Irene Palladini - L'immagine letteraria del latte

"Il libro è un cibo di parole"
Raffaele Crovi, Libro


MATER LACTANS

Indissolubile si configura il legame maternità allattamento, come nel fremito umanissimo di grazia che percorre i versi di S. Natale (1939) di Clemente Rebora:

“-Sta’ quieto mio Figlio,

Chè adesso ti piglio!

Del latte t’ho dato,

Del pan non ce n’è-“

Ma il riso luminoso della Mater lactans trascolora nel disperato corrotto della Mater dolorosa di Iacopone da Todi. Se nella lauda Donna de Paradiso la vitalità dei seni è vivida solo nel ricordo e rinnovata dal planctus, Boccaccio celebra la mite linfa nella vitalità dei seni di madonna Beritola. E poco importa, nella democrazia del cuore, che ad essere allattati non siano i figli, ma due caprioli.

L’allattamento, inteso come trionfo della vita, sostanzia anche il capitolo XXXV de I Promessi Sposi (1840). All’immobilità straniata del lazzaretto si contrappone infatti l’esuberanza di balie e capre, intente a offrire le poppe gonfie di latte.

Pur prefigurando un destino di eccezionalità, nel XV della Gerusalemme Liberata (1580- 81) “la orribil fèra” che offre il latte a Clorinda bambina non è invece espressione di vitalità, ma adombra la sventura e il bianco del latte si sgrana nel pallore del volto trasfigurato dalla morte.

Una visione perturbante della maternità e dell’allattamento caratterizza anche la produzione verghiana: in Nedda (1874) Verga narra la maledizione della penuria di latte.
E nella novella La festa dei morti (1887), accogliendo suggestioni della ghost story e della tradizione popolare, rappresenta i seni come fonte di tutti i veleni. Le mammelle vizze che la Speranza del Mastro (1889) strizza in bocca al lattante sono metafora dell’acrimonia di un mondo senza grazia.

Se la narrativa di Tozzi si configura come una mappatura dello sguardo, sospeso tra precarietà percettiva, cecità e culto feticistico dell’occhio, l’autore, nella sua superstiziosa mitografia, interpreta il latte in relazione alla fattura dell’evil eye, praticata da vecchie laide che praticano il maleficium lactis .

La perdita del latte, tra magia e sortilegio, si trasforma in revenant della colpa nella Mentina de La luna e i falò (1950), convinta che la zoppia del figlio Cinto debba essere attribuita alla penuria del suo latte. Neanche l’epos dei contadini della Marsica conferisce al liquido materno alcuna valenza salvifica o pacificante: le donne in Fontamara (1933) di Ignazio Silone allattano i figli nello squallore della loro vita.

Pirandello interpreta la dis-grazia dell’allattamento in tutta la sua tensione e torsione patologica: nella novella Il libretto rosso (1911) registra la nevrosi della compulsione ad allattare, sino alle soglie del delirio.

L’allattamento assume nella narrativa di Landolfi una valenza mostruosa e ad acuire l’orrore concorre, nell’immaginario teratologico dello scrittore, la percezione funerea del latte, in odore di sortilegio psichico. Il racconto dell’allattamento della pazza ne I canti di Maldoror (1869) di Lautrèamont, carico di un disfatto onirismo, ha esercitato più di una suggestione nella stregonesca narrativa di Landolfi. Così se in Un petto di donna (1975) agisce l’imbestiamento degli ubera, è soprattutto ne Il mar delle blatte (1939) che la grazia della lattazione e l’archetipo della mater lactans vengono rovesciati. E, novella Clitemnestra, Lucrezia si lascia suggere i seni dalla bestia, fra strazio compiaciuto e godimento perverso:

“Dalla cesta si levarono due serpi sonnolenti, strisciarono fuori sul pavimento vicino ai piedi dell’avvocato immobile, girarono lentamente il capo a destra e a sinistra quasi a orientarsi, poi si diressero con sicurezza verso al fanciulla. Ciascuno si impadronì d’un capezzolo e rimasero così a succhiare il latte”

Ma la secrezione della “liquida via lattea terrestre”, secondo la formula di Camporesi ne Le vie del latte, si presta talora a una potente trasfigurazione mistica, come nella Lettera a Madonna Bartolomea di Santa Caterina da Siena. Il latte dell’amore materno è qui sublimato nell’ardore del “latte della divina carità”. Un’energica sublimazione anima anche i grumi lirici ungarettiani, tratti da La notte bella: “Ora mordo / come un bambino la mammella /lo spazio”. Ma alla unio mystica della Santa si contrappone in Ungaretti la registrazione di un’estasi minima nel quotidiano assillo della morte.

La trasfigurazione adombra anche i versi de Il latte di Antonio Porta e la suzione è intesa come autentica rigenerazione mitopoietica:

“Dal tumulo a forma di mammella

sale la memoria del latte

adesso la mia fame s’impenna

per il tuo latte presente

lo succhio a lungo

mai sazio.

Dimmi, sei ancora incinta?

Di nuovo stai lievitando?

27.7.85-29.4.86-16.7.87”


PAESAGGI DI LATTE

Tasso nell’ Aminta (1580) rappresenta la beatitudine del locus amoenus ricorrendo alla imagerie del latte, come nell’ utopia di Elpino che, con la sua zampogna, “correr fa di puro latte i fiumi”. Anche la fiaba narrata da Anna nei Malavoglia (1881) ricorre alla freschezza sorgiva del latte nel configurare scenari di sogno.

Il latte, tuttavia, non informa di sé solo i paesaggi dell’utopia, ma anche luoghi fedelmente riprodotti o investiti di altre potenti significazioni simboliche. Nei Malavoglia Verga ricorre principalmente a due similitudini gastronomiche per rappresentare la terribilità del mare che ora frigge come un pesce nella padella, ora si disvela bianco come il latte. In tempi più recenti, il poeta mantovano Ivano Ferrari recupera l’identificazione mare-latte in una prospettiva da smaltitoio universale. Se in Macello (2004) una vitalità, per quanto impura, ancora sopravvive, ne La Franca sostanza del degrado (1999) il latte rappresenta la violazione anti-coesiva degli oggetti e il degrado come sola categoria dell’esistente: “ci sono le onde di plastica di un mare lattescente”.

Nel Mastro don Gesualdo (1889) la mitica età dell’oro è addirittura parodiata con ferocia implacabile dalle parole del barone Zardo:

“Don Gesualdo, avete sentito quante belle chiacchiere? Adesso siamo tutti fratelli.
Nuoteremo nel latte e nel miele, d’ora in poi”.

Nel Mastro il latte assume infatti una connotazione funerea tanto che il maleficium lactis permea anche lo squallore di interni domestici, come si evince dall’incontro con il marchese Mèndola.

Un brivido di mistero si insinua “tra mezzo alla nebbia di latte” nel notturno de L’assiuolo e nel crepuscolo di Piano e monte di Pascoli. Qui il sole “pende rossastro in un latte d’opale”, e il vivido contrasto cromatico acuisce l’ambivalenza tra vita e morte, tra la silente imperturbabilità dei monti e l’affacendarsi operoso (vano?) del paese. Entrambe le liriche sono accomunate non solo dall’identificazione latte-nebbia, ma dalla ierofania, funesto presagio, dell’assiuolo e della civetta.

La lirica di Gatto, venata di trepidante musicalità, si rapprende attorno ai nuclei della memoria e del sogno e l’idillio trascolora nelle accensioni surreali di Erba e latte.

Il bianco, nella sua dimensione più spettrale, connota la ricerca di Milton in Una questione privata (1963) di Beppe Fenoglio e la nebbia è qui assimilata a un mare di latte in cui è inevitabile perdersi. Anche il cielo può farsi lattiginoso e abbagliare, prefigurando la fine in un paesaggio innevato, come in Zebio Còtal (1961) di Guido Cavani: “Fuori il sole era scomparso in un cielo lattiginoso che abbagliava; le montagne si erano fatte grigie”.

Con prorompente sensualità l’alba, nel raffinato epigramma L’alba si presentò sbracciata e impudica di Amelia Rosselli, si disvela “lattante e latitante”, figura dell’instabilità elusiva della natura e della creazione poetica. Il liquido della vita si rivela così, nella tessitura poetica della Rosselli, scenario dell’anima, favorendo una sommessa identificazione regressiva: “al mio cuore latitante, lattante in culla”. Il verso suggella, ne La gorgiera mi stinge i capelli, la ingordigia nasconde, l’enigma di ogni volto che sapientemente elude l’ostinata perizia del ritratto.

ESTASI CULINARIE, TRA SEDUZIONE…

Attorno alla funzione nutritiva si organizza un viluppo di tensioni emotive dalla forte implicazione sessuale. Il latte, in particolare, ha una connotazione erotica piuttosto accentuata, in relazione all’arcaico piacere della stimolazione orale. Così il balsamo della vita fa da ouverture alla scena di seduzione tra Marcello e la diva americana ne La dolce vita (1960) di Fellini. Ma è ne Le tentazioni del dottor Antonio, episodio tratto da Boccaccio 70 (1962), che Fellini approfondisce l’intenso erotismo che promana dal latte. “Bevete più latte/ il latte fa bene/ il latte conviene/ a tutte le età” recita anche il motivo composto da Nino Rota per l’occasione e ripreso, nel 2009, dagli Avion Travel in “Nino Rota l’Amico Magico”.

La congenialità tra latte e bellezza sostanzia la canzone di lontananza In quella parte dove Amor mi sprona di Petrarca, in particolare nell’ immagine, tutta ovidiana, delle bionde trecce sciolte sul collo “ov’ogni lacte perderia sua prova”. Anche Galatea nelle Stanze (1475-1478) di Poliziano prorompe bianca più che il latte e con la sua bellezza alimenta lo struggimento d’amore di Polifemo. Ma se nella tenerezza delle ariose ottave del Poliziano il latte è cifra di una bellezza tutta da contemplare, una più intensa sensualità caratterizza Silvia nella Aminta (1580) di Tasso, come si evince dal particolare del liquido increspato che evoca, nella sua elusiva e corposa sensualità, un’intima inquietudine. Nelle audaci invenzioni dell’Aretino il bianco liquido si presta a irriverenti similitudini nel tripudio dell’eros, come nel XIV sonetto dei suoi Sonetti lussuriosi (1526).

La lirica di Penna, con l’eleganza epigrammatica che gli è propria, coglie la sensualità insita nella bevanda, in linea con quella “sublimazione per via erotica del quotidiano” individuata da Mengaldo. Il canzoniere del poeta è infatti popolato da lattai e lattaie che accendono, pur nella fugacità dell’apparizione, il desiderio:

“Un monotono vento di veicoli

ci sradicò dalla strada maestra.

Ci trovammo sull’erba. E fu la mesta

luce di quel crepuscolo un pericolo

gaio: la docile figura del lattaio.”

L’esclusività dell’eros, tra limpida figurazione e astrazione metafisica, si rivela nell’essenzialità dell’annotazione:

“Un bicchiere di latte ed una piazza

col monumento. Un bicchiere di latte

dalle tue dolci sporche nuove mani.”

Ne La curva del Latte (2002) di Nico Orengo, viaggio sospeso fra le radici della memoria e le inquietudini della modernità, il latte compare con la frequenza di un refrain. E da balsamo ristoratore, sorseggiato ogni sera dal maestro elementare, si rivela infine figura di un eros concepito come pura macchia di luce e latte.

…E PARODIA…

La congenialità tra latte e sensualità è tanto profonda da offrirsi al gioco abile di un
corrosivo humour, come nel sonetto Ogni capretta ritorn’a su latte attribuito, non senza incertezze, alla penna irriverente di Cecco Angiolieri. Un piglio mordace sostanzia qui la critica ai rapporti umani e, con amabile bonomia, il poeta condensa nella chiusa il sapore di una verità di universale limpidezza. Il Berni rovescia, nella parodia di Chiome d’argento fino, irte e attorte, non solo il sonetto del Bembo, ma tutta una tradizione letteraria fortemente stilizzata. Alle membra lattescenti, decantate sino all’estenuazione, subentrano nel Berni le “labra di latte”. E ne Il Negromante (1535) Ariosto satireggia il topos: Camillo, reggendo la lettera che immagina redatta da Emilia, si domanda: “Di quelle man, più che di latte candide/ più che di nieve, è uscita questa lettera?”. Inutile dire che la missiva è invece uscita dalle mani rognose dell’astrologo artefice, come il poeta fingitore, di sopraffini inganni.

Anche l’humour grottesco di Carlo Dossi si rivela nell’imagerie del latte: ne L’Altrieri (1881), Bildungsroman in bilico tra autobiografia e simulazione, lo scrittore evoca il “sapore di quelle gentili colazioncine di pane giallo nuotante in iscodelle di freschissimo latte”, ma l’idillio presto trascolora nel ritratto caricaturale del maestro Ghioldi, nelle cui vene scorre il latte, a sancirne tutta l’ imbelle ottusità. Nel delizioso amarcord di Permette un ballo, signorina? (2007) Andrea Mingardi ricorda, con intatto stupore, il gesto del latte versato sulla scollatura di Gianna, durante un litigio di altri tempi. Dall’incanto delle membra bianche come il latte, la donna si ritrova con tutto il latte versato addosso, e forse più vera.
Il latte coagulato può infine trasmutarsi nella stessa fibra tessile, come nell’ingegnosa prosopopea ideata da Marinetti ne Il poema del vestito di latte (1937).

IL NERO LATTE DELL’ABISSO, LATTE E SOLITUDINE

“Col latte di cocco e il caffè brasiliano/ felici noi siamo” recita un inedito di Luigi Tenco, ma, oltre la svagata ilarità del refrain, si avverte la solitudine del compositore. Il bianco luminoso del latte può infatti rivelare il vuoto dell’esistenza, come nella celebre sequenza di Io ti salverò (1945) di Hitchcock, in cui Cary Grant, bevendo un bicchiere di latte, percepisce la vertigine dell’angoscia. Ma è ne Il grido (1957) di Antonioni, film- sintomo sulla malattia dei sentimenti, che il latte rovesciato a terra diviene correlativo della estraneità di Aldo e Irma, nella spoglia cronaca del loro dis-amore.

Il latte, nella poesia umbratile di Antonia Pozzi, non comunica il calore dell’intimità, ma si configura come emblema di vita strozzata e, nel suo chiarore, di una albedo sottratta a ogni epifania. E, nel gioco di rifrazioni proiettive, a rivelarsi sarà il vuoto di ogni protezione:

“La disgrazia

E’ caduto il ragazzo

del lattivendolo, su per le scale:

un gran rimbombo

nella penombra fredda.

Gronda giù dalle rampe,

a larghe gocciole, il latte

delle bottiglie infrante,

commisto al sangue

delle mani ferite.

Quanto sangue, Signore,

in due povere mani di bambino!

Sulla sudicia pietra

del pianerottolo, ingrossano

pozze di latte cilestrino, opaco,

pozze di sangue rosso, abbacinante,

selvaggiamente libero,

selvaggiamente lieto.

Sopra una sedia dura

della nostra cucina,

bianco, ammollito, il piccolo

sembra ascoltare

il rodìo caldo

del suo sangue che fugge.

Fuori, per tutti i canali,

insiste

il rodìo freddo

della pioggia che cade.

3 maggio 1931”

Nei paesaggi topici della Genova e della Livorno di Caproni, teatro di un’epopea straniata nell’apparente quotidianità, il latte permea di sé luoghi e parvenze. Sospesa tra impressionismo lirico e prosaicità autobiografica, l’alba (di sé e del mondo) si rivela lattiginosa nella sua pura scaturigine, come nella lirica Prima luce.

Anche la regressione all’infanzia si rivela appieno nell’imagerie del latte ma, in una sorta di proustismo rovesciato, il latte rivela, al fondo, vana ogni ricerca, anche quella della propria identità. L’io lirico e le larvali figure che costellano la produzione di Caproni bevono da un bicchiere di latte la loro inesistenza e precarietà. E le latterie che appaiono nella sua lirica con ossessiva iterazione si configurano sempre meno come luoghi riprodotti con fedele realismo, ma scenari di illusione, correlativi di una solitudine senza scampo.
E la musicalità lieve e a tratti sognante distrae, ma solo per un breve momento, dalla lacerazione dell’esistenza. Il sussultare delle bottiglie del latte sulle carrette, ben lontano dal configurarsi come ornamentale bozzetto, assurge a paradigma di viaggio nel nulla, tra i cocci e i rottami del mondo:

“ Le biciclette

1944

Le carrette del latte ahi mentre il sole

sta per pungere i cani. Cosa insacca

la morte sopra i selci nel fragore

di bottiglie in sobbalzo? Sulla faccia

punge già il foglio del primo giornale

col suo afrore di piombo- immensa un’acqua

passa deserta nel sangue a chi muove

a un muro, e già a una scarica una latta

ha un sussulto fra i cocci. O amore, amore

che disastro è nell’alba! Dai portoni

dove geme una prima chiave, o amore

non fuggire con l’ultimo tepore

notturno- non scandire questi suoni,

tu che ai miei denti il tuo tremito imponi.”

Anche laddove il latte parrebbe evocare un esuberante vitalismo si insinua la percezione della fuga del tempo nel seme del lutto e della perdita. E, rovesciando abilmente il mito di Pigmalione, il poeta immagina la fiorita carne di latte e sangue farsi nuda pietra :

“A una giovane sposa

Vorrei per non saperti

cosa tanto precaria,

tu che di latte hai gonfio

il petto, e nella fiera

iride rechi l’altera

luce che ti dà l’aria

di Flora,

almeno un’ora

sola la tua fiorita

carne credere pietra

ferma: statua cui vita

non fa caduca il fuoco

del sangue

-e la demente

fuga del tempo, e il lampo

rapido che ci colora

l’ora, a te dolente

non fosse,

a te che senza

strepito hai accolto in sorte

nuova umana semenza.”

Nel delineare la sua personalissima mitologia, intessuta di echi favolosi e accensioni epiche, Pavese ricorre al Leitmotive del latte, tra utopia e disincanto. Così il liquido terrestre alimenta il ricordo di Margherita colta, nella lassa tratta da Inutilmente spero, ma chissà?, nella sua trepidante sensualità e nell’ebbrezza di una giovinezza che si vorrebbe sconfinata:

“Vedere dentro il fumo profumato

avvanzarsi la tua piccola faccia

O Margherita!

e ai fianchi un buon grembiule di bucato

e chiederti del latte e avidamente

berlo nella scodella di maiolica,

guardandoti negli occhi!

Oh il tuo latte il tuo latte, o dolce Rita,

la tua fronte più pura del latte!

Bere il latte dei tuoi casti pensieri

alla scodella azzurra dei tuoi occhi!

Sommessamente, poi, senza pretese,

invitarti a sedere accanto a me

e bere il latte insieme.

Oh dolce buona, dolce buona e cara

Rita, il tuo latte!

Oh i miei pensieri già si fan canzone

sommessi e rassegnati

al lento sgocciolio del rubinetto!

E scandisco il tuo nome, o Margherita

che ha la dolcezza della margarina

come sfoglierei il fiore che ha quel nome.

Tu sei nata così bianca di latte,

nel corpo nel tuo simbolo e nel nome,

ed io aspetterò a parlarti

finché non avrai bianche anche le chiome!”

(Novembre 1927)

Il latte nel flusso di coscienza dei Pensieri di Deola di Pavese prefigura il destino di smarrimento della donna. Qui, con ritmo salmodiante, perduta nella nebbia di un caffè cittadino, Deola gioca con la sua identità riflessa nel vetro e della nebbia. E, nella noia del mattino, sconosciuta agli altri e dimentica a se stessa, assapora la solitudine tra latte e brioches.

Ad acuire la coscienza della propria solitudine ed emarginazione, interviene ne Gli occhiali d’oro (1958) di Giorgio Bassani l’episodio-apologo della cagna dalle mammelle gonfie di latte. Se in principio la cagna segue Fadigati sino a casa, in seguito il pensiero dei piccoli impone il ritorno. Fadigati scorge una gran pozza di latte sul pavimento, ipotiposi di emarginazione e, lapidaria come un’epigrafe, la citazione “inde redire negant” suggella l’apologo.

L’ Urmale, di cui Gadda ha indagato la fenomenologia ne La cognizione del dolore (1963), si esplica nell’imagerie del latte. La lattazione non evoca l’appagamento ma disvela, in un crescendo tutto distorsioni patologiche, l’oltraggio traumatico, come nel tema virgiliano cui non risere parentes. Così la Madre vaga sola nell’oscura casa, certa di avere partorito e allattato la sua creatura invano. E, nello strenuo argomentare, la bevanda assurge a exemplum della nascita intesa come cotidie mori, già essa stessa inopinata catastrofe.

In tempi più recenti, Cristian Raimo ha rappresentato l’abisso della solitudine nel suo Latte (2001). L’ossessiva registrazione di dettagli, senz’altro ascrivibili a una poetica dello scarto, comunica la malavoglia della coscienza. La protagonista, in un domestico delirio bianco, esce infine per acquistare due litri di latte alta qualità, a ribadire la saturazione di sé nella standardizzazione del gusto. Il latte non scorre più copioso nelle isole dell’utopia, ma si acquista nel risveglio di una modernità irredenta.

IL LATTE TRA ORRORE…

La Kristeva, in Poteri dell’orrore, descrive compiutamente il sentimento di abiezione provocatole dalla visione della superficie del latte bollito. Più che alludere a una personale idiosincrasia, l’autrice intuisce qui l’oscura fascinazione del latte, tra attrazione a repulsione. Anche Camporesi ne Le vie del latte e ne Il sugo della vita, simbolismo e magia del sangue coglie le corrispondenze tra il sangue e il candido fluido. Se la vita scorre da sempre per humiditatem e l’inerzia del cadavere si manifesta nella secchezza degli alibantes, emergerà la ragione profonda di tale identificazione. Il latte tuttavia, nella corrispondenza oscura con il sangue, si rivela imago mortis, paradigma di underlying horror e di follia. Emblema di ogni reductio ad unum, la lattazione suggerisce figurazioni negative, specie, osserva Luciana Diodato, là dove sono presenti le componenti regressive della dipendenza infantile. Già Hitchcock aveva ricondotto il latte ad agente fobogeno: in Psycho (1960), prima di compiere il delitto, Norman offre a Marion latte e sandwich e ne Il sospetto è strumento di possibile avvelenamento.

Da vis vivificans il latte viene trasfigurato in corposa imago mortis anche nella pratica della mungitura, come nell’ “aia cruenta” di Padre e padrone. L’educazione di un pastore (1975) di Gavino Ledda. Anche il racconto Terra e sangue (1995) di Guido Conti si snoda lungo le vie del latte e del sangue, infatti il desiderio furioso del vaccaro Marasi è acuito dalla minzione del caldo latte.

La dialettica latte-sangue, percepita anche come assenza, acuisce l’ orrore che investe la collettività, fra registrazione storica e urgenza metafisica. Così nella lirica Anno domini MCMXLVII, Salvatore Quasimodo abbandona la mitologia dell’infanzia favolosa con la registrazione della rovina del mondo: “E non scorre più latte / né sangue dal petto forato”.

E, nella Milano di Uomini e no (1945) di Vittorini, un lattaio grida alle donne in coda per il latte che è arrivato cane Nero, prefigurando non solo il destino di morte di Enne2, ma di dell’umanità. Con il piglio epigrammatico e discorsivo che connota il meglio del suo canzoniere, Giovanni Giudici ricorre all’imagerie del latte, o meglio della latteria, per suggerire l’orrore che investe la società. Mediante la teatralizzazione oggettivante dell’io lirico, il poeta in Trotski lattaio in maglia di flanella rappresenta infatti la maschera psicologica e storica di Trotski che si presenta in paese “senza il bidone del latte”, ma in camicia nera. L’orrore anestetizzato si rivela più feroce nell’andamento quasi prosaico del testo: Giudici sa bene che i buoni cibi non confortano più dopo l’onesta fatica. Nel più recente romanzo- ballata Rapsodia delle terre basse (2009) di Massimo Bubola l’orrore si manifesta nel nauseabondo latte azzurro prodotto dalle vacche del paese di San Sebastiano. Come in una tragedia greca, il loimos si abbatte sulla comunità per i misfatti compiuti. L’orrore assume una connotazione metafisica in Apocalisse (1993), fanta-horror di Tiziano Sclavi, in cui una tazza piena di latte freddo catalizza tutta l’angoscia. Nella narrativa di Vassalli il latte rivela una natura inquietante: nel fiabesco L’oro del mondo (1987) ricorda la malattia dello zio Alvaro, in Marco e Mattio (1992) evoca la fame di sventurati pitocchi e in Mareblù (1982) è il cibo che alimenta l’orrore delle illusioni (o degli inganni?) della storia.

… E FOLLIA

Nella sua disadorna quotidianità il latte si configurai come scenario di una mente ottenebrata dalla follia, forse in relazione alla connotazione libidica dell’infans.

Frustrato dalle soffocanti cure della moglie e delle figlie, Bareggi, nella novella Fuga di Pirandello, vagheggia una sconfinata libertà. E, scorgendo il carretto del latte abbandonato dal lattaio, egli si lancia verso un impossibile altrove. Lo sconquasso dei bidoni e orci del latte è correlativo della mente obnubilata. In anni più recenti, l’assimilazione latte-follia costella la quotidianità abnorme de La pecora nera (2008) di Ascanio Celestini. Il mercato obitorio, tutto cibi cellofanati, si è realizzato e chi è vissuto ( o meglio sopravvissuto) sino ad oggi ha visto tutto, in una saturazione che ha già in sé il seme della dissoluzione. Il latte in polvere e il latte macchiato incarnano compiutamente l’orrore della nave dei folli narrata da Celestini.

SOTTO IL BOSCO DI LATTE, TRA MEMORIA E SOGNO

Nel latte lievitano le epifanie della memoria e l’infanzia, ora stuporosa ora straniata, rivive nella secrezione lattea. Valerio Magrelli registra così la panoplia della sua ex-fanzia nella imagerie regressiva del latte. In Rivelarmi al gelo, con caustica ironia, egli annota: “Da piccolo il cloro delle piscine mi faceva sanguinare gli occhi. Allora mia madre, seguendo il consiglio di un istruttore feroce e amato, mi istillava per collirio mezzo litro di latte”. E l’intero processo di crescita, sbieco e sghembo, è ricondotto, in un allegorismo acuminato, proprio al latte. In Nature e venature (1987) si legge:

“Passato qualche tempo tutto il latte

va a male, come se andasse verso

il male, la sua cattività,

si contrae, si rapprende,

abbandona il proprio stato liquido

e inizia a farsi forma.

La sostanza rafferma

prende corpo, resuscita

in una carne nuova e compatta, estratta

dalla bestia. E’ cacio, metamorfosi

del secreto animale, il frutto

morto di una pianta viva,

sazia creatura pallida e lunare”.

La vis genitiva del latte, tra memoria e sogno, prorompe nell’arcadia senza grazia della lirica Altrui e mia di Andrea Zanzotto. In un paesaggio-arabesco, infittito da segni oscuri, si distende l’eco struggente della madre: “Eri bambina/ cercavi il latte nella grande estate”. La regressione, nella ricerca di una scaturigine autentica, si configura sempre più come una catabasi. E il culto della terra, tra memoria antropologica e liturgia, svapora “nella via lattea dell’infanzia” evocata da Raffaele Crovi in Cola, eco della “pallida via lattea di rimpianti eterni” di Lautréamont ne I canti di Maldoror (1869). Il latte assurge a paradigma di possibile radicamento, genius loci per una nuova mappatura dello sguardo. Il latte dà voce ai rimpianti della memoria e la vita, ricorda Chico Buarque, è sempre Latte versato (2010).

Il latte scorre in ogni terra promissionis e, nella sua sacralità, risponde al bisogno umanissimo di fuggire dal mondo e dalla storia, conducendo l’uomo “nell’eden effimero della dolce vita lattata e mielata, nel confortevole paradiso del ritorno all’infanzia smemorata del mondo”, come osserva Camporesi. La bianca linfa esercita, nella sua indeterminatezza fluttuante, una profonda fascinazione onirica. Si pensi, a questo proposito, allo straniamento suscitato dai versi di Laurie Anderson in I dreamed I had to take a test (1984): “Ho sognato che dovevo fare un esame/ in una latteria su un altro pianeta”. Icaro disilluso, anche il dottor Pigozzi immagina di volare e porta con sé un tubetto di latte condensato, forse per sostenersi durante il volo su una Fiat. La fantasticheria, narrata in Vite brevi di idioti (1997) di Ermanno Cavazzoni, con l’andamentosragionante da operetta ipotetica, mostra che il latte invita alle stramberie un’intera corte di pitocchi in odore di saggia follia. Una delle più convincenti interpretazioni del latte come imagerie del sogno si trova nel picaresco Poema dei lunatici (1987) di Ermanno Cavazzoni. Qui si racconta della progressiva sparizione dei Visigoti, intenti a copulare con ombre e a bere latte come se si fosse rovesciata la secchia. La memoria, anche quella storica, si scioglie nella nebbia lattescente del sogno.

ALBA PRATALIA ARABA: IL LATTE E LA SCRITTURA

Da sempre gli scrittori, specie quelli inutili, sono stati allevati con latte materno, ricorda Ermanno Cavazzoni con svagata ironia nell’epica stralunata de Gli scrittori inutili (2002).
E da adulti essi naturalmente ricercano nel chiarore della pagina o dello schermo la beatitudine della calda linfa. Ma l’eden si può rivelare irrimediabilmente perduto e lo scrittore può annegare nel bianco dell’angoscia o in uno specchio che riflette solo il vuoto del volto e il nero delle parole. Si pensi all’intensità ipnotica, percorsa da espressionismo vigoroso, dei versi tratti da Per il giorno che viene di Antonio Porta:

“ (nello stesso istante scendere e salire

poche nere parole dentro uno specchio)

Per lo specchio che affonda nel latte?

E quale nascosta mammella inonda lo specchio?”

Tommaso Carta, protagonista de Le etichette delle camicie (1996) di Tiziano Sclavi, cerca di reagire alla solitudine con la semplicità di un gesto ritualistico: bevendo latte direttamente dal cartone. Ma nemmeno il balsamo dell’infanzia può lenire la deprivazione sensoriale, oggettivazione di una ageusia esistenziale. Forse il latte della scrittura e della parola può salvare da sicuro naufragio, come sembra alludere Fellini nel finale de La nave va (1983). Mentre un intero mondo cola a picco, con tutto il suo carico di miserie, Orlando, più affabulatore che cronista, scampa a sicura morte insieme a un monumentale e ieratico rinoceronte, che lo nutrirà con il suo latte. Nell’epocale naufragio con spettatore, per dirla alla Hans Blumenberg, a salvarsi sarà dunque lo story teller, sempre sospeso tra memoria e sogno. Nel recente Le cose fondamentali (2010) di Tiziano Scarpa, il protagonista consegna infatti la memoria della sua vita al latte nero della scrittura, e poco importa se alla fine resterà solo lo schermo bianco di chi preferisce dimenticare. Nella scrittura sopravvive l’archetipo della mater lactans e, a ricordarci che il latte della scrittura è buono, anche tra le rovine di un paese devastato dalla guerra, è Garane Garane ne Il latte è buono (2005). Il latte è buono davvero, anche quando è amaro, proprio come la vita, e forse la mammella dell’universo è tutta nel libro-cibo, puro latte dell’anima.

 

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