Il tema della narrazione ha assunto un’importanza sempre più rilevante
Piero Camporesi (1926-1997) ha insegnato Letteratura italiana presso l’Università di Bologna dal 1969 al 1996. È stato un italianista molto originale, come hanno sottolineato allievi e critici che hanno studiato le sue opere e la ricchissima biblioteca.[1] Camporesi si è occupato della letteratura antica, soprattutto di testi scritti tra Cinque e Ottocento. I suoi saggi sono stati tradotti in nove lingue (francese, giapponese, greco, inglese, olandese, polacco, portoghese, spagnolo, tedesco), meritando un privilegio inconsueto per i docenti italiani.
Cercando di comprendere le ragioni di questo successo, è anche possibile chiedersi se il metodo di lavoro di Camporesi offre ancora dei suggerimenti validi per gli studiosi di letterature comparate. A mio avviso la risposta è affermativa per le ragioni che cerco di spiegare nelle pagine seguenti.
Muoviamo anzitutto dalla biblioteca privata che oggi si trova riunita nella Biblioteca del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Università di Bologna ed è in corso di catalogazione e di analisi da parte di Alberto Natale, studioso di antropologia della letteratura, segretario del Centro Studi Camporesi e allievo del professore.[2] La biblioteca è straordinaria per quantità (contiene circa 15.000 volumi) e per qualità, in particolare perché permette di verificare come Camporesi leggeva i suoi libri. Molti di essi, soprattutto quelli antichi, contengono all’interno dei segnalibri, cioè delle stringhe di carta su cui Camporesi annotava il numero delle pagine più interessanti e, sempre più spesso nel corso degli anni, riportava le parole-chiave del testo. Osservando i segnalibri, entriamo nell’officina dell’invenzione di Camporesi (per dirla modificando un suo titolo, cioè L’officina dei sensi) che avviene attraverso la lettura ragionata delle opere antiche, la sottolineatura e la rielaborazione a margine (nello spazio discreto e non invasivo di un metatesto mobile e vergato a matita). I segnalibri e le sottolineature riguardano prevalentemente i temi dominanti della ricerca camporesiana - il cibo, il corpo, il carnevale, la povertà, il paesaggio - e costituiscono una sorta di langue della biblioteca personale del critico.
Possiamo anzitutto 1. interrogarci sulla genesi degli interessi tematico-antropologici (depositati in nuce nella langue della biblioteca) e, inoltre, 2. su come lo studioso trasformava questa langue in parole, utilizzando le annotazioni personali come embrayeur o shifter della scrittura.
1. Quanto al primo punto, conviene ricordare che Camporesi pratica l'antropologia della letteratura (con una preferenza per i temi del corpo individuale e sociale) per una ragione culturale ed anche, forse, per una motivazione personale. Senza dubbio la sua formazione risulta legata alla prima scuola comparatistica italiana, quella positivistica torinese che, alla fine dell’Ottocento, si impegnava nella ricerca filologica, erudita e storica, su testi di cultura popolare, soprattutto medioevali, e sulla biografia degli scrittori. Camporesi apprende questo metodo già antropologico (oltre che comparatista) da Carlo Calcaterra (1884-1952), suo maestro e allievo di Arturo Graf (1848-1913), uno dei più insigni rappresentanti della scuola storica torinese.[3] E nelle poche dichiarazioni sul metodo di lavoro, Camporesi rivela chiaramente questa formazione positivistica. Dichiara ad esempio in un’intervista del 1978: «credo che siano i dettagli ad essere essenziali. Bisogna cercare infaticabilmente nuove fonti, stabilire con cura le correlazioni tra queste fonti, verificarle scrupolosamente, insomma applicare la tecnica della formica, una formica diligente, infaticabile».[4] In questo caso Camporesi precisa la sua curiosità erudita, secondo un’abitudine alla ricerca indiziaria sviluppata in Italia proprio alla fine dell’Ottocento. Altrove, a proposito delle «connessioni fra strutture mentali e assetto psico-fisico», cioè tra comportamento e corpo, Camporesi confessa un pensiero deterministico e dunque ancora positivistico in base al quale chi ha fame percepisce un reale stravolto, così come chi si nutre di pane tossico (necessità diffusa nel Cinquecento) possiede una coscienza alterata. Le analisi di questi fenomeni non riguardano solo
[…] il grado di salute fisica della società preindustriale, ma anche la valutazione dell’incidenza della tossicità vegetale sulle strutture mentali collettive. E, [si deve perciò, n.d.c.] tentare di scrutare, vagliando l’uso e la diffusione delle droghe domestiche, l’immaginario fantastico collettivo in cui fermentavano le immagini dei mostri e degli incubi che i poemi, i cantari, le fiabe, le leggende hanno fissato in innumerevoli momenti di paura, di stupore, di estasi, di meraviglia, di febbricitante eccitazione, d’irrazionale emozione. Siamo convinti che i modi elementari della vita, i «fondi» dell’esistenza, i «condimenti» della corporalità non possano essere ulteriormente ignorati.[5]
L’interesse antropologico per il corpo in relazione alle fonti della cultura e della letteratura popolare (cantari, fiabe, leggende) nasce dunque grazie alla formazione positivistica. Ma c’è anche una ragione personale che orienta Camporesi in tal senso: in un testo degli anni Sessanta, pubblicato per la prima volta nel 2008 con il titolo Il capitale, Camporesi ricorda i problemi di salute infantili, la sua «contrastata armonia endocrina», ed anche la cura che avrebbe trasformato in pochi mesi il corpo «scheletrico» in un corpo grasso, e dunque infelice, «inibito», «paralizzato» e «isolato» dagli altri bambini. «Così, a dieci anni incominciai a conoscere il muro dell’incomunicabilità», una sensazione che prosegue negli anni successivi, quando il Camporesi adolescente viene costretto a continui esercizi atletici con il risultato seguente:
mi nacque un tale odio misto a repulsione del mio corpo che ancora oggi non riesco a mostrarlo in pubblico che a piccolissime porzioni e con un puritanesimo senza dubbio esagerato.[6]
Questo breve racconto autobiografico prosegue con un ricovero ospedaliero (a quindici anni) durante il quale i medici analizzano Camporesi e la sua famiglia, interessandosi con spirito ancora lombrosiano ad una possibile malattia ereditaria connessa ad antenati finiti in manicomio. Fatto sta che, prima di iscriversi alla Facoltà di Lettere di Bologna, Camporesi frequenta per qualche tempo Medicina a Firenze, mostrando un interesse precoce e costante per un corpo sofferente che assume negli anni la consistenza di una pathosformeln alla Warburg, cioè di una forma soggetta a passione, trasformazione, storicità. In linea con lo stile di pensiero camporesiano, incline alle connessioni tra soma e psiche, ipotizzo dunque che la sensibilità personale possa avere modellato la curiosità per un tema che, negli anni sessanta e settanta, richiamava una nuova e diffusa attenzione (ricordo ad esempio che nel 1969 Michail Bachtin viene tradotto in francese).[7]
Con questo occhio antropologico Camporesi legge gli autori antichi, sottolinea qualche parola chiave, la riprende nel segnalibro, costruendo – lo ho già accennato – un deposito della memoria a cui torna ogni volta che una ricerca lo richiede. E la natura tematico-antropologica di sottolineature e segnalibri offre la testimonianza sicura di due strategie interpretative che caratterizzano il lavoro critico, potendo ancora oggi risultare utili: a. Lo straniamento di un autore canonico; b.L’attualizzazione di testi e autori del passato che introducono una riflessione sul presente.
Prendiamo il caso di Francesco Petrarca (1304-1374), il poeta e cittadino europeo che sta all’origine della lirica italiana (e della tradizione definita dal critico Gianfranco Contini, 1912-1990, monolinguismo, ossia l'uso esclusivo di una lingua letteraria "alta"),[8] su cui Camporesi ha scritto la tesi di laurea e i primi saggi critici negli anni Cinquanta, approfondendo in un primo tempo aspetti stilistici, metrici e retorici, su sollecitazione di Calcaterra[9]. Nel corso degli anni però Camporesi va alla ricerca di un altro Petrarca, più uomo che poeta, si potrebbe dire tradendo l’opinione del critico ottocentesco Francesco De Sanctis (1817-1883).[10] A questo punto, vale la pena verificare questo modo particolare di rileggere la letteratura petrarchesca.
Camporesi possiede numerose opere dell’autore del Canzoniere in edizioni otto e novecentesche; preferisce i testi meno conosciuti, anzitutto quelli scritti in latino: le Familiares, le Seniles, le Epistolae metricae, il De vita solitaria, il De sui ipsius et multorum ignorantia; il De remediis utriusque fortunae; sottolinea le parole che lo interessano; segna le pagine che immagina di rileggere con un segnalibro dove annota, talora, qualche osservazione personale. Ecco alcuni esempi:
- in M. Vattasso, I codici petrarcheschi della Biblioteca Vaticana (1908; segnatura I, VII, 125) Camporesi pone un segnalibro a p. 232, dove Petrarca parla delle seminagioni dell’orto. Ma che importanza ha questo aspetto agricolo per comprendere la lirica del poeta? Per ora non risulta facile offrire una risposta. Limitiamoci a dire che il testo segnalato è la trascrizione di un codice manoscritto (il Codice Vaticano latino 2193) in cui Petrarca aveva annotato di sua mano alcuni esperimenti di coltivazione tra il 1348 e il 1369. In particolare Camporesi sottolinea il passo seguente:[11]
Anno 1353, die lune ultimo septembris et die martis 1° octobris, in orto Mediolanensis Sancti Ambrosij, abunde hesterna pluia humecto et ad unguem subacto, seuimus spinargia, bletam, feniculum, petrosillum; pars anni serotina, et umbrosior locus, et lune revolutio videntur obsistere. Effectus fuit nullus omnino.[12]
E ancora:
Die IIII Aprilis 1357, hora temporis occiduj, luna plena vel quasi, solo humido, tempore preter legem anni gelido, profundis scrobibus seuimus VI lauros et unam oleam Pergamo aductas in ortulo Sancti Ambrosii Mediol. Due videntur obstare: et dilatio aliquot dierum, et natura soli, preasertim olee contraria. Fuerunt autem plante satis recentes, et alique tenere, alique duriores; omnes cum caudicibus. Omnes penitus aruerunt.[13]
Ecco infine altri due casi:
- in A. Solerti (a cura di), L’Autobiografia, il Secreto e dell’Ignoranza sua e d’altrui di Messer Francesco Petrarca col Fioretto de’ remedi dell’una e dell’altra fortuna(1904; segnatura I, VII, 101) Camporesi sottolinea a p. 9 il sintagma: «tenue vitto io usai, e cibi volgari»; e inoltre la parola «conviti»; aggiunge anche un segnalibro con l’indicazione della pagina da ricordare.[14]
- in F. Petrarca, De’ remedii dell’una e dell’altra fortuna volgarizzati (1867; segnatura: T, I, 37), Camporesi sottolinea numerosi passi dei capitoli XVIII e XIX intitolati rispettivamente, in questa traduzione ottocentesca, Del vivere delicatamente e De’ conviti, ponendo un segnalibro a p 109: possiamo ad esempio osservare «cibi esquisiti, e vini di strani paesi» e ancora «aspri cibi» e infine «nocivi ed equisiti cibi».[15]
Pare di capire che il Petrarca di Camporesi si interessi di orticultura e di alimentazione.[16] Non sono competenze che vengono generalmente attribuite al poeta dell’amore per Laura che, però, osservato da questo punto di vista, appare nuovo, diverso. Mentre legge testi non particolarmente accurati dal punto di vista filologico e linguistico, che risalgono all’epoca positivistica, Camporesi ha già in mente il suo «poser la question». E ciò modella la langue della sua ricerca.
2. Ma – ci eravamo chiesti all’inizio – come Camporesi trasforma la langue in parole, cioè quale è il rapporto tra la lettura (e la postillatura) e la scrittura, l’interpretazione critica? Nella fase della scrittura le sottolineature e i segnalibri servono da shifter, da embrayeur per la nuova invenzione: la memoria viene per così dire agganciata da un sintagma tematico che porta Camporesi a rileggere quelle alcune pagine in cui si parla di cibo, di salute e di corpo. A quel punto Camporesi è pronto per inventare (nel senso classico dell’inventio cioè del ritrovamento di un’idea nella memoria) la sua interpretazione di Petrarca.
L’articolo dedicato all’autore del Canzoniere racconta le abitudini alimentari del poeta trecentesco, il suo amore per la campagna e l’orticoltura, immaginando i pensieri e i ricordi del poeta durante un banchetto nuziale.[17] Con un piacevole registro narrativo, Camporesi presenta dunque un Petrarca che:
Dovunque decidesse di metter su casa, sceglieva sempre luoghi appartati e marginali e subito lì accanto impiantava il suo viridarium. Si alzava prestissimo e mai gli avvenne che l’alba lo sorprendesse a letto […]. Non rinunciava mai ai piaceri ortivi e alle sue sperimentazioni vegetali. A Milano, poiché la sua abitazione non aveva terra intorno, ricorreva al vicino orto di sant’Ambrogio. Nell’autunno del 1353, fra il 30 settembre e il 1° d’ottobre piantò spinaci, bietole, finocchi, seminò prezzemoli («spinargia, bletam, feniculum, petrosillum»). Ma la stagione era troppo avanzata, il terreno ombroso e umido, la luna contraria. Annotò l’esperimento. Nel 1357, all’inizio di aprile, mise a dimora un olivo e sei allori arrivatigli da Bergamo. Il tentativo, piuttosto azzardato, non riuscì. […] L’olivo, nell’umida terra milanese, poteva crescere solo per miracolo.
Ecco dunque come Camporesi ha utilizzato le pagine di Petrarca sugli esperimenti di orticoltura; e ancora, sempre riferendosi a parti sottolineate nella edizione del Codice Vaticano 2193, Camporesi prosegue:
L’olivo e l’alloro, il melo, il pesco, il pero, il salice e la vite, ma anche il fieno e le erbe medicinali (la ruta, il rosmarino, la salvia, il marrubio, l’issopo) rientravano nella sfera prediletta delle sue osservazioni. L’alloro però era il suo albero.
E, a questo punto, Camporesi volge l’interpretazione al letterario:
Totem e talismano arboreo, simbolo e impresa personale della gloria e dell’antico mito dafneo incarnato in Laura. «Spenti sono i miei lauri» aveva lamentato un giorno in un desolato sonetto, rinsecchiti come quelli che inutilmente si ostinava a trapiantare negli orti milanesi.
E, qualche riga più avanti:
Si direbbe che un sottile legame intercorreva fra la sperimentazione di tecniche agronomiche, fra le pratiche ortive intraprese, seguite, verificate, perfezionate nel suo laboratorio vegetale en plein air e l’arte selettiva che, unita alla vis inventiva, esercitava diuturnamente nella limatura e nella messa a punto infaticabile, nel gioco continuo delle varianti, durante l’elaborazione estenuante di rime e prose nel chiuso della sua officina letteraria, durante le lunghe, interminabili ore passate chino sullo scrittoio, selezionatore insuperabile di radici verbali e maestro nel mettere a dimora i segni, anche nelle lune contrarie e nelle stagioni sfavorevoli della vita. Era come se una impalpabile corrente fluisse dall’arte del trapianto e dell’innesto a quella della rima e del verso, dall’ars insitiendi all’ars dictandi, dalla sperimentazione botanica all’artificioso cursus della prosa letteratissima.[18]
Credo che siano pagine originali e piacevoli che possono essere prese a modello ancora oggi, anche perché questo Petrarca orticoltore ci permette di rileggere il topos del lauro nel Canzoniere, evocato grazie al sonetto 363, in un modo meno classico, meno legato alla cultura libresca (e alla paronomasia laura, l’aura, lauro) e più concreto perché riferito a una passione terrena, in senso letterale.
Verificato, sia pure brevemente, come Camporesi legge i testi e come li utilizza nel lavoro critico, comprendiamo ora meglio la novità della sua critica antropologica che è anche un’originale storia delle mentalità attraverso la letteratura. A mio parere ed anche sulla base del successo mondiale di Camporesi, questa rilettura della tradizione attraverso tutto ciò che ha a che fare con il corpo può ancora attirare l’attenzione dei lettori che manifestano curiosità per il passato nella misura in cui esso interessa la loro vita più che la letteratura in quanto tale.
Ma l'attualità di Camporesi non riguarda solo le scelte tematologiche, ma anche la scrittura saggistica. Ho già ricordato l’immagine rinnovata del lauro, e nello stesso articolo Camporesi immagina anche le riflessioni stilistico-letterarie di un Petrarca annoiato durante il banchetto nuziale del 15 giugno 1368. Vale la pena ricordare i due passi, prima di avanzare qualche osservazione:
L’agrodolce non gli era mai piaciuto, eppure anche lui si era stranamente abbandonato al gusto del suo tempo […] aveva abusato d’accostamenti verbali peregrini e contraddittori (vere spezie piccanti), coniugando lo sciocco con l’acuto alla stessa maniera dei cuochi scellerati, criminali maestri nell’amalgamare aceto e zucchero, il mielato con l’asprigno; aveva costruito ossimori su ossimori, mescolando in nozze stranamente assortite […] termini ripugnanti tra loro come «viva morte» o «dilettoso male». Incominciava a capire che l’agrodolce rappresentava la versione culinaria, il tropo commestibile della figura ossimorica. Se lui trovava repellente l’agrodolce […] come avrebbero apprezzato i mangiatori di versi, i consumatori di metafore, le sue male assortite acutezze?
Dopo questa similitudine tra il gusto agrodolce e l’ossimoro poetico, che ritengo molto indovinata, ecco un altro suggerimento analogico:
Quel convito era un autentico pasticcio ripieno dei più eterogenei e ripugnanti ingredienti, una farcitura stravagante come quelle canzoni de oppositis e quelle frottole che i giullari (quasi tutti toscani come lui) andavano cantando nelle corti padane.[19]
In questi casi Camporesi ha utilizzato i suoi argomenti (cibi e conviti erano termini che aveva sottolineato) per proporre un intreccio tra culinaria e retorica che risulta tanto persuasivo quanto privo di un riferimento preciso alle fonti.[20] Ed è lo stesso Camporesi a precisare, poche pagine dopo: «Sono ovviamente illazioni, destinate a rimanere congetture […] Ma questo non significa che debbano essere volutamente inattendibili e falsi».[21] Ora comprendiamo qualcosa di più sul metodo di lavoro del critico italiano che intreccia fonti letterarie (nel nostro caso i testi petrarcheschi, talora citati con precisione, talora rielaborati a memoria), fonti storiche non sempre attendibili (il resoconto del banchetto viene proposto dallo storico umanista Bernardino Corio, 1459-1519?, che accenna solo brevemente alla presenza di Petrarca) e una capacità narrativa che si riconosce in quasi ogni pagina dei suoi saggi. Ecco ad esempio come Camporesi ritrae Petrarca mentre osserva le verdure servite al banchetto:
Vecchio «ortolano», apprezzava particolarmente i doni di Pomona la placida, sorridente dea dei frutti e della terra feconda. Uscito dalle nebbie della memoria gli apparve un orto, quello milanese di sant’Ambrogio in cui, quindici anni prima, aveva seminato, un po’ titubante, gli spinaci, un «herba nuova» venuta dal Sud, nota però da tempo ad Alberto Magno, ad Arnaldo di Villanova, a Pier Crescenzio, e non sconosciuta a Bonvesin della Riva ma ancora poco coltivata a Milano.[22]
Devo precisare che nel manoscritto 2193 Petrarca scrive di avere piantato gli spinaci, senza aggiungere però le notizie sull’origine dell’erbaggio che Camporesi ha attinto dalle altre fonti, suggerite ma non specificate. A questo punto disponiamo di tutti gli elementi per rispondere alla domanda proposta all'inizio, ossia come Camporesi rielabora la langue tematica in parole critica? Egli cerca anzitutto fonti minori o comunque meno conosciute; anche grazie a sottolineature e segnalibri, ricorda in modo selettivo le informazioni che riguardano i suoi temi prediletti; rielabora infine questi materiali in un'invenzione narrativa che spesso pare sciogliere i vincoli della filologia a favore del racconto di un’esperienza vissuta in un paesaggio reale.
Questo metodo ha meritato a Camporesi la critica di numerosi storici che lo hanno accusato di imprecisione. Può darsi che in alcuni casi essi abbiamo ragione. Ma occorre ripensare la critica narrativa di Camporesi alla luce di due considerazioni: da un lato lo storico statunitense Hayden White ha spiegato che ogni ricostruzione del passato risulta sottoposta ad intreccio, cioè narrativizzata: non esiste una storia trasparente, ma una serie di interpretazioni opacizzate dal punto di vista di chi racconta (dal nostro punto di vista non esiste un Petrarca, ma tanti Petrarca quanti sono coloro che ne parlano); [23] dall’altro, il critico franco-bulgaro Tzvetan Todorov ha ricordato che la letteratura è in pericolo perché un certo tipo di didattica strutturalista la ha allontanata dalla sensibilità dei lettori.[24] Da questo punto di vista la proposta di Camporesi potrebbe rappresentare un modo efficace per sollecitare un nuovo interesse per la letteratura antica perché esonera il lettore dalla fatica della critica filologica, linguistica, strutturalistica, e lo introduce in un’argomentazione umana che può valere anche come sguardo sul mondo contemporaneo.
Tenendo a mente il Petrarca conviviale, conviene allora leggere Il governo del corpo(1995), un testo che raccoglie gli articoli scritti per il «Corriere della Sera» tra il 1982 e il 1990. Anche in questa sede si incontra infatti il poeta di Laura mentre riflette sul digiuno come pratica del corpo allegorico che rimanda al divino, secondo le descrizioni di San Pier Damiani.[25] Ma preferisco ora ricordare solo le poche righe iniziali dell’articolo intitolato Vivere di nulla per testimoniare come Camporesi ha saputo attualizzare le sue indagini letterarie:
Di carote si muore. Quando, unico cibo, se ne divorano tre chili al giorno. Ci era quasi riuscita, poco tempo fa, una fulva signora che, per abbronzarsi meglio, si era abbandonata al mostruoso eccesso. Spappolato il fegato, gonfio il ventre idropico, caduti i capelli, sfogliati i peli, adusti i tessuti […] le carni della bella signora dai capelli rossi erano ormai pronte per il grande volo, per il transito celeste, risucchiate dalla vertigine solare, attratte dalla fatale calamita.[26]
Non mi soffermo sui numerosi riferimenti ai precetti dietetici tratti da santi, medici, filosofi e scrittori del pensiero medioevale e rinascimentale (da san Pier Damiani a Giovanni Imperiale, da Marsilio Ficino a Tommaso Campanella) perché preferisco usare la morte per carote per una riflessione conclusiva a proposito della validità dell’insegnamento di Camporesi per chi si occupa oggi di letteratura comparata. Dal 1970 al 1997 Camporesi ha lavorato con successo perché è stato, secondo le sue stesse parole «un uomo d'avventura» che «ha lavorato sul rischio» «avendo inventato problematiche che in Italia non esistevano», corpo e cibo in particolare. Con questi interessi è riuscito a scoprire testi sconosciuti, minori, poco letti; ha saputo rendere flessibili gli stereotipi (chi avrebbe immaginato Petrarca intento a coltivare un orto? E le carote non fanno sempre bene?); ha ragionato sul mondo contemporaneo per «compiere ciò che mi interessava: un viaggio intorno all’uomo».[27] Scritta in modo elegante, raccontata con attenzione ai particolari, la critica tematologica di Camporesi merita di essere riletta come lezione fondamentale di antropologia della letteratura.
Note:
[1] E. Casali (a cura di), “Academico di nulla academia”. Saggi su Piero Camporesi, Bologna, BUP, 2006: con la prefazione di G.M. Anselmi, il volume propone il primo bilancio critico su Camporesi per voce di autorevoli italianisti e storici, italiani e stranieri; M. Belpoliti (a cura di), Piero Camporesi, Milano, Marcos y Marcos, 2008: si tratta di un numero monografico della rivista «Riga» che ospita una serie di pagine inedite del critico, oltre a riflessioni di italianisti e storici, italiani e stranieri; E. Casali, M. Soffritti (a cura di), Camporesi nel mondo. L’opera e le traduzioni. Atti del Convegno internazionale di Studi (Forlì, 5-7 marzo 2008), Bologna, BUP, 2009: scritto in occasione della mostra bibliografica tenuta a Forlì, il volume presenta nuove riflessioni critiche, soprattutto di tipo linguistico, connesse ai problemi di traduzione, oltre a un’importante bibliografia degli scritti camporesiani, dal 1951 al 2008, curata da P. Tinti.
[2] Desidero ringraziare Alberto Natale che mi ha generosamente guidato nella biblioteca, permettendomi di consultare in anteprima il catalogo informatizzato dei volumi e dei segnalibri che sta ultimando; e ricordare il generoso ed appassionato contributo della cara Antonietta Ambroni nel complesso lavoro di valorizzazione del Fondo Camporesi. Segnalo inoltre che il portale di letteratura «Griseldaonline» ospita una sezione, coordinata da Barbara Troise Rioda, dedicata al Centro Studi Piero Camporesi, diretto dal G.M. Anselmi, che propone i percorsi cari allo studioso: il cibo, la percezione del corpo, il carnevale, la cuccagna e la cultura popolare. Sulla biblioteca di Camporesi cfr. M.G. Tavoni, Raccogliere per passione, per necessità: la biblioteca Camporesi, in E. Casali, M. Soffritti (a cura di) Camporesi nel mondo, cit., pp. 43-62.
[3] P. Camporesi, Conversazione con Cesare Sughi. Ma che razza d’inferno, in M. Belpoliti (a cura di), Piero Camporesi, cit., pp. 160-165 (e 162 in particolare: «Una delle mie prime letture, di quelle più appassionanti, fu Arturo Graf […] pioniere di problematiche modernissime, […] uno di quei grandi esploratori […] di immaginario»). Sulla scuola storica cfr. L.M. Gonelli, La Scuola storica, in P. Orvieto (a cura di), La critica letteraria dal Due al Novecento, Roma, Salerno Editrice, 2005, pp. 711-742.
[4] P. Camporesi, Conversazione con Miriem Bouzaher. Viaggia la nave, in M. Belpoliti, Piero Camporesi, cit., pp. 148-160 (e pp. 155-156 in particolare).
[5] P. Camporesi, La miniera del mondo. Artieri, inventori, impostori, Milano, il Saggiatore, 1990, pp. 395-396. Il sintagma «pane alloiato» va attribuito a Giulio Cesare Croce ed indica pane gravemente adulterato col loglio, la pianta erbacea ivraie dei francesi che ubriaca e stordisce.
[6] P. Camporesi, Il capitale, in M. Belpoliti (a cura di), Piero Camporesi, cit., pp. 15-19.
[7] Il riferimento va a M. Bachtin, L’oeuvre de François Rabelais et la culture populaire au Moyen Âge et sous la Renaissance (Paris, Gallimard, 1970) che esce in italiano solo nel 1979 presso Einaudi.
[8] G. Contini, Preliminari sulla lingua del Petrarca (1955), in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 169-192. Per un’interpretazione più recente cfr. M. Santagata, I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca, Bologna, il Mulino, 1992.
[9] P. Camporesi, La sestina del Petrarca e l’interpretazione di un passo di Benvenuto da Imola, in «Giornale Italiano di Filologia», IV (1951), 2, pp. 148-150; Id., Petrarca LXVI “L’aer gravato e l’importuna nebbia”, in «Giornale Italiano di Filologia», IV (1951), 4, pp. 319-322; Il tema dell’”Adynaton” nel Canzoniere del Petrarca, in «Studi Urbinati», XXVI (1952), 1, pp. 3-6.
[10] Camporesi ama scrivere saggi di tipo biografico: Il palazzo e il cantimbanco (Milano, Garzanti, 1994) narra la vita dello scrittore popolare bolognese Giulio Cesare Croce (1550-1609); Camminare il mondo (Milano, Garzanti, 1997) quella del medico Leonardo Fioravanti (1517-?1583); e prima ancora Il tramonto della luna. Il vino, la vite e la nuova scienza (in P. Camporesi, La terra e la luna. Alimentazione, folclore società, Milano, il Saggiatore, 1989) ritrae Galileo Galilei (1564-1642) nella vigna e in cantina, mentre Gli ultimi giorni di Lodovico Antonio Muratori (in P. Camporesi, Il governo del corpo, Milano, Garzanti, 1995) descrive le abitudini dell’anziano bibliotecario estense. Cfr. A. Natale, Percorsi infernali in Piero Camporesi, in M. Belpoliti (a cura di), Piero Camporesi, cit., pp. 354-370; rielaborato in http://www.griseldaonline.it/camporesi/carnevale/percorsi-infernali.html; E. Casali, Odore di libri, recipe di ricerca. Camporesi e Magalotti, in M. Belpoliti (a cura di), Piero Camporesi, cit., pp. 323-343 (sulla figura di Magalotti, altro scrittore che affascina Camporesi).
[11] M. Vattasso, I codici petrarcheschi della Biblioteca Vaticana. Seguono cinque appendici con testi inediti, poco conosciuti o mal pubblicati e due tavole doppie in fototipia, Roma, Tip. Poliglotta Vaticana, 1908, pp. 229-234: Brevi note del Petrarca sull’orticoltura.
[12] «Nell’anno 1353, tra il 30 settembre e il primo giorno di ottobre, nell’orto di Sant’Ambrogio di Milano, umido per l’abbondante pioggia di ieri e lavorato alla perfezione, ho piantato spinaci, bieta, finocchio, prezzemolo; la stagione tardiva, il luogo ombreggiato e l’aspetto della luna sembrano sfavorevoli. Il risultato fu assolutamente deludente».
[13] «Nel giorno 4 di aprile 1357, al tramonto, con la luna quasi piena, il terreno umido, la stagione molto fredda, ho piantato in buche profonde sei allori e un olivo portati da Bergamo, nel piccolo orto di Sant’Ambrogio di Milano. Due fattori sono sfavorevoli: il notevole ritardo e la natura del suolo, contraria soprattutto all’olivo. Spuntarono tuttavia piantine abbastanza sane, alcune tenere, altre più dure; tutte ben piantate. Ben presto tutte morirono».
[14] A. Solerti (a cura di), L’Autobiografia, il Secreto e dell’Ignoranza sua e d’altrui di Messer Francesco Petrarca col Fioretto de’ remedi dell’una e dell’altra fortuna, Firenze, Sansoni, 1904, p. 9: si tratta della lettera Posteritati (l’«autobiografia» del titolo di Solerti).
[15] F. Petrarca, De’ remedii dell’una e dell’altra fortuna volgarizzati nel buon secolo della lingua per D. G. Dassaminato […] pubblicati da don C. Stolfi, Bologna, Romagnoli, 1867, p. 109.
[16] Argomento centrale della ricerca antropologica di Camporesi il tema del cibo ha portato alla riscoperta di un autore dell’Ottocento ora considerato classico, cioè Pellegrino Artusi; e modellato alcuni tra i titoli più suggestivi dei saggi camporesiani: Il pane selvaggio; Il brodo indiano; Le vie del latte; ma è stato soprattutto un punto di vista con cui osservare il reale.
[17] P. Camporesi, La via lattea, in Id., Le vie del latte. Dalla Padania alla steppa, Milano, Garzanti, 1993, pp. 51-100.
[18] Ibidem, pp. 63-65. Oltre ai testi petrarcheschi, le fonti citate da Camporesi sono lo scrittore latino Plinio il Vecchio (I sec.), lo scrittore latino di agricoltura Rutilio Tauro Emiliano Palladio (IV sec.), lo storico longobardo Paolo Diacono (VIII sc.), l’agronomo bolognese Pier Crescenzio (1233-1320) che erano anche le letture del Petrarca. Inoltre Camporesi conclude il saggio con le testimonianze sulla Lombardia del viaggiatore e scrittore inglese Thomas Coryat (1577-1617) e dello scrittore francese René de Chateaubriand (1768-1848): questa pluralità di fonti è una caratteristica della scrittura camporesiana che intreccia le differenti percezioni di uno spazio geografico reale per rendere l’idea del vissuto quotidiano, tra terre lavorate, strade percorse, fiumi navigati.
[19] Ibidem, pp. 80-81.
[20] Camporesi (Ibidem, p. 75) dichiara la fonte del banchetto nuziale: «la particolareggiata ricostruzione fatta all’inizio del Cinquecento, su solidi documenti, dallo storico di cose milanesi Bernardino Corio»; in effetti B. Corio, L’historia di Milano, Padova, Frambotto, 1646, pp. 470-71, elenca con minuzia le pietanze e gli ospiti, senza però dare importanza al punto di vista di Petrarca: questa è invenzione di Camporesi.
[21] P. Camporesi, La via lattea, cit., p. 95. Ed anche in altri casi Camporesi invita a distinguere la finzione dalla realtà. Così, ad esempio, nel poscritto al Libro dei vagabondi (1973, testo filologicamente importante in cui Camporesi dimostra che il Vagabondo del religioso secentesco Raffaele Frianoro è il plagio dello Speculum cerretanorum del religioso quattrocentesco Teseo Pini, ritrovato nella biblioteca Ducale di Urbino e nella Biblioteca Apostolica) Camporesi precisa che i testi da lui pubblicati delineano una «storia eminentemente letteraria, quindi fantastica, fortemente irreale» che trasmette «un’immagine alterata, fuorviante e, in definitiva, faziosa, del pauperismo e della mendicità» (cfr. P. Camporesi (a cura di), Il libro dei vagabondi, Milano, Garzanti, 2003, pp. 171-172).
[22] P. Camporesi, La via lattea, cit., pp. 84-85. I riferimenti vanno al religioso domenicano tedesco Alberto Magno (1206-1280), al medico catalano Arnaldo di Villanova (1240-1312?), allo scrittore italiano Bonvesin della Riva (1240?-1315?): un intreccio di voci che anima lo spazio geografico sviluppato nel tempo attorno a un ortaggio ancora poco comune.
[23] Cfr. H. White, Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione, trad. it. Roma, Carocci, 2006, e A. Natale, Gli specchi della paura. Il sensazionale e il prodigioso nella letteratura di consumo (secoli XVII-XVIII), Roma, Carocci, 2008, p. 11. Sui limiti dell’uso antropologico della letteratura ragiona anche R. Gambino, Antropologia letteraria, in M. Cometa, Dizionario degli studi culturali, Roma, Meltemi, 2004, pp. 72-78.
[24] T. Todorov, La letteratura in pericolo, trad. it., Milano, Garzanti, 2008.
[25] P. Camporesi, Il governo del corpo. Saggi in miniatura, Milano, Garzanti, 2008, p. 26.
[26] Ibidem, p. 23.
[27] Cfr. P. Camporesi, Conversazione con Giorgio Fabre. L’uomo e la sua fame, in M. Belpoliti (a cura di), Piero Camporesi, cit., pp. 134-142 (in particolare cfr. pp. 134-135).