza filosofica del nostro passato.
Abbiamo imparato da Socrate che il punto di partenza del Pensiero è il sapere di non sapere. Cartesio ci ha insegnato a non avere paura del Dubbio perché da esso scaturisce ogni certezza: se dubito penso, se penso sono.
A ben guardare al microscopio il Linguaggio, non è scomparso solo il congiuntivo, ma anche il “lei “ e tutte quelle forme verbali di cortesia come “per favore”, “grazie”, “scusi”, “mi dispiace”.
Influenzati dalla TV che vuole instaurare tra i conduttori dei programmi, i partecipanti ed i telespettatori un clima di confidenziale cameratismo, tutti danno del “ tu” a tutti.
Non si insegna più a fare una lettura di contesto per stabilire se sia indicato il “ tu” o il “ lei “ ed i bambini crescono in un indistinto relazionale, caratterizzato dall’appiattimento dei ruoli.
Le richieste, che non sono accompagnate dai “per favore”, “grazie”, più che domande sembrano pretese.

Una pubblicità presenta un bambino di 8-10 anni, con un ghigno cattivo, che chiede con tono imperativo: -mamma fra quanto è pronto?-
Più che la reclamizzazione di un prodotto sembra la descrizione della comunicazione infantile attuale, che considera sinonimi le parole “pretendere” e “chiedere”.
Perdendo le espressioni “scusi”, “mi dispiace” abbiamo perso la capacità di metterci in discussione, di sentirci in colpa, di provare e manifestare il rincrescimento per i nostri sbagli.
Senza il dubbio, senza i ruoli verbali, senza le formule di cortesia, siamo diventati tutti più poveri ed il linguaggio, ridotto all’essenziale, esprime tutta la nostra indigenza di comportamento e di pensiero.
Se la bocca oggi viene educata solo a mangiare e ad esigere, significa che Polifemo è tornato.
John Galsworthy dice: gli occhi ti dicono quello che uno è; la bocca quello che è diventato.
Cosa siamo diventati! Famelici ed ottusi!

Quando il futuro ci chiederà chi ci ha annientati saremo costretti a rubare le parole di bocca ad Omero:

Il possente Polifemo dal profondo gridò:- Nessuno, amici per inganno mi uccide, e non a forza! - .

Quando si possiede una bocca dagli appetiti sfrenati ed un solo occhio per vedere fuori e dentro di sé, si può essere facilmente accecati da un qualunque Nessuno.



Paola Cadonici (Cibo, costume e dintorni. Riflessioni su gusti alimentari e disgusti comportamentali dei nostri giorni) Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 64-68

B. Severgnini (L’uomo del sabato sera. La salute del congiuntivo. Io Donna) p. 30 cit.
S. Moravia (Educazione e Pensiero) vol. I p. 93 cit.
S. Moravia (Educazione e Pensiero) vol. II p. 167 cit.
Spagnol (Enciclopedia delle Citazioni) p. 123 cit.
Omero (Odissea canto IX) vv. 565-567