Piero Camporesi fu particolarmente attento a indagare tutto ciò che riguarda la fisicità dell’uomo, il ‘basso’ corporale, dunque soprattutto la cultura popolare, più fortemente permeata di questa percezione immediata e sensoriale dell’esperienza quotidiana. In tale prospettiva, sviluppata con grande sensibilità antropologica oltre che filologica, Camporesi non poteva non imbattersi nel tema del cibo, evidentemente decisivo in qualsiasi discorso che voglia porre al suo centro la corporeità dell’uomo (pur se conosciamo bene, anche grazie alle sollecitazioni dello stesso Camporesi, il forte spessore culturale che si cela dietro il gesto apparentemente istintivo del mangiare). Perciò il cibo divenne, col trascorrere del tempo, uno dei suoi principali ambiti di interesse. Camporesi vi entrò da par suo, cioè da storico della letteratura. Quando, nel 1970, curò per le edizioni Einaudi una versione commentata e annotata della Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, apparentemente stava solo facendo il suo mestiere – sia pure applicandosi a un ‘genere’ tradizionalmente snobbato dall’accademia. Ma l’impegno non era solo, né prevalentemente di ambito filologico-testuale: curare l’edizione di Artusi fu un’occasione per riflettere sui contenuti, per proporre, nella lunga Introduzione, una storia della cucina italiana attraverso lo specchio della letteratura gastronomica. Rievocando lo sforzo artusiano di costituire un patrimonio gastronomico comune della nazione a partire dalle sue diverse culture (cioè da ricette locali proposte, con gli opportuni adattamenti, all’attenzione generale) Camporesi elaborò, improntandolo dalla linguistica, la nozione di “gustema”, scrivendo che “La Scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare i Promessi Sposi”, dato che “i gustemi artusiani sono riusciti a creare un codice di identificazione nazionale là dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani”. Affermazione divenuta celebre e riproposta decine di volte da decine di commentatori, fino a ingenerare nausea nello stesso Camporesi; ma non c’è dubbio che si trattava di un’intuizione fulminante, di quelle, appunto, destinate a diventare un luogo comune, con tutti i limiti ma anche con tutta la forza di verità che i luoghi comuni possiedono.
C’è molta passione, molta partecipazione emotiva nel lavoro di Camporesi. Osservando la profonda modificazione dei costumi alimentari, che sovverte equilibri consolidati da secoli, egli non nasconde un senso di profondo disagio. Il crollo dell’universo pre-moderno, fatto di solide percezioni corporali, di un intimo rapporto fra uomo e natura, fra ritmi biologici e ritmi stagionali, viene stigmatizzato in pagine di inequivocabile durezza: “Il consumo televisivo di massa e la politica culturale dei gruppi di potere – scrive nell’Introduzione al volume Alimentazione folclore società (1980) – hanno potentemente fiancheggiato la rivoluzione dietetica dell’ultimo ventennio che ha sconvolto secolari equilibri fisiologici e umorali”. Con evidente ironia allude alla “corretta” alimentazione divenuta mito e ossessione della nuova società, plagiata da una “ideologia dietetica” guidata dal capitale internazionale, secondo cui “gli alimenti calibrati e bilanciati possono servire – con debite variazioni – sia all’allevamento dei polli, sia alla crescita dei bambini, sia alla tavola dell’uomo moderno” – “uomo moderno”, ovviamente, tra virgolette (p. 11). Ha un bel dire, Camporesi, che “ne prendiamo pacatamente atto senza nostalgia e senza desideri d’impossibili recuperi”: se questa è la ragione che parla, il cuore pensa altrimenti. Del resto furono proprio quelli (tra il 70 e l’80) gli anni più drammatici di questa crisi culturale, il momento del massimo disorientamento e della massima mistificazione.
Dopo l’edizione dell’Artusi e dopo i saggi raccolti in Alimentazione folclore società, Camporesi torna più volte sui temi della cucina e dell’alimentazione, sempre a cavallo fra filologia e storia, letteratura e società. Memorabili i due volumi usciti tra 1978 e 1980, entrambi per i tipi del Mulino, dedicati il primo al Paese della fame, il secondo al Pane selvaggio. Intervistato sui giornali a proposito di quest’ultima fatica, difende orgogliosamente il suo metodo di ricerca e il suo oggetto di studio: “Il metodo – dichiara – non discende certo dall’idealismo crociano, ma dalla grande tradizione positivistica, spesso trascurata, che ha avuto anche l’Italia: per fare dei nomi, D’Ancona, Novati, Ludovico Antonio Muratori. Non l’Italia delle parole insomma, ma quella dei fatti e dei documenti” (intervista a Cesare Medail, “Il Corriere della Sera” 24.1.1981). Ma i pitocchi, i subalterni, gli illetterati – quella umanità marginale a cui principalmente si rivolgono le sue attenzioni – non lasciano documenti. E dunque, come farli parlare? “Bisogna giocare di sponda, come nel biliardo – spiega Camporesi. – In un archivio si può trovare per esempio il verbale di un processo, nel quale si mescolano tre culture, quella dell’interrogato, quella dell’auditore, quella dotta del cancelliere. Poi bisogna decodificare quanto dicono: in un processo per magia si possono arrivare a leggere gli stimoli della fame in un mondo derelitto”. Ma soprattutto – è ovvio – le fonti letterarie restano al centro di questa ricerca sulla cultura della povertà, che nasce dai bisogni del ventre e ad esso costantemente si riconduce: un angolo prospettico “che parte dal principio e non dalla fine”, per penetrare nella sostanza “corporale” degli eventi.
Visionario, e non meno ricco di suggestioni, è il saggio su La carne impassibile, pubblicato da Camporesi nel 1983 per Il Saggiatore. Protagonista, anche qui, la fame, ma una fame diversa, non voluta ma scelta: sono le pratiche di astinenza, i digiuni forsennati, l’ossessione del cibo come strumento del piacere e del peccato, che una lunga tradizione cristiana consegna alla cultura controriformistica uscendone esaltata, esasperata. Libro di bellissima scrittura, ancora una volta sospeso fra letteratura e storia, forse una delle migliori prove di Camporesi nell’arte di mescolare il linguaggio suo a quello delle fonti, incorporato in una trama narrativa fitta e appassionante. Viene, poi, pubblicato da Garzanti nel 1990, Il brodo indiano, affascinante ricostruzione dell’Età dei Lumi attraverso i comportamenti a tavola e i consumi alimentari – a cominciare appunto dal “brodo indiano” ossia dal cioccolato. Vasto affresco storico, che ricostruisce le trasformazioni del gusto avvenute nell’Europa del Settecento in rapporto con l’evolvere della società, dell’economia, della cultura, il saggio si snoda con minori concessioni al piacere di scrivere, riconducendosi sempre a una solida informazione documentaria anche se, ovviamente, sono ancora le fonti letterarie a farla da padrone. Altri saggi importanti sono raccolti in volumi come La miniera del mondo (Il Saggiatore 1990) o Le vie del latte (Garzanti 1993), dedicati da Camporesi ai temi alimentari.
Il rapporto fra lingua e cucina è una delle chiavi per comprendere il viscerale interesse del letterato Camporesi per la storia dell’alimentazione. Perché la cucina è, appunto, un linguaggio, come Camporesi stesso ci insegna in un saggio fondamentale (Mito gastronomico e verità alimentare) uscito nel 1973 quale inserto del “Calendario del popolo” (n. 348), confluito l’anno dopo nel volume Emilia Romagna dell’editore Teti, ripubblicato infine in Alimentazione folclore società. Applicando i modelli dello strutturalismo saussuriano all’indagine dei sistemi alimentari, egli propone un parallelismo tra cucina scritta (i ricettari) e parole, alimentazione popolare e langue, una quasi aritmetica proporzione “cucina sta a alimentazione popolare come parole sta a langue”, dove “l’elemento innovatore (personale o di gruppo) è offerto dalla parole, mentre la langue sta ad indicare il sistema conservativo; e dove, in perfetto parallelismo, la cucina (che è parole e quindi letteratura scritta, con un largo margine d’invenzione personale) è innovativa rispetto all’alimentazione popolare (la langue), statica e conservativa” (p. 76). E questo non per necessità metafisica, ma per esigenze di utilità economica: mentre la necessità spinge ad elaborare forme sicure e stereotipate, la sicurezza consente libere invenzioni. È dunque lo storico contrasto tra fame e abbondanza a generare la dialettica langue-parole (in senso gastronomico). A partire da tali presupposti teorici Camporesi avanza un’interpretazione, ancora una volta, pessimista – pur se presentata in termini scientificamente neutrali – degli sviluppi recenti della storia gastronomica: se è vero, come si ammette in linguistica, che “la langue come tale non conosce la possibilità di ricuperare il passato”, mentre “la parole può benissimo operare agganci e recuperi in una prospettiva diacronica”, se ne deduce che è impossibile riattualizzare le forme folcloriche – cioè la cucina popolare – una volta estintisi i rappresentanti di una certa tradizione. “Per questo, tutto ciò che viene [oggi] propinato all’insegna del ‘tipico’, del ‘caratteristico’, del ‘paesano’, del ‘casalingo’ è quasi sempre kitsch alimentare” (p. 77).
Sul merito delle interpretazioni di Camporesi – alcune datate, altre attualissime – è lecito, anzi doveroso discutere. Ciò che è fuori discussione è che le sue elaborazioni concettuali, l’interpretazione del codice alimentare in chiave linguistica, il parallelismo tra linguaggio e alimentazione siano diventati patrimonio comune, un criterio interpretativo recepito oggi da molti, o forse da tutti, quasi come un’ovvietà. Certo non si trattava di novità in assoluto: la lettura in chiave strutturalista dei comportamenti e dei gesti alimentari conosce padri illustri, a cominciare ovviamente da Lévi-Strauss. Ma le pagine di Camporesi sono state decisive per approfondire e diffondere tale impostazione. In questo come in altri campi, tutti gli dobbiamo molto.