Cibo, emozioni e scrittura presentano un legame molto stretto che oggi trova una nuova e diffusa espressione nei foodblog. Questi “diari in rete” dedicati al tema del cibo traducono le emozioni connesse al mangiare su pagine web intrinsecamente cariche di istanza etica. Tale istanza costituisce l’etica della scrittura, ossia un invito alla conoscenza, alla condivisione e alla formazione rivolto dai foodblog a tutti i visitatori in rete.
Il senso comune potrà senz’altro confermare che il cibo è un’esperienza di gusto ed un piacere per chiunque. Anche se mangiamo per fame, ossia in risposta alla «voce del corpo»[1] che ci richiama alla necessità fisiologica di alimentarci, mangiamo di gusto e con piacere. Beninteso, con piacere positivo (“mi piace”) oppure negativo (“non mi piace”). Quello che siamo soliti chiamare “gusto” risulta, in realtà, dal concorso di vari sensi che si incontrano nella percezione dei sapori. Esso è originato dalle papille gustative, dai recettori tattili e termici della lingua, dalla mucosa olfattiva stimolata dagli odori del cibo, dal presentarsi del cibo stesso alla vista, ma anche dalle sollecitazioni dell’udito, quest’ultimo in gioco quando cogliamo la consistenza di un alimento (si pensi al croccante)[2]. Dalla polisensorialità del gusto allo stato edonico, il passo è breve: il sapore del cibo fornisce un accesso diretto al piacere (al dispiacere, se quanto mangiamo non ci piace).
Tale piacere si sperimenta comunemente in almeno due versioni: il piacere del “pieno” e il piacere del “vuoto”[3]. Il primo si associa alla sazietà, all’appagamento della fame, ma anche della gola, comunque alla quiete dell’appetito. Il secondo deriva dal senso di leggerezza lasciato in noi da un pasto misurato, dal dominio esercitato sulla “voce del corpo” e dalla sensazione di purezza che ci invade quando non ci appesantiamo.
Si potrebbe pensare che il “vero” piacere del cibo sia il piacere del “pieno” e che quello del “vuoto” sia piuttosto una perversione, prerogativa, oltretutto, di quanti sono affetti dai cosiddetti disturbi del comportamento alimentare. Ai malati di anoressia può piacere limitarsi ad una mela al giorno o poco più, centellinata in innumerevoli pezzetti per moltiplicarne il gusto; ai malati di bulimia può piacere rimpinzarsi del cibo più disparato per il puro gusto di svuotarsene subito dopo[4]; alle persone “normali” invece … Il punto è che, nella società «lipofobica»[5] dell’Occidente avanzato in cui oggi viviamo, il grasso per tutti – malati e sani – è pressoché esecrabile. Di conseguenza il “pieno”, perlopiù equiparato appunto al grasso, difficilmente può essere il solo e “vero” piacere del cibo; ad esso si affianca (quando non si sostituisce) il piacere del “vuoto”, delle razioni di cibo leggero che riducono il nostro peso, risollevano l’umore, ci fanno stare bene.
Ad ogni modo, del “pieno” o del “vuoto”, il piacere del cibo resta un piacere nell’esperienza di tutti. Ora, come osserva Damasio, noto neuroscienziato, il piacere è sia l’innesco, sia la qualità costitutiva di molte emozioni[6]. Esistono emozioni primarie (gioia, tristezza, paura, rabbia, sorpresa, disgusto), secondarie (imbarazzo, gelosia, colpa, orgoglio), di base (benessere, malessere, calma, tensione)[7] . Non è detto che le proviamo solo in concomitanza con uno stato di piacere, ma per ogni stato edonico è certo che ci emozioniamo. Dunque il cibo, attraverso il gusto ed il piacere che ci provoca, comporta l’emozione.
Sorgendo nell’interiorità privata del soggetto, l’emozione si pone nell’interfaccia tra corpo e mente, nonché sulla soglia tra l’individuale e il sociale. Come indica la parola stessa, l’emozione è connessa al movimento, in particolare, può essere definita «movimento delle carni»[8]. In effetti, i fenomeni emotivi producono, in un primo momento, le concrete manifestazioni corporee caratteristiche dell’individuo emozionato: si pensi alle modificazioni facciali dovute al sapore di un cibo che ci piace o no, e a tutti i vari cambi posturali, comportamentali e nell’andamento vocale assunti quando ci emozioniamo.
I fenomeni emotivi, però, in un secondo momento, diventano motivazioni che spingono lo stesso individuo a fare qualcosa, ad agire e ad entrare perciò in relazione con gli altri.[9] L’emozione, cioè, sfocia infine in un’azione e questa si colloca sempre in una dimensione collettiva, funge da trama relazionale e dischiude il campo dell’etica. Ciò vale anche per l’azione di scrivere legata all’esperienza del cibo: in tal caso, l’emozione si traduce nell’etica della scrittura, declinata oggi anche nel genere dei foodblog.
Alle emozioni conseguono azioni, ossia nostri interventi concreti, aventi ripercussioni nella realtà che ci circonda. Ogni azione è un “fare” che non può esimersi dal rivolgersi al mondo e agli altri ed è perciò costitutivamente carico di responsabilità. Quando, spinti dall’emozione, agiamo è come se proponessimo qualcosa sul piano collettivo e assumessimo, così, l’impegno di metterlo in comune. A quanto pare, l’azione maggiormente compiuta su stimolo emotivo è quella di raccontare. Secondo almeno quanto attestano gli studi di psicologia[10], l’emozione ci porta innanzitutto a farne un racconto, che tanto più è carico di impegno, quanto più è deliberato e consapevole. Ciò avviene specie se non lasciamo tale racconto in forma orale, ma scegliamo di affidarlo alla scrittura di diari, lettere, autobiografie, oggi, magari, anche di blog[11].
Il termine blog deriva da web-log e sta ad indicare una sorta di diario in rete. Dal punto di vista tecnico, i blog sono sistemi che consentono di gestire e pubblicare sul web dei contenuti utilizzando più canali: testi scritti (i post), ma anche immagini, musica, video, quant’altro. Tali contenuti vengono sottoposti all’attenzione dei visitatori del blog i quali sono chiamati ad apportare il loro contributo, esprimere commenti, avanzare proposte. I contenuti stessi possono riguardare, in generale, le esperienze di vita dell’autore del blog (il blogger), oppure possono incentrarsi su di un tema specifico. I foodblog, ad esempio, sono specificamente incentrati sul tema del cibo, e si è soliti considerarli dei ricettari in rete[12].
I foodblog, però, presentano più che le sole istruzioni su come preparare un dato piatto: riguardano anche le esperienze di gusto del blogger e le sue emozioni legate al mangiare. D’altra parte, un’indagine abbastanza recente[13] rileva che gli ormai numerosissimi foodblog italiani sono principalmente opera di donne. Se vogliamo, dunque, essi costituiscono sì la moderna evoluzione in rete dei ricettari, ma dei ricettari femminili, vale a dire quelli in cui la componente narrativo-emotiva è da sempre essenziale. I ricettari scritti da donne compaiono nel panorama della letteratura culinaria in Italia solo a partire dai primi del Novecento[14]. A differenza di quelli maschili, scritti perlopiù da professionisti della cucina[15], i ricettari femminili raramente sono composti da cuoche di professione e si caratterizzano proprio per lo spazio dato al racconto personale, oltre che alle procedure di preparazione del cibo. Ecco, ad esempio, la ricetta dei “Ravioli dell’Angela” così come la troviamo nei ricettari di Petronilla:
Checchi, il più buongustaio dei miei figlioli, rincasando l’altra sera dopo il buon pranzo che aveva dato, anche in suo onore, la mia buona amica Angela, non la finiva mai dal dire: - Oh, mamma, sapessi che ravioli ho mangiato! Sapessi con che sugo erano stati conditi! Sapessi com’erano squisiti! Il dì seguente io (che, oltre discreta cuoca, sono… una mamma) mi sono precipitata dall’amica, e: "Cara Angela - le ho detto - ti prego di insegnarmi a fare i tuoi ravioli!" Sorrise la buona amica e, soddisfatta nel suo orgoglio di cuoca ricercata… - Certo, (mi disse) che ti insegno a farli, e poiché anche tu, cara Petronilla, al par di me, sei famosa a tirar sottile la sfoglia della pasta, vedrai che anche dalle tue mani, usciranno ravioli… più che perfetti! E infatti, i miei ravioli furono proclamati perfetti dai figlioli e squisiti dal marito, sì che ho pensato di dare anche a tutte voi la ricetta che a me ha data l’Angela: purché … purché siate anche voi famose, come lo siamo noi, a tirar sottile, quella tale sfoglia, o purché ne possediate l’adatta macchinetta!
Per allestire il ripieno, si dovranno passare per il setaccio un chilogrammo di spinaci lessati spremuti fra le mani per toglierne l’acqua; un ettogrammo di prosciutto cotto e magro ed uno di cervella dopo averla fritta nel burro. Mescolando e rimescolando, si dovranno infine unire 5 rossi e 3 bianchi d’uova e 4 cucchiai di formaggio parmigiano. Pronto il ripieno, e mentre si lavorerà a tira sottile quella tale sfoglia della pasta col quale si dovranno comporre i ravioli, converrà preparare un condimento che sia ben degno di quel… superlativo ripieno! A ciò provvederà il piatto di portata che dovrà essere, quel giorno, un arrosto di vitello. Messo il vitello al fuoco con un po’ di burro, si aggiungeranno, appena rosolato, carote, rosmarino, sedano, cipolla, prezzemolo, mezzo bicchiere di vino rosso ed un pugno di funghi secchi che, dopo averli lavati, saranno messi a bagno nell’acqua calda. Quando l’arrosto sarà quasi cotto, si aggiungeranno un altro mezzo bicchiere di vino e l’acqua che aveva servito a mollificare i funghi; si lascerà cucinare ancora un poco tenendo la casseruola ben chiusa e infine si passerà anche questo sugo, per il setaccio[16].
Petronilla (pseudonimo di Amalia Moretti Foggia, 1872-1947) fu una delle prime donne medico in Italia, nota per aver curato, negli anni Venti-Trenta, le rubriche La parola del medico e Tra i fornelli su La Domenica del Corriere[17]. I suoi ricettari non riportano semplicemente istruzioni da seguire in cucina, ma si soffermano a raccontare il cibo e le emozioni ad esso connesse. Nel caso dei “Ravioli dell’Angela”, raccontano la gioia di Checchi per averli mangiati, la punta di invidia con cui la mamma corre dall’amica a farsi dare la ricetta, l’orgoglio della stessa per aver deliziato figli e marito con ravioli “perfetti”.
Quasi sulla scia di Petronilla, anche le foodblogger offrono racconti riguardanti le emozioni del cibo, affidandole con cura alla scrittura in rete. La cura è evidente, tra l’altro, nelle fotografie realizzate per illustrare al meglio i piatti ed i procedimenti per prepararli. I post, infatti, sono perlopiù accompagnati da immagini fotografiche scelte con grande attenzione, quasi a richiamare l’istanza etica che anima un diario virtuale dedicato al cibo. L’istanza in questione non ha nulla a che fare con specifici insegnamenti morali, ma consiste piuttosto nel triplice invito rivolto dalla pagina scritta: quello alla conoscenza, alla condivisione e alla formazione. Si tratta di un invito messo a disposizione da tutte le pagine variamente curate – pagine web comprese – ed a proposito del quale si può parlare di “etica della scrittura”[18] . Essa costituisce l’impegno implicito nel “darsi” stesso della pagina, indipendentemente dalle tematiche affrontate: quell’impegno che si esplicita in tipi di conoscenza, condivisione e formazione diversi a seconda del genere di scrittura. Proviamo a considerare l’esplicitarsi nel genere dei foodblog. (continua)
avanti > Note:
[1] Sulla fame come «voce del corpo», si veda Pierrette Lavanchy, Il corpo in fame, Rizzoli, Milano 1994, p.157.
[2] Sulla polisensorialità del gusto si vedano Claude Fischler, L’onnivoro. Il piacere di mangiare nella storia e nella scienza, Mondadori, Milano 1992, pp. 69-70 e Nicola Perullo, Per un’estetica del cibo, Aesthetica Preprint, Palermo 2006.
[3] Cfr. P. Lavanchy, op. cit., pp. 160 e seguenti.
[4] Il piacere (perverso) del cibo nell’anoressia e nella bulimia è un leitmotiv di pressoché tutta la letteratura (scientifico-divulgativa e narrativa) riguardante i disturbi del comportamento alimentare. Titoli di questa letteratura si trovano, ad esempio, nella bibliografia di P. Lavanchy, op. cit..
[5] Cfr. C. Fischler, op. cit., p. 248: «Nella nostra società […] il grasso è diventato gradualmente oggetto di timore e disgusto. Nel periodo che va dalla fine dell’Ottocento a oggi, quest’ascesa della lipofobia si è operata simultaneamente su tre fronti distinti: la medicina, la moda e l’aspetto esteriore del corpo, la cucina e l’alimentazione quotidiana».
[6] Cfr. Antonio Damasio, Emozioni e coscienza, Adelphi, Milano 2000, pp. 99-100.
[7] CFr. ivi, p. 69.
[8] Cfr. Paul Dumouchel, Emozioni. Saggio sul corpo e il sociale, Medusa, Milano 2008.
[9] Cfr. Bernard Rimé, La dimensione sociale delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2008.
[10] Sul nesso emozione-narrazione si vedano i risultati degli studi riportati in ivi, pp. 91-115. In proposito, Rimé osserva che il racconto è una conseguenza tipica dell’emozione, se non una dimensione dell’esperienza emozionale stessa.
[11] Diari, lettere, autobiografie, blog: sono questi i generi di scrittura maggiormente dedicati al racconto delle emozioni.
[12] Cfr. Guido di Fraia (a cura di), Blog-grafie. Identità narrative in rete, Guerini Studio, Milano 2007.
[13] L’indagine, aggiornata al dicembre 2011, è stata realizzata da Reputation Manager, società italiana di ingegneria reputazionale; i risultati sono riportati nel dossier Professione foodblogger. Analisi dello scenario online, in www.reputazioneonline.it, (ultima consultazione: 13 giugno 2012).
[14] È Fino al Novecento, in Italia non si hanno ricettari scritti da donne. Il primo è Come posso mangiar bene? (1900) della contessa Giulia Ferraris Tamburini. Il ricettario si rivolge alle donne dell’alta borghesia dell’epoca le quali, per quanto eleganti e sofisticate, non dovevano disdegnare di saper fare un semplice pranzo e certamente dovevano possedere la competenza indispensabile per sorvegliare la servitù, impedire frodi nelle spese ed evitare alimenti (e condimenti) nocivi alla salute. Poi, nel 1904, la baronessa Giulia Lazzari Turco pubblica Ecco il tuo libro di cucina. Manuale pratico di cucina, pasticceria e credenza per l’uso di famiglia, un ricettario rivolto alle signore benestanti e, nel 1908, Il Piccolo Focolare. Ricette di cucina per la massaia economa, rivolto invece alle donne delle classi meno agiate. Questi primi ricettari femminili presentano un tono “confidenziale”, emotivamente partecipato, con venature narrative personali che da subito li distingue dai ricettari maschili e tende a caratterizzarne il genere, dal libro della Tamburini, agli attuali bestseller di Benedetta Parodi (Cotto e mangiato, 2009; Benvenuti nella mia cucina, 2010; I menù di Benedetta, 2011).
[15] La storia della letteratura culinaria italiana è in gran parte opera di professionisti della cucina. Si pensi, per cominciare, al Libro de Arte coquinaria di Martino da Como, grande cuoco del Quattrocento; all’Opera di Bartolomeo Scappi, cuoco di papi e alti prelati nel Cinquecento; si arrivi, poi, ai libri di Gualtiero Marchesi, rinomato chef dei giorni nostri.
[16] Amalia Moretti Foggia, Le famose economiche ricette di Petronilla, Sonzogno, Milano 1974, p. 183.
[17] Sulla figura di Petronilla, si veda Roberta Schira, Alessandra de Vizzi, Le voci di Petronilla, Salani, Milano 2010.
[18] Sull’“etica della scrittura” in quanto invito alla conoscenza, alla condivisione e alla formazione sempre rivolto dalla pagina scritta nei confronti dei suoi lettori, indipendentemente dalle specifiche tematiche affrontate, si confronti “Etica e letteratura” (www.etica-letteratura.it). La proposta teorica del sito suggerisce che la scrittura letteraria ha un valore etico dato da quanto la letteratura ci fa conoscere, condividere e imparare leggendo. Tale valore non consiste in insegnamenti morali riguardanti ciò che è giusto/bene fare, ma nella pratica conoscitivo-affettiva-formativa cui la letteratura ci allena. Una pratica – suggeriamo noi – tenuta in allenamento anche da una scrittura come quella dei foodblog.