L’evoluzione razionalizzante dell’uomo ha eliminato progressivamente
la cosmovisione magica, sostituendola con le articolazioni che danno
lustro a ogni storia della filosofia e della scienza.
JULIO CORTÁZAR, Per una poetica.
1. Il corpo bicefalo d’Italia. Un’introduzione
L’Idra di Lerna, il mostro a più teste che rinascono ogni volta che vengono recise, uccisa da Ercole, ha fornito a partire dal mondo antico (per lo meno da Orazio) un’efficace metafora politica, per simboleggiare in senso negativo le forze che si oppongono all’ordine e all’autorità legittimamente costituita. Si tratti pure, come avviene con la Rivoluzione francese (quando l’Idra era identificata con le forze vischiose della reazione e della conservazione), di un’autorità che rovescia gli antichi assetti, in nome del progresso e della giustizia. È proprio partendo dalla particolare articolazione, tutta ‘moderna’, dell’antica immagine mitologica (che accompagnò l’ideologia imperiale inglese), che nel 2001 gli storici Peter Linebaugh e Markus Rediker la impiegarono per richiamare quel momento, ineludibile, in cui un’autorità
costituita o costituenda si trova a dover governare il disordine, effetto necessario di ogni atto di fondazione di uno stato, di un impero, di un sistema economico[1]. Se cercassimo di trasporre l’immagine mitologica del mostro nel Novecento italiano, per provare a contare il numero di teste cui ci imbatteremmo se guardassimo in seno al popolo che abitava la penisola, scorgeremmo senz’altro il profilo di un corpo bicefalo, con una bocca rivolta verso nord e una, immobile, rivolta verso sud. Immobile, sì, poiché il tronco meridionale, quello recalcitrante al controllo, in verità scalpita stando fermo, condannato ad un fissismo senza tempo e senza storia. Non un’idra, dunque, ma un monstrum a due sole teste.
Cristo si è fermato ad Eboli è un testo ricco con un titolo complesso, che restituisce un’effigie specifica, quella lucana, dell’annosa questione meridionale. La linea mediana che separa i due colli del Cerbero è la soglia dell’arresto del figlio di Dio, in tutti i suoi significati che s’accompagnano al senso primario d’impossibilità d’essere cristiani, ossia persone[2], uomini riconosciuti come tali dal Cielo e dallo Stato. Nell’introduzione al volume, datata 1945, Carlo Levi delinea la geometria di un mondo chiuso, isolato, un sistema a tenuta stagna che guarda verso nord (o verso le Americhe) con rancore e desiderio, a mollo nel crogiolo della morte[3]. Ed è su questo suolo arido che i contadini conducono le loro esistenze già consumate dalla fame e dalla febbre, lontane dalla civiltà e dal senso della storia. Un libro complesso, dunque, che tocca svariate corde di un ventaglio ampio di problematiche ancora oggi, in parte e in una declinazione senz’altro differente, attuali.
Ciò che intendiamo porre in luce nel seguente contributo è un vero e proprio spaccato della condizione meridionale così per come descritta da Levi nel suo testo, nel segno di un’indagine che guardi non tanto ad una presunta definizione aprioristica del concetto di popolo, quanto ad uno studio a posteriori dei movimenti interni, dei comportamenti, delle strutture che lo innervano. Soltanto in un secondo momento, ossia dopo aver capito come esso agisca, tenteremo di capire cosa esso sia, compiendo il tragitto contrario dal piano descrittivo alla definizione. Non vi è dunque alcun assunto teorico di partenza, cui adeguare il testo; vi è, bensì il testo, che può dire molto sullo statuto ontologico del popolo per come visto dal Levi. Va da sé che l’enucleazione di temi specifici non possa scompagnarsi dalla cornice narrativa nel quale germinano. Sonderemo il significato molteplice dell’arresto di Cristo, vedremo il rapporto dell’abitante della Lucania col potere, la politica, la malattia, la magia e tenteremo di fornire, in fase conclusiva, una chiave d’accesso al problema della commistione tra religione e mito attraverso una lettura demartiniana della crisi della presenza.
2. Politica e potere tra stato, borghesia e medicina
Non risulta senz’altro difficile capire per quale motivo si sia scelta la Basilicata con “zona-campione per l’esame dei problemi del Mezzogiorno d’Italia”[4]. Levi, è ovvio, non la poté scegliere, gli toccò in sorte; ma Ernesto De Martino e Giovanni Battista Bronzini - due esimi studiosi, dei cui contributi ci varremo - decisero deliberatamente di concentrare i propri studi etno-antropologici e sociologici in Lucania per il semplice fatto che “il basso tenore di vita della sua popolazione si riflette nelle resistenze “ di quegli “usi e credenze”[5] così peculiari e difficili a morire. Del resto, la situazione storica che si va delineando nell’Italia di quegli anni non è delle migliori. Abbondano le discriminazioni dal sapore proto-lombrosiano, le colpevolizzazioni più o meno giustificate, già denunciate con ferma discrezione da Antonio Gramsci nel suo testo Alcuni temi della questione meridionale, laddove l’intellettuale sardo si scaglia contro lo snobismo della borghesia settentrionale nei confronti dei contadini meridionali considerati alla stregua di “esseri inferiori”, di “semibarbari o barbari completi, per destino naturale”[6] - vale a dire esseri biologicamente menomati, votati alla delinquenza, all’insolenza, al brigantaggio.
Carlo Levi cominciò la stesura del Cristo nel 1943, per terminarlo un anno dopo, ovvero in un biennio epocale quanto a nefasto fervore politico. L’intenzione dell’autore, in pieno clima bellico, fu quella di tentare una ricostruzione - dal mondo chiuso della propria stanza fiorentina - di una dimensione ermetica, conchiusa, come quella del sud che aveva conosciuto da confinato solo un decennio prima. Con uno sforzo di rammemorazione storica quanto più precisa, e che tuttavia strizza l’occhio alla rielaborazione romanzata di quanto visto e sentito sul campo tempo addietro, Levi tenta di “ricostruire la storia, la letteratura e l’arte degli umili, una storia tutta insieme minore”, a scorrimento parallelo e intangibile rispetto alla “grande storia, nazionale e individuale”[7]. In questo tentativo di riedificazione letteraria delle condizioni di due lustri precedenti, vissuti in una dimensione così disgiunta dai grandi fatti italiani, europei, mondiali, vediamo - pagina a pagina - l’approssimarsi dello scrittore-spettatore al personaggio, chiamato a vivere in prima persona (anche nello sforzo della memoria) i particolari che va descrivendo, guadagnando un piano sempre più interno rispetto alla cornice in cui agì da protagonista. La differenza tra le due figure progressivamente si assottiglia fino ad una immedesimazione totale e assoluta del personaggio con l’autore[8].
Questa prospettiva, che scaturisce dalla graduale fusione dei due poli, permette al Nostro di offrire un resoconto tanto dettagliato quanto rischiosamente compartecipato della Basilicata della seconda metà degli anni Trenta. Il prodotto finale è un testo di denuncia dello status quo politico, del dualismo abissale ed insanabile tra nord e sud, delle condizioni in cui riversa la popolazione delle aride terre lucane e del costume pittoresco di queste ultime. Alla luce di questo iato, se si accetta la ‘testa’ settentrionale dell’idra come cefalo ampiamente civilizzato e statalizzato, non restava che porre sotto il naso del grande pubblico il disagio lampante dei fratelli lontani, figli di un dio minore, quelli che non venivano raggiunti dalle cure dello stato, dalla ragione, dal tempo, dalla medicina: dalla storia.
Come detto, nella premessa al libro l’autore dà subito voce, anche se in forma impersonale, alla condizione contadina. Questa sottolinea la presenza di un perimetro al cui interno possa esercitarsi l’esistenza, una linea di demarcazione che divide il proprio mondo dal “mondo dei cristiani”, “di là dall’orizzonte”[9]. La faccenda si complica nel momento in cui si cerca di dare un volto e un nome, un’identità anche sommaria, a coloro che considerano i contadini non come uomini, ma alla stregua di bestie da soma. Non si tratta, infatti, soltanto di quella porzione di popolo che ha avuto in sorte d’abitare lo spazio retrostante questa ideale maginot, bensì persino di quei lucani che, infatuati e fascinati dal modello settentrionale e da certa ideologia fascista, decisero d’incarnare il tumore statale nel seno di un segmento di popolo da esso dimenticato.
Non appena giunto a Gagliano, Levi fa subito conoscenza delle logiche della piazza. A farsi avanti per socializzare col colto uomo del nord è quel manipolo di signorotti impettiti che costituisce l’amministrazione locale del paese. Ronzano attorno all’esiliato come sciami, dando origine ad una danza rituale per l’ostentazione della propria posizione nella gerarchia sociale, con l’unico intento di ottenere il favore dell’ospite e guadagnarne il rispetto. Podestà, farmacisti, anziani medici annoiati, sono “tutti iscritti al partito”[10], ma ben poco importa l’orientamento ideologico: se ora è il fascismo ad andare per la maggiore, un tempo erano tutti “nittiani o salandrini, e risalendo nel tempo, giolittiani o antigiolittiani, della Destra o della Sinistra, per i briganti o contro i briganti, borbonici o liberali”[11]. Non si tratta, in effetti, di una lotta politica reale. Sulle prime, si potrebbe avanzare l’ipotesi di una semplice e puerile emulazione dei giochi di Roma, in un tentativo nemmeno troppo celato d’innesto nella grande storia nazionale. A ben guardare, tuttavia, la questione è radicata più in profondità, nella sottile linea di confine tra la vita e la morte[12]. Infatti, detenere il potere - come bene rileva l’autore - è questione essenziale per avere l’esistenza salva e non dover rivivere le pene dei braccianti.
Il fascismo in sé permise soltanto un’ascesa drastica della classe piccolo-borghese[13], pronta a farsi forza della propria posizione per soverchiare i lavoratori della terra e i nullatenenti. La percezione della politica da parte di questi ultimi, al contrario, è nulla o di poco rasente la nullità. “La grandine, le frane, la malaria, la siccità”[14] vengono a costituire una serie di elementi che, nel complesso, detronizzano lo Stato in virtù di un’implicita mozione di sfiducia dovuta ad un senso forte d’abbandono. Roma, in definitiva, si configura come un punto lontano nel tempo e nello spazio, che per giunta non svolge un ruolo unicamente d’aperta passività, bensì un’azione attiva attraverso l’operato dei rappresentanti interni al paese, collusi col potere centrale. L’amministrazione, imponendo una certa idea di progresso dall’alto, mostra d’ignorare la realtà in cui viene ad inserirsi, il terreno sui cui avanza la pretesa d’attecchire. Non solo: la burocrazia e linguaggio burocratese formano un fronte compatto di ostacoli all’effettivo miglioramento della situazione, che conduce implicitamente ad un aumento del malcontento contadino e della disistima nei confronti del potere ‘nemico’[15]. Ai dettami di un potere centralizzato inesistente si sostituisce un senso comune di giustizia, che è quasi un senso naturale di affratellamento, il quale arriva a condensarsi in una volontà comune compatta e, a suo modo, legiferante[16]. Ma non è tutto.
Carlo Levi si presenta a Gagliano come intellettuale al confino, tutt’al più come pittore, ma non come medico; ed è soprattutto come tale che verrà accolto dai contadini, che affideranno le loro richieste mediche alla formazione universitaria di quello straniero privo di camice ma ricco di consigli. Il Podestà Luigino, rappresentante in pectore del fascio, presenta dopo poco al confinato lo zio Milillo, dottore formatosi in tempi remotissimi alla celebre Scuola Napoletana, e ormai quasi del tutto dimentico di come si conduca un esercizio della professione che prescinda dalla semplice somministrazione di chinino[17]. Milillo, che vive in competizione con l’altro medico condotto, figura schiva e sinistra, padre delle due farmaciste del paese, rappresenta, in certo senso, una declinazione effettiva del potere, il potere di allungare la vita e alleviare le sofferenze. Vista la sua innegabile incapacità, i contadini preferiscono affidarsi a filtri magici e ad una ritualità pseudocristianeggiante consolidata dalla tradizione. La competenza di Levi in materia medica lo porta, da un lato, a scavalcare l’autorità dei detentori effettivi di quest’arte, dall’altro, a sollevare piacevolmente costoro dall’incarico di avere a che fare con uomini - i contadini - negligenti, irrispettosi, morosi nei pagamenti; e, in ultima parola, ancora troppo diffidenti nei confronti della scienza, troppo attaccati a stregonerie pseudoscientifiche. L’esercizio della medicina da parte dell’esiliato incontra moltissimi ostacoli, come testimonia l’episodio della morte del contadino per un ‘problema di permessi’, il quale determina la partecipazione dell’autore al primo lamento funebre durante la sua permanenza. Il dottor Levi si troverà inoltre costretto a connettere le proprie conoscenze anatomo-patologiche con una tradizione sotterranea, fatta di remedia magica, di pozioni e litanie, espressione di poteri altri, oscuri, paralleli.
Questi rimedi costituiscono uno dei topoi maggiormente interessanti della vita lucana di quegli anni, così come descritta dall’autore. Non è solamente il Nord, dunque, o Roma e i suoi burocrati interni a considerare i contadini come bestie. Vi è un sottile confine, effettivo e misterioso, tra l’umanità e l’animalità, imprescindibile per una comprensione esaustiva dell’identità popolare degli abitanti di quelle terre.
3. La donna e le forze invisibili. Doppia natura e quasi-animalità
Quando il Podestà Luigino preleva Levi dalla piazza per portarlo a conoscere sua sorella, i poteri esecutivo e legislativo del paese rivelano il loro vero volto, che è un volto di donna. Caterina Magalone Cuscianna irretisce, sì, l’ospite con la preparazione di leccornie tipiche e buone maniere, ma non tarda a mostrare, con un gioco di impliciti, il proprio ruolo di comando sulle questioni fondamentali che riguardano il governo di Gagliano. Neanche a dire che per Donna Caterina, così come per tutti gli iscritti al partito, il fascio è “un mezzo qualunque per comandare”[18], e dunque, come abbiamo avuto modo di vedere, di avere salva la vita svettando sulla miseria.
Tuttavia, non è affatto singolare che il vertice implicito della gerarchia del potere sia affidato a una donna. Nell’affresco che Levi dipinge con parole precise e pennelli svelti, l’universo femminile s’impone come l’autentica roccaforte di comando di quel minuto fazzoletto di terra. Quando i contadini van per campi, il paese è in mano alle mogli, alle figlie, alle vecchie. Ciò che risulta singolare, però, è come in Donna Caterina vengano a mancare quegli attributi sinistri che sembrano caratteristici della cosmologia femminile leviana. Lo vediamo già nelle primissime pagine del Cristo, laddove l’autore descrive la sua prima abitazione, annettendo un fatto comune in quei luoghi. La vedova che lo ospita nella sua umile dimora perse il marito qualche anno prima per mano di una strega contadina, la quale aveva condotto a sé l’uomo mediante l’utilizzo di potenti filtri magici. Per troncare la relazione clandestina, che aveva per giunta dato il frutto proibito d’un figlio illegittimo, la donna lo aveva stroncato con una pozione mortale[19]. In questo passaggio troviamo due aspetti interessanti, relati alla magia: il motivo erotico e la fascinazione.
Come ha ben evidenziato Ernesto De Martino nel suo Sud e Magia, non potendo la donna ricoprire per costume un ruolo attivo nelle vicende amorose, è facile ch’essa si affidi al piccolo mondo dei complotti magici[20]. La potente attrattiva che si esercita con la sola condivisione, da parte di uomo e donna, di uno spazio ristretto, giustifica l’episodio che coinvolge l’autore e una sua anziana paziente. Quando l’ormai guarita signora viene a portare doni allo straniero guaritore, i due si trovano soli in casa; la solitudine mette in visibile imbarazzo la donna, senza che Levi, sulle prime, sappia darsi ragione di cosa stia accadendo. “Trovarsi insieme è fare all’amore”[21]. L’eros è una forza invisibile, che agisce sulle persone contro e al di là della volontà personale di rimanere nell’inazione amorosa. Questa condizione psichica d’incapacità di decisione e scelta, questa possessione per opera di potenze invisibili, prende il nome di fascinazione, pratica che prevede una agente fascinatore e una vittima fascinata. Il medio attraverso cui si fa strada questo legame potentissimo è lo sguardo. Se l’occhio del fascinatore/fascinatrice, da un lato, proietta un raggio invisibile ma effettivo, quello della vittima, dall’altro, costituisce una soglia sull’anima nuda e vulnerabile[22]. Il costume, pertanto, per arginare l’illecito amoroso involontario, proibisce apertamente ad una donna e ad un uomo d’incontrarsi senza la presenza di una terza persona.
La figura che meglio incarna questo connubio di femminilità e potenze sotterranee è senz’altro la governante di casa Levi, Giulia La Santarcangelese, strega, fattucchiera, esperta in ritualità magica precristiana e sapienza stregonesca; colei che lo inizierà ai suoi saperi, fornendo al dottore la chiave magica d’accesso alle grazie dei contadini. Non solo le donne penetrano i segreti delle potenze che non giacciono a portata d’occhio. L’autore si reca nel cimitero per leggere e godere del fresco d’un luogo ombreggiato. Il punto in cui meglio si fugge dal tiro della canicola è il fondo di una tomba scavata da poco e pronta per essere riempita col corpo della prossima vittima della malaria, della denutrizione, della magia o, più semplicemente, della vecchiaia. Il Nostro si stende nel tumulo e s’addormenta. Dopo poco viene svegliato dalla voce sinistra del vecchio becchino. L’uomo è conosciuto in paese per intrattenere un oscuro rapporto con le potenze animali invisibili. Tutti temono lui e il suo filo diretto con il potere arcano, impenetrabile per chi non gode dell’elezione verso ciò che si cela. Fu lui a domare i lupi che scendevano d’inverno tra le case per procacciare cibo, lui a cadere impotente quando una capra gli sbarrò la strada attraversando la gola[23] che strozza la parte sommitale del corso del paese, meglio nota come Timbone degli Angeli.
Ed è qui, con l’epifania della capra che nel Cristo si inaugura ciò che il cane Barone, Barone-leone, fedele compagno di Levi, coi suoi guaiti d’allerta solo preannunciava: la doppia natura degli uomini e delle bestie; degli uomini-bestie e delle bestie-spiriti. La reminiscenza sabiana del rimando alla figura della capra è evidente e costituisce il primo tassello di un bestiario che si protrae per l’intera estensione del testo con l’uomo-lupo, il cane-leone, et alia. Il becchino cammina lungo la carraia principale quando, senza apparente motivo, un grande torpore lo pervade, costringendolo a sedersi. L’animale balza fuori dall’oscurità e per l’intera sua permanenza impossibilita l’uomo a qualsiasi movimento. “I contadini dicono che la capra è un animale diabolico. Anche gli altri fruschi sono diabolici: ma la capra lo è più di tutti”[24] - tale è la credenza del villaggio. Essa si estende a tutti i fruschi e frusculicchi, a tutti gli animali selvatici, così come ad alcuni uomini e ad alcune donne. Ci fu persino il caso d’una donna nata da una vacca. L’aneddoto, ci conferma Levi, non stupiva nessuno dei paesani, poiché “tutto, per i contadini, ha un doppio senso […]: ogni persona, ogni albero, ogni animale, ogni oggetto, ogni parola partecipa di questa ambiguità”[25]. Qui si mostra chiaramente come il doppio senso contrasti quell’univocità che è tipica della logica. La ragione, assieme alla religione e alla storia, si è fermata con Cristo sul ciglio di Eboli. Tutto è realmente - e non simbolicamente - divino; tutto rimanda ad uno spazio sacrale-noumenico, e nel rimandare sfugge ad una piena comprensione manifesta[26]. La duplicità che percorre il mondo lucano è cifra delle sua indecifrabilità per mezzo di categorie politico-religiose della modernità. La Lucania si aprì solo all’auscultazione profonda dell’etnologia di De Martino, della sociologia di Bronzini e dello stetoscopio (pittorico, linguistico, medico) di Levi.
Abbiamo incontrato le articolazioni di un potere manifesto, quello statale, così per come vissuto dai contadini e dai funzionari interni al paese. Abbiamo, inoltre, intravisto, mediante l’universo femminile e animale descritti dall’autore, forme di un potere sinistro e carsico, celato, ma non per questo meno radicato nella cultura popolare del popolo lucano. È su quest’ultimo che urge maggiore chiarezza, una trasparenza che non può darsi se non per mezzo di un’indagine della relazione delle strutture religiose e delle strutture mitico-magiche. Soltanto per questa via potremo ottenere una breccia nel lato oscuro di quella duplicità che abbiamo visto essere costitutiva di senso. Ernesto De Martino, in ultima istanza, ci fornirà la chiave d’accesso per la comprensione del piano psicologico di alcune ritualità e litanie stereotipate dalla tradizione, di quegli uffici culturali fissati e inamovibili che ripristinano l’appaesamento del soggetto.
4. Magia e religione. De Martino e la crisi della presenza
Sulle pareti di quei tuguri dove i contadini convivono con gli animali, quasi a voler rinforzare il legame di parentela tra uomo e bestia, il dottor Levi nota affissi due piccoli quadretti incorniciati e lasciati alla mercé della polvere e del tempo. Le due immagini votive raffigurano il presidente degli Stati Uniti d’America e la Madonna nera di Viggiano. Se il primo sembra delegittimare lo Stato italiano con una palese strizzata d’occhio al sogno americano, oltre che costituire l’altra faccia edenica del rapporto magico con il mondo, la seconda, bruna e viscerale e sotterranea, “dea infernale delle Messi”[27], esprime un complesso rapporto tra magia e religione, il quale merita d’essere sondato con una certa cautela.
Durante le prime battute della permanenza a Gagliano, Levi pernotta - come detto - da una vedova del paese. In quel bugigattolo polveroso, l’autore incontra l’esattore delle tasse, prima figura della legge. Il capitolo successivo del Cristo, non a caso, è dedicato alla figura della legge di Dio, l’arciprete Trajella. L’esattore, nei suoi giri di riscossione forzosa, ottiene assai poco; ancor meno, in realtà, il curato amareggiato, che arriva a definire i paesani “scomunicati”, “asini”, “non cristiani”[28] in quanto non aventi religione. La questione, in verità, è assai più complessa. La religio, come la ratio e il vettore del tempo di cronos, ha un senso univoco. Nei territori del doppio, della quasi animalità, della bestialità antropomorfa, sappiamo che l’univocità è respinta, non è di casa. Tutto è molteplice, riverbera all’infinito. Non solo: tutto partecipa della divinità in senso carnalmente naturale, cosicché la determinazione confessionale religiosa viene espunta come inammissibile[29]. Come sapientemente rileva Giovanni Battista Bronzini, esiste tuttavia un’altra ratio, “quella con la minuscola, quella che mette l’uomo in rapporto con la natura, con le cose, con gli animali, senza tenere presente la nostra graduatoria, che vede al primo posto l’uomo, poi l’animale, e infine l’oggetto”[30]. Si stabilisce un rapporto paritetico, frutto d’un eguale potenzialità degli elementi del creato. Questo è ciò che il contadino chiama magia, e che interloquisce in maniera articolata sia col mito sia con la religione ufficiale.
L’elemento magico, dunque, non è semplicemente irrazionale, bensì connaturato al tipo di razionalità che ha attecchito nei secoli nella civiltà oggetto d’indagine. La mitologia intesse col mondo magico un rapporto proiettivo, almeno in un duplice senso. Da un lato, il mito si configura kantianamente come l’effetto di una proiezione noumenica sul soggetto, e non il contrario. Viene a mancare l’attività proiettante del soggetto, che invece subisce l’influsso di un nucleo di senso che pare far capolino dietro le cose, strutturandole in maniera intima[31]. È ciò che giace alle spalle del fenomeno a proiettarsi sul soggetto e a chiedere d’essere rielaborato in mito. Dall’altro lato, invece, s’instaura un rapporto dialettico tra mondo magico e mondo mitico, che nell’interdipendenza reciproca fungono da supporto l’uno per l’altro: “il mondo magico è il supporto rituale del mito, quindi, nello stesso tempo è il suo antecedente e il suo riflesso”[32]. Abbiamo così una realtà intrinseca ed essenziale che si proietta sui fenomeni e sui soggetti e viene rielaborata in mito, mito che riconosce nella magia il suo supporto rituale necessario affinché se ne penetri il mistero più recondito. Vi è pertanto un movimento ascendente, che procede dal nucleo di senso alla sua proiezione, e uno discendente, che viaggia in senso contrario e col supporto della ratio magica quale unico strumento di penetrazione del noumeno.
Se la magia si contrappone alle strette maglie della logica razionale, costituendone un’alternativa totale, non è altrettanto vero si contrapponga con la stessa nettezza alla religione. Giovanni Battista Bronzini sostiene che la civiltà contadina sia rimasta precristiana, non abbia conosciuto né la rivoluzione cristiana in favore del riscatto dei pauperes, né la civiltà cristiana storicamente determinata[33]. Ciò è senz’altro vero, ma bisogna procedere con molta cautela circa il rapporto tra magia e religione, poiché pare vi siano gli estremi per poter ipotizzare un vero e proprio innesto dell’una nell’altra. Come rilevato da Ernesto De Martino, infatti, le “sopravvivenze magiche lucane o genericamente meridionali pur vivono in qualche modo e assolvono, nella società data, a una loro propria funzione”[34]: svolgono un ruolo psicologico protettivo che in altri luoghi è demandato pienamente alla funzione religiosa. Con quest’ultima, tuttavia, convivono - ripensandola e ritrasformandola - in una serie di uffici culturali ibridi, magico-cristiani, sfuggiti nel tempo all’egemonia ecclesiastica che li voleva bandire, riassorbire nel culto standardizzato e stereotipato.
Si è venuto così formando un innesto di cristianesimo e sapere magico, che sopravvive al tempo e svolge la sua mansione psicologica senza posa. Quando don Trajella esprime il suo parere sulle credenze dei contadini, dice in realtà una mezza verità. La religione, come la ragione (logica) e lo Stato, connota univocamente un aspetto della realtà che, in quanto univoco, il contadino-uomo-animale respinge. Dunque, parrebbe non ci fosse cristianesimo che tenga. A ben guardare, invece, esiste una logica magica del mito, che ammette innesti di ritualità cristiana purché trasformati alla luce della doppiezza costituiva del creato. Solo questo cristianesimo è concesso. Cosa accada veramente, cosa avvenga nel soggetto affinché egli ricorra a tali stratagemmi è possibile indagarlo in profondità soltanto attraverso il contributo che il già citato Ernesto De Martino ha fornito, sulla scorta dell’analisi di Levi, agli studi etno-antropologici del meridione novecentesco; e non solo. Vediamo come.
Vi è un passaggio di Cristo si è fermato ad Eboli alquanto significativo per introdurre il problema. In una grigia giornata d’inverno, Levi viene contattato - in qualità di medico - da un contadino seriamente preoccupato per le condizioni di salute del fratello, che giace in una cascina lontana, vegliato da due donne. Il podestà Luigino trattiene Levi, poiché, forse per un gesto d’invidia del medico condotto, gli era stato revocato giorni prima da Grassano il permesso di esercitare la medicina. Dopo una lunga trattativa, il dottore riesce a raggiungere il luogo dove giace il malato, ormai in fin di vita. Nulla può ormai più salvarlo. Quando spira, ecco cosa accade:
Non aveva ancora finito di morire che già le donne gli abbassavano le palpebre sugli occhi sbarrati, e cominciavano il lamento. Quelle due farfalle bianche e nere, chiuse e gentili, si mutarono d’improvviso in due furie. Si strapparono i veli e i nastri, si scomposero le vesti, si graffiarono a sangue il viso con le unghie e cominciarono a danzare a gran passi per la stanza battendo il capo nei muri e cantando, su una sola nota altissima, il racconto della morte[35].
Così il lamento funebre ha inizio. Fino a poco tempo prima dell’avanzamento di certi studi etno-antropologici, tutto ciò costituiva “un mistero di cui non si possedeva la chiave”[36]. Abbondavano le congetture, la fenomenologia del gesto, le sue ipotetiche cause e le descrizioni dettagliate e pittoresche, ma si era ben lontani dal riuscire a sondare le motivazioni profonde di tale ritualità stereotipata. Tutt’ora, per farlo ci è necessario compiere un giro ampio di ricognizione sui testi di Ernesto De Martino e sulle sue fonti.
Nel 1948 Ernesto De Martino pubblica il suo Mondo magico, tra le cui righe introduce timidamente quell’ancor immaturo concetto di ‘presenza’ che riprenderà sviluppandolo nel corso dell’intera produzione filosofica successiva. Tale concetto è senz’altro fin da subito tributario del Dasein heideggeriano. De Martino, tuttavia, non aveva ancora avuto modo di leggere alcuna opera del teoreta di Messkirch; ne conosceva il celebre esserci attraverso la lettura che ne dava Paci, ossia esserci quale ‘essere presenti nel mondo’. Ma non era solo ad Heidegger e ai suoi interpreti che De Martino guardava. Il suo intento implicito era nientemeno che quello di polemizzare con l’unità sintetica dell’appercezione di Kant. Immanuel Kant postulava nella sua prima Critica questa unità quale centro di unificazione dei contenuti dell’io, il quale arriva a riferire i dati così elaborati a se stesso, ottenendo informazioni circa la propria identità. Tale unità, secondo l’antropologo italiano, non è affatto garantita, data, formata e astorica; va bensì ogni volta difesa dalle unghie del negativo e ricostruita[37].
Per dimostrare ciò e dare vigore alla querelle filosofica ingaggiata con alcuni dei titani del pensiero tradizionale, De Martino si serve di alcune osservazioni compiute presso i Tingusi dall’etnologo Shirokogoroff circa uno stato oniroide, lo stato di olon, che, secondo il Nostro, testimonierebbe la crisi. Durante tale trance, dovuta ad uno choc dal contenuto emozionale forte, viene ad annullarsi nel soggetto la distinzione tra coscienza soggettiva e oggetto, tra “presenza e mondo che si fa presente”[38], così che colui che ode divenga la parole che ode, non divenendo più presente a se stesso. Vi è come una possessione a guisa di quell’essere-agiti-da che abbiamo registrato nelle considerazioni precedenti sulla fascinazione: il terrore d’essere vittima di una potenza più grande e incontrollabile mette in scacco la presenza. L’angoscia che forte si scatena dinanzi alla morte, a quella morte che permea l’intera esistenza dei contadini e che colpendo un singolo colpisce l’intera comunità, fa vacillare la certezza del proprio esserci-nel-mondo, il proprio voler-essere-nel-mondo. Si delinea dunque una seconda critica implicita, questa volta ai danni di Heidegger, secondo cui il soggetto gettato nell’esistenza subisce una costante sensazione di spaesamento. De Martino vede via via negli istituti culturali del lamento funebre, nonché in tutte le forme rituali standardizzate e stereotipate dalla tradizione magico-cristiana, una soluzione appaesante alla crisi della presenza[39].
Il negativo, come l’essere aristotelico, ha molti nomi. Ciò che rimane invariato, nella molteplicità delle sfaccettature in cui esso si manifesta, è la struttura di massima della risposta appaesante. Prendendo il caso del lamento funebre, attestato come visto anche in Levi, “a una dato momento, la tensione parossistica cade in modo brusco e subentrano le stereotipie: il gridato e l’ululato si articolano in moduli verbali e melodici, e la gesticolazione disordinata si risolve in moduli mimici, gli uni e gli altri fissati dalla tradizione”[40]. La meccanicità, l’automatismo mediante cui si attua il modello mimico, oltre conferire “l’impressione di un pianto senz’anima, inattuale, destorificato”[41], ingenera uno stato di alienazione controllata, che “salva da una ben più pericolosa ‘alienazione radicale’: la crisi della presenza e il suo crollo nella follia”[42]. Qui De Martino aveva senz’altro in mente - attraverso la mediazione di Benedetto Croce, che ne tradusse per l’appunto proprio l’Enciclopedia delle Scienze in compendio nel 1906 - il non troppo celebre paragrafo 408, dove G.F.W. Hegel preannuncia le conseguenze nefaste del permanere del negativo senza superamento dialettico:
Rimanendo però invischiato in una determinatezza particolare, esso non assegna ad un tale contenuto il posto subordinato che l’intelletto gli destinerebbe, il posto che gli appartiene nel sistema individuale del mondo che costituisce un soggetto. Il soggetto si trova in questo modo nella contraddizione tra a propria totalità, sistematizzata nella coscienza e la determinatezza particolare, priva di fluidità e di coordinazione e subordinazione: è ciò che costituisce la follia[43].
La vertigine provocata dal rischio di non esserci induce uno stato di alienazione controllata che funge, sul profilo psicologico, da “gabbia protettiva dell’io”[44]. Il caos viene gestito, l’angoscia rientra grazie ad una ritualità che permette al soggetto di agire - e di non venire agito da una forza invisibile - in un modo “generico e impersonale”, che costituisce la tradizione collettiva del “si piange così”[45].
Laddove il negativo s’impone con prepotenza ad ogni angolo della vita, magia e religione rivisitata hanno saputo svolgere la propria mansione radicante, che restituisce identità al soggetto e gli consente di risanare i diritti sacrosanti dell’esserci. Gli istituti culturali fissati dalla tradizione svolgono dunque non tanto un ruolo miracoloso, quanto piuttosto si delineano come una garanzia di protezione e reintegrazione psicologica che fa allontanare la patologia e riabilita all’esistenza. E ciò è possibile sempre, poiché tale funzione si rinnova ad ogni nuovo impiego della tecnica rituale.
5. Conclusioni
Con il suo Cristo si è fermato a Eboli, Carlo Levi consegna alla posterità un’istantanea (letteraria e romanzata) della situazione della Lucania nella prima metà del Novecento. Sembra profilarsi come paradossale l’effettiva difficoltà che incontriamo nell’isolare una definizione di popolo da un testo completamente incentrato su di esso. Eppure, tant’è: resta complicato trovare una vena argomentativa alternativa al percorso dettagliato tracciato dall’autore. Tuttavia, fin dall’inizio abbiamo dichiarato la nostra strategia, la volontà di capire cosa il popolo del meridione sia sulla base di come si comporta, si muove, agisce.
Il figlio di Dio si è simbolicamente fermato a Eboli, condannando la sfortunata fetta di popolazione che vive al di sotto di quella linea ideale ad un difficile rapporto col potere. Lo Stato è Roma, Roma è lontana come Plutone da Mercurio. Il suo magnetismo non ha presa, e il meridione, recalcitrante al controllo, sviluppa metodi alternativi di vita. Intrattiene rapporti col potere, sì, ma con un potere oscuro derivante dall’intrinseca doppiezza delle cose, la loro natura animale-divina. La parte nascosta, il nocciolo noumenico che si cela, si proietta sui fenomeni come mito; il contadino, per coglierne nuovamente l’essenza segreta, utilizza il medio magico, uno strumento raffazzonato eppur finissimo in cui la saggezza popolare e stregonesca si mescola ad un cristianesimo rudimentale.
In un mondo chiuso, dove la tecnica tout court è sottosviluppata, il contadino si dota di mezzi primitivi che lo aiutino ad affrontare la grande angoscia di fronte alla storia[46], alla morte, al negativo. Istituti culturali primitivi, quali il lamento funebre ed il sapere magico, fungono da gabbia protettiva dell’io sul piano psicologico. Perché in fondo, tutta la questione si racchiude in un problema dal sapore fichtiano:
La storia è storia di liberazione dell’uomo dalla schiavitù, dalle oppressioni, dai dispotismi. L’uomo si deve liberare anche da un non-io interno, in quanto all’interno dell’uomo non c’è solo la ragione, ma ci sono anche quella che Kant ha chiamato inclinazioni. Quindi l’uomo deve lottare per superare anche gli ostacoli interni alla propria liberazione.
Dinanzi allo sgomento per la perdita di un caro, per le condizioni inaccettabili di miseria, malaria, fame, il momento negativo sembra inceppare il processo dialettico volto al superamento di tale fase. Non c’è speranza, riscatto, redenzione, ma solo un destino ineluttabile. Vi è un fissismo insopportabile, un indugiare su tale negatività che rischia di farsi patologica. Il blocco diviene interiore, l’angoscia atrofizza la volontà e la salute è messa a repentaglio. Qui viene in aiuto la tradizione, il ritorno a modelli prefissati s’impone come fondamentale per il raggiungimento di una sintesi risolutiva di tale dramma.
Chi è dunque il popolo del Mezzogiorno italiano del primo Novecento? È una comunità dimenticata dallo Stato, che intrattiene rapporti con un potere altro, oscuro, sinistro, divino, dove l’unica legge conosciuta è il buon senso e la legge di natura; e in cui i suoi membri stringono rapporti parentali - più o meno effettivi, eppur fortissimi - che li affratellano, apparentano nella carne. È una comunità dimenticata dal Dio cristiano, dal Dio delle altezze celesti e protetta dalla Madonna di Viggiano, dai suoi santi tellurici e sanguigni, abitanti delle profondità della crosta terrestre e posti a tutela delle messi. È una comunità in cui la morte fa capolino dietro ogni cosa, e dove si è dovuto ricorrere a stratagemmi psicologici di sorta per perpetuare il miracolo della riabilitazione dell’esserci nel mondo. Che dire dunque in relazione alla questione dell’identità? La lezione di Marc Augé risulta vitale: “Il luogo comune dell’etnologo, e di tutti coloro di cui parla, è appunto un luogo: quello occupato dagli indigeni che vi vivono, vi lavorano, lo difendono, ne segnano i punti importanti, ne sorvegliano le frontiere, reperendovi allo stesso tempo la traccia delle potenze ctonie o celesti, degli antenati o degli spiriti che ne popolano e ne animano la geografia intima, come se il piccolo segmento di umanità che in quel luogo indirizza loro offerte e sacrifici ne fosse anche la quintessenza […]”14[47]. Il Mezzogiorno, quel Mezzogiorno considerato barbaro e arretrato, lotta in verità per un’identità propria, e lo fa attraverso strumenti differenti rispetto a quelli cui ricorre, ad esempio, l’altra porzione di popolo, quello settentrionale. Non dobbiamo pertanto, né ora né allora, cadere nella tentazione di svalutare lo sconosciuto solamente perché irriducibile alle categorie conosciute e consolidate, comunemente accettate. La Lucania di Levi ha la sua tradizione, la sua strategia con cui ogni volta l’essere-nel-mondo rivendica il suo diritto di esserci.
Bibliografia
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P. Linebaugh, M. Rediker, I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di una utopia libertaria, Milano: Feltrinelli, 2004.
R. Nisticò, Ernesto De Martino e la teoria della letteratura, in “Belfagor”, n. 3, 2001
Note:
[1] Cfr. P. Linebaugh, M. Rediker, I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di una utopia libertaria, Milano: Feltrinelli, 2004, p. 10.
[2] Cfr. G. B. Bronzini, Mito e realtà della civiltà contadina lucana, Lecce: Galatina, 1981, p. 193.
[3] Cfr. C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Torino: Einaudi, 1967, p. 3.
[4] G. B. Bronzini, Vita tradizionale in Basilicata, Matera: Montemurro, 1964, p. 3.
[5] Ibid.
[6] A. Gramsci, La questione meridionale, Roma: Editori Riuniti, 1995, p. 9.
[7] G. B. Bronzini, Mito e realtà della civiltà contadina lucana, cit, p. 11.
[8] Cfr. ivi, p. 190 e cfr. ivi, p. 229.
[9] C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, cit., p. 3.
[10] Ivi, p. 67.
[11] Ivi, p. 21.
[12] Cfr. ivi, p. 24.
[13] Cfr. ivi, p. 222.
[14] Ivi, p. 67.
[15] Cfr. ivi, p. 220.
[16] Cfr. ivi, p. 202.
[17] Cfr. ivi, p. 13.
[18] Ivi, p. 47.
[19] Cfr. ivi, p. 8.
[20] Cfr. E. De Martino, Sud e magia, Milano: Feltrinelli, 2010, p. 21.
[21] C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, cit., p. 87.
[22] Cfr. E. De Martino, Sud e magia, cit., pp. 15-18.
[23] Il paese si sviluppa su un crinale. La strada principale ne è la dorsale, ai cui lati le frane hanno scavato crepacci ripidi e pendii scoscesi. L’onnipresenza del vuoto s’impone come leitmotiv di un horror vacui che Levi dilata lungo l’intero testo. In apertura del libro, infatti, è proprio il burrone ad introdurre il ruolo della morte e della presenza spiritica: la banda di Grassano vi cadde nei gangli più remoti e da quel giorno i contadini odono il suono delle loro trombe dal fondo della gola. Non è dunque un caso che la capra si palesi dove la vacuità è padrona.
[24] C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, cit., p. 58.
[25] Ivi, p. 102.
[26] Ibid.
[27] Ivi, p. 104.
[28] Ivi, p. 38.
[29] Ivi, p. 102. Benedetto Croce, guardando alle categorie del suo pensiero, era già arrivato ad affermare l’incompatibilità di poesia e religione. La prima, afferma Croce, è paladina del nuovo, che sempre improvviso erompe nell’intuizione e dà vita a forme non conosciute; la seconda, che è una sottocategoria della filosofia, dunque della logica, svolge al contrario la funzione specifica di riportare la mente a strutture fisse, a strutture che nella loro solidità si costituiscano come appiglio sicuro nella caoticità della crisi della presenza. Il doppio, non a caso, è caratteristica della poesia. Sulle prese di distanza di Ernesto de Martino da Benedetto Croce si veda S. F. Berardini, Presenza e negazione. Ernesto De Martino tra filosofia, storia e religione, Pisa: ETS, 2015.
[30] G. B. Bronzini, Mito e realtà della civiltà contadina lucana, cit., pp. 243-244.
[31] Cfr. ivi, p. 102.
[32] Ivi, p. 190.
[33] Ivi, p. 194.
[34] E. De Martino, Sud e magia, cit., p. 118.
[35] C. Levi, Cristo si è fermato a Eboli, cit., p. 199.
[36] E. De Martino, Mondo popolare e magia in Lucania, Roma-Matera: Basilicata ed., 1975, p. 31-32.
[37] Cfr. S. F. Berardini, M. Marraffa, Presenza e crisi della presenza tra filosofia e psicologia, in “Consecutio rerum”, anno I, n. I, p. 94. Circa l’opinione negativa di Ernesto de Martino riguardo la letteratura apocalittica e la sua funzione spaesante, rimandiamo a F. Fortini, Gli ultimi tempi. Note al dialogo De Martino e Cases, in “Quaderni Piacentini”, n. 23-34, 1965; R. Nisticò, Ernesto De Martino e la teoria della letteratura, in “Belfagor”, n. 3, 2001.
[38] E. De Martino, Il Mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Torino: Bollati Boringhieri, 2007, p. 72.
[39] S. F. Berardini, M. Marraffa, Presenza e crisi della presenza, cit., p. 97. È importante notare come il dialogo implicito con Heidegger arrivi a toccare quasi tutti gli snodi fondamentali del pensiero dell’autore tedesco. Heidegger, in un celebre passaggio cardine, afferma che lo spaesamento (Unheimlichkeit) conduce il Dasein allo scioglimento dei legami pubblici col Si (Man) impersonale. Per De Martino, è esattamente il contrario, e lo vedremo poco più avanti nella stereotipia del “si piange così”. È proprio la perdita nell’impersonalità della socialità e della tradizione a costituire quell’elemento appaesante che consente al soggetto di ridelineare un nuovo orizzonte di abilitazione all’essere della presenza. Se Heidegger respinge il Si, De Martino lo recupera. Si piange come se piangesse un altro. Per informazioni più dettagliato rimandiamo a ivi, p. 99.
[40] E. De Martino, Mondo popolare e magia in Lucania, cit., p. 136.
[41] Ibid.
[42] Ivi, p. 97.
[43] G. F. W. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, vol. III, Filosofia dello spirito, A. Bosi (a cura di), Torino: UTET, 2000, p. 218.
[44] S. F. Berardini, M. Marraffa, Presenza e crisi della presenza, cit., p. 97.
[45] E. De Martino, Mondo popolare e magia in Lucania, cit., p. 138.
[46] Se per Levi l’angoscia è sempre verso la natura, non è lo stesso per Bronzini, che sostiene invece una conseguenza angosciosa anche del mancato rapporto con la grande storia nazionale.
[47] Marc Augé, Nonluoghi, Milano: Eléuthera, 2009, p. 53.