Elisa Curti - Le castagne letterarie

"Mangiamo pane e castagne, come una poesia,
perduta nella memoria dai tempi di scuola.
Domani ce lo diranno, cosa vorranno che sia,
ce lo diranno domani, prima di andare via."
F. De Gregori, Pane e castagne


Frutto ambiguo, dolce ma pungente, con il suo riccio spinoso, duro, eppure morbidissimo una volta cucinato, la castagna riflette questa duplice natura prestandosi generosamente sia alla tavola dei poveri, in forma di farina, zuppe, castagnacci, sia ai salotti più raffinati, glassata e francesizzata in marrons glacés e montblanc.
Assai diffusa in tutta l’Europa continentale, la castagna incarna anche letterariamente una tenace presenza che attraversa i secoli. Le sue attestazioni risalgono fino al medico greco Galeno che, nel De victu attenuante ne depreca la scarsa digeribilità (X, 80: «le castagne e le ghiande si usano crude, mentre sono indigeste se vengono bollite, cotte oppure abbrustolite»), mentre nel mondo romano l’enciclopedico Plinio, nella sua Naturalis Historia narra come gli Indi ricavassero dalle castagne un olio particolare (15, 28: Indi e castaneis ac sesima atque oryza facere dicuntur, Ichthyophagi e piscibus). Più amenamente il virgiliano Titiro la celebra tra i cibi pastorali (Sunt nobis mitia poma, / castaneae molles et pressi copia lactis Eg. I, 80-81).
Molto frequenti nel Medioevo, evidentemente ben ghiotto della loro nutriente polpa, integrativa delle poche proteine disponibili, le castagne percorrono la letteratura fino ai giorni nostri, disseminate in prose e versi, amate da poeti come Pascoli e Montale e ricercate, anche nella vita reale, da romanzieri come Gadda, che era solito portare in dono agli amici vassoi di lucidi marrons glacés.
Pattona, migliaccio o castagnaccio, necci, busecchina, mistocchina, manafregoli, palugona castagne secche, ballotte, caldarroste, in purea, con il latte, farina di castagne, polenta di castagne, infusi e decotti curativi, miele e marmellata di castagne, marroni, marrons glacés e montblanc sono più o meno golose declinazioni alimentari dell’umile frutto del castagno che però si presta, oltre che alla cucina, anche ad anfibologie sessuali e proverbi misogini e, in aggiunta, a similitudini non sempre lusinghiere.
Iniziamo a vedere alcune delle tante declinazioni di questo frutto. 

 
1. Castagne “al naturale”

Nominativi fritti, e Mappamondi,
E l’Arca di Noè fra due colonne
Cantavan tutti Chirieleisonne
Per l’influenza de’ taglier mal tondi.
La Luna mi dicea: che non rispondi?
E io risposi; io temo di Giansonne,
Però ch’i’ odo, che ’l Diaquilonne
È buona cosa a fare i capei biondi.
Per questo le Testuggini, e i Tartufi
M’hanno posto l’assedio alle calcagne,
Dicendo, noi vogliam, che tu ti stufi.
E questo fanno tutte le castagne,
Pe i caldi d’oggi son sì grassi i gufi,
Ch’ognun non vuol mostrar le sue magagne.
E vidi le lasagne
Andare a Prato a vedere il Sudario,
E ciascuna portava l’inventario.
Può sembrare quanto di meno naturale ci sia iniziare questa sezione con il più celebre dei sonetti burchielleschi (Rime, X), a cui – volendo osare – si potrebbe abbinare un capitolo che il Berni dedica al cardo e alle sue delizie (Rime, IX, 41), «meglior che ’l pane e ’l vino», in cui la nostra castagna compare assieme alle mele come “fine pasto”:
 
Dispiacciono a qualch’un che non ci è avezzo,
come suol dispiacere il caviale,
che pare schifa cosa per un pezzo:
pur non di manco io ho veduto tale
che, come vi s’avezza punto punto,
gli mangia senza pepe e senza sale;
senza che sien così trinciati a punto,
vi dà né più né men drento di morso,
come se fusse un pezzo di pane unto.
A chi piaccion le foglie et a chi ’l torso;
ma questo è poi secondo gli appetiti:
ogniuno ha ’l suo giudizio e ’l suo discorso.
Costoro usan de dargli ne’ conviti,
dietro, fra le castagne e fra le mele,
da poi che gli altri cibi son forniti.
 
L’accostamento alle mele compariva del resto già in Cenne della Chitarra, nella sua Risposta per contrari ai sonetti de’ mesi di Folgore da Sangeminiano (XII, 5-8: «Ogni buona vivanda vi sia in banno; / per lume, facel[l]ine da verdeta; / castagne con mele aspre di Faeta: / [i]stando tutti ensieme en briga e lagno»), e poi in Boccaccio (Esposizioni sopra la Comedia, canto VI, esposizione allegorica 3) mentre spesso, come omaggio autunnale, alla castagna si associa la nocciola (come quelle che il buon fra’ Carmelo ricorda di aver portato in dono alla principessa Uzeda all’inizio dei Vicerè di De Roberto).
Dunque una prima e importante connnotazione, più o meno simbolica, della castagna è quello di cibo povero e primordiale, da consumarsi, sulla scorta di Virgilio, tra pastori arcadicamente atteggiati (le «castagne mollissime» di I. Sannazaro, Arcadia, 6, 1, ma anche il «pan che di castagne allor facièno, / ché grano ancor le genti non avièno» del Ninfale fiesolano, 224, 7-8), o dono agreste di poco conto come, appunto, nei Vicerè e in Manzoni in cui il sarto accoglie don Abbondio in fuga dai saccheggi dei lanzichenecchi con un pasto frugale ma festoso a base di castagne arrosto, pesche e fichi («Presto, presto; il sarto ordinò a una bambina – quella che aveva portato quel boccone a Maria vedova: chi sa se ve ne rammentate più! –, che andasse a diricciar quattro castagne primaticce ch’eran riposte in un cantuccio: e le mettesse a arrostire» Promessi Sposi, XXIX).
Proprio in questa accezione la castagna è la protagonista di una gustosa novella del Sacchetti (Trecentonovelle 185) che vuole stigmatizzare l’avarizia attraverso l’exemplum di Pero Foraboschi. Questo, anziano e bizzarro, rientrando a Firenze dalla Valdarno porta con sé delle castagne secche regalategli da un contadino e, durante il viaggio, le biascica tentando invano di mangiarle; una volta in città, trovatosi a bere in compagnia le offre agli amici ormai tutte «vincide» (mollicce), suscitando lo sdegno di Bartolozzo speziale che, per ripicca, gli fa trovare una testa di gatta nell’oca ripiena della festa di Ognisanti.
Elemento ricorrente anche della poesia giocosa e catalogica, come abbiamo visto in Burchiello e Berni, ma potremmo aggiungere almeno Bernardo Giambullari e il suo Capitolo sulle vitrù della frutta (XXXIV, vv. 121-126: «Le castagne ci son, che ventoliere / sarebbe più lor nome che castagna, / perché le fan parlar più che ’l dovere»), la castagna in sé e per sé, cruda o cotta che sia, rimanda ad un mondo semplice, primigenio e non artefatto, spesso montano, come in una divertita e divertente poesia di Juvenilia del Carducci (LXIX, A un poeta di montagna, vv. 1-6):
 
Nascesti dentro d’un secchion da latte,
E a scrivere imparasti in una bótte,
Accordando le rime irte ed astratte
A lo scoppiar de le castagne cotte.
A quelle rime strampalate e matte
Sentironsi a bociare asini e bòtte,
 
un mondo di cui rappresenta la ruvida naturalità, l’umiltà e insieme l’austero decoro, come ad esempio in Grazia Deledda (Cenere: «Si alzò, accese una primitiva candela di ferro nero, e preparò la cena: patate e sempre patate: da due giorni Olì non mangiava altro che patate e qualche castagna») e in Fogazzaro, in cui, a descrivere le difficili condizioni economiche della famiglia Maironi, protagonista di Piccolo mondo antico, vengono citate proprio le castagne tra i poveri doni rustici che i paesani portano alla sfortunata Luisa (parte II, capitolo 6):


Adesso la vita era dura in casa Maironi. Si faceva colazione con una tazza di latte e cicoria adoperando certo zucchero rosso che puzzava di farmacia. Non si mangiava carne che la domenica e il giovedì. Una bottiglia di vin Grimelli veniva ogni giorno in tavola per lo zio, il quale non voleva saperne di privilegi. […]. La serva era stata licenziata; restava la Veronica per le faccende grosse, per la polenta, e qualche volta per badare a Maria. Malgrado queste ed altre economie, malgrado che la Cia avesse rinunciato al suo salario, malgrado i doni di ricotta, di mascherpa, di formaggio di capra, di castagne, di noci, che piovevano dalla gente del paese, Luisa non riusciva a tener la spesa dentro l’entrata. Si era procacciato qualche lavoro di copiatura da un notaio di Porlezza; molta fatica e miserabilissimi guadagni.

2. Castagne "cucinate"

All’estremo opposto della naturalità troviamo i raffinatissimi e elaborati marrons glacés, delizioso simbolo di un mondo borghese e a tratti estenuato e di un uso certo ben meno necessario della povera castagna. Uno dei passi più belli che riguardano questi zuccherosi dolciumi è contenuto nel Castello di Udine (nel racconto La fidanzata di Elio) di Carlo Emilio Gadda: nel salotto di Donna Carla si celebrano i riti borghesi della maldicenza e si commisera falsamente l’umile condizione del protagonista Elio; il «biondissimo» Carlo Pistoni, in particolare, lo deride con crudeltà suscitando la reazione fintamente indignata delle donne presenti:
 
«Oh ma quel Carlo!...», si scandalizzavano le belle, in un impeto di segreta ammirazione per l’impomatato. Teresa intermise esterrefatta il lavoro: tacque il fecondo balbettìo degli uncini: «Mangi un marron glacé e stia zitto! Mi faccia il piacere di star zitto!» E con occhi appassionati, mentre il gomitolo soffice rotolava lontano, mise davvero il più bel marron glacé nella bocca dell’ammonito, che si spalancò pronta, rivelando la bianca corona dei denti e la lingua immobile. Gli occhi risfavillarono, prima di chiudersi lenti come in un languore beato, e le guance si impegnarono sùbito nel dilettoso tramestìo: per ingollare quel po’ po’ di castagna gli ci vollero davvero due buoni minuti, durante i quali ebbe modo di registrare con soddisfazione i successi del suo raffinato discorrere.
Donna Carla, inseguito con rapida occhiata il suo miglior marron, pensò altrettanto rapidamente (quando proprio lo vide spacciato dentro le fauci del giovane), che quel bel tomo non avrebbe mai impalmano nessuna delle sue quattro figlie: era però un ragazzo magnifico, sicchè donna Carla, razionalmente indispettita, si sentì fisiologicamente soddisfatta di quella così elegante deglutizione.
 
L’«elegante deglutizione» del marron glacé, che rivela l’uomo di mondo, si fa immagine simbolica, sottesa di sensualità, di una società artefatta e languida, in cui il rito raffinato prevale su tutto. Quell’«ingollare» il miglior bonbon del salotto, pòrto in bocca dalle mani di una donna, assaporato con gli occhi chiusi e con «dilettoso tramestìo» è un atto di straordinario e non celato erotismo che turba sottilmente la rarefatta atmosfera del salotto.
Prima di Gadda anche il graffiante umorismo di Carlo Dossi nei ritratti de La desinenza in A, cita il marron glacé come grottesco ornamento dell’acconciatura delle bambole di Isa, la figlia «settenne» della contessa Tullia, di cui evidentemente, attraverso la bimba, si dileggiano i vezzi (Atto 1, sc. 1):
 
En attendant, siedi alla pettiniera. ¡Ici, Lulla e Amorina! - (e Isa, da un mucchio di bambolucce, elèssene due e poi altre) - Allumez les bougies… Tu, Tesoretta, và a pigliare il peignoir. Tu, Carmelita, inclina la glace e dammi un miroir. Monsieur Violet, la, mi faccia una coiffure à la chienne-adorable con su una bella corona di marrons glacés e di carta di dolci e una piumona di pollo del Paradiso... ¡Du koheuil et un bâtonnet, Tesoretta! ¡de la veloutine, Carmelita!  
Molto diverso l’ambito reale e simbolico in cui troviamo un altro dolce a base di castagne, il castagnaccio (che a seconda delle zone acquista nomi diversi, tra cui migliaccio, baldino o pattona). Tipico piatto povero, fatto di farina di castagne, pinoli e uvetta, diffusissimo nelle zone appenniniche tra Emilia, Toscana e Liguria, rimanda ad un ambiente di rozza semplicità, rappresentato da Bertoldino, l’eroe villano delle avventure di Giulio Cesare Croce, grande mangiatore di castagnacci («però, se mi volete vivo, fatemi venticinque castagnacci, ché io sento che sono tanto debole, ch’io non posso a pena star in piedi» dice alla moglie Marcolfa, preoccupata per la sua salute: Le piacevoli semplicità di Bertoldino, cap. 27), che, protestando contro gli abiti troppo stretti con cui il sarto del re sta tentando di rivestirlo, minaccia di rigurgitarne proprio uno appena ingoiato (Le piacevoli semplicità di Bertoldino,cap. 7):
 
SARTORE: Come, che io t’impicco? e che cosa ti faccio io da impiccarti?
BERTOLDINO: Tu mi stringi tanto la gola ch’io non posso avere il fiato.
SARTORE: Egli è il vestimento, che va così assettato alla gola, e per questo a te pare che io t’affochi nell’accomodarlo.
BERTOLDINO: Se tu vai stringendo un poco più, io non terrò saldo, perché sento che mi vien suso un castagnaccio ch’io ho mangiato poco fa. Guarda che il viene; non te lo diss’io, ch’io non terrei saldo?  
Ben presente nella poesia giocosa e burlesca, in particolare in Burchiello (I sonetti CXLIX, E ranocchi che stanno nel fangaccio, vv. 12-15: «Grilli e frittelle e formaggio sardesco, / penniti e funghi e castagnacci duri / enterranno in mie scambio, s’i’ me n’esco») lo ritroviamo anche nella Nencia da Barberino di Lorenzo de’ Medici, dove il bifolco Vallera, tentando di blandire la Nencia di cui è innamorato, ne descrive la bellezza con immagini rusticane («ed è più tenerella che un ghiaccio, / morbida et bianca, che pare un migliaccio» ott. 9, 7-8), per poi rivelarle i propri sentimenti con un rozzo canto che allude, attraverso il castagnaccio, alla stagione autunnale (ott. 48):
 
I’ son di te più, Nencia, innamorato,
che non è il farfallin della lucerna;
et più ti vo cercando in ogni lato,
più che non fa il moscione [al]la taverna;
più tosto ti vorrei havere allato,
che mai di nocte una accesa lucerna;
hor, se tu mi vuo’ ben, horsù, fa’ tosto,
hor che ne viene e castagnacci e ’l mosto.  
È questo del resto un uso frequente, la castagna e i suoi derivati come simbolo dell’autunno, presente per esempio in Boccaccio nella novella di Madonna Belcolore («Poscia, avendola minacciata il prete di farnela andare in bocca del lucifero maggiore, per bella paura entro, col mosto e con le castagne calde si rappatumò con lui, e più volte insieme fecer poi gozzoviglia» Decameron, VIII, 2, 47).
Ritornando ai migliacci, questi abbondano soprattutto nella letteratura antica: basti citare la conclusione sempre del Decameron, in cui Boccaccio invita ironicamente i baciapile e le beghine – che preparano i dolci per i propri confessori – a tralasciare le sue novelle («Chi ha a dir paternostri o a fare il migliaccio o la torta al suo divoto, lascile stare; elle non correranno di dietro a niuna a farsi leggere, benché e le pinzochere altressì dicono e anche fanno delle cosette otta per vicenda!» Conclusione dell’autore, 15). Ma la migliore descrizione del migliaccio mi sembra essere quella dedicatagli nell’appassionato credo culinario di Margutte, coprotagonista del Morgante di Luigi Pulci (XVIII, 124):
 
S’io ti dicessi in che modo io pillotto,
o tu vedessi com’io fo col braccio,
tu mi diresti certo ch’io sia ghiotto;
o quante parte aver vuole un migliaccio,
che non vuole essere arso, ma ben cotto,
non molto caldo e non anco di ghiaccio,
anzi in quel mezzo, ed unto ma non grasso
(pàrti ch’i’ ’l sappi?), e non troppo alto o basso.
 
Va però detto che il termine migliaccio è ambiguo, dal momento che indica anche un dolce a base di miglio o di sangue di maiale e dunque le varie attestazioni possono riferirsi a preparazioni diverse.
Tra gli altri dolciumi di castagne noti alle pagine letterarie troviamo anche la mistocchina, citata da Goldoni ne L’impresario delle Smirne del 1760, in cui è il soprannome agrodolce di Annina, cantante bolognese di scarse doti (Atto 4, sc. 2):
 
TOGN. Dica, ha ella osservato questa mattina dal Turco quella virtuosa?
LUCR. E chi è? Come si chiama?
TOGN. La Mistocchina.
LUCR. Che vuol dir Mistocchina?
TOGN. Come quella giovane è bolognese, e che a Bologna chiamano mistocchine certe schiacciate fatte di farina di castagne, le hanno dato un soprannome, che conviene alla sua patria ed alla sua abilità. Non sa poverina, quel che si dica. Sono più di dodici anni che impara la musica, e non sa nemmen solfeggiare; non unisce la voce, non intuona una nota, va fuori di tempo, strilla, mangia le parole, ed ha cent’altri difetti.  
Non molto diversa sarà stata la torta di castagne modenese citata ne Il cavaliere giocondo, altra commedia goldoniana, ambientata questa volta proprio a Bologna (Atto 4, sc. 4: «CAV. Altre due cose buone a Modona mangiai; / L’ho detto cento volte, e non ne vedo mai. / Ricordatelo al cuoco, vo’ due torte compagne, / Una di latte e vino, ed una di castagne»).  
A tutt’altro genere letterario, ma sempre all’ambito padano, appartiene la Palugona, la torta «tipica di Monzurlo, parente stretta della Luisona» di cui parla Stefano Benni in Bar sport duemila; se la Luisona era la terribile «decana delle paste» del bar Sport e dal colore della sua crema «i vecchi riuscivano a trarre le previsioni del tempo» (Bar Sport, 1976), la Palugona, «fatta con farina di castagne, burro, ghiaia, mascarpone, mandorle, miele denso, ricotta, colla di pesce, segatura e canditi», rappresenta la torta “pesa” del «Bar Peso», indigeribile specialità a cui si accostano solo incauti turisti:
La Palugona è fatta con farina di castagne, burro, ghiaia, mascarpone, mandorle, miele denso, ricotta, colla di pesce, segatura e canditi. La sua particolarità è il forte coefficiente di impalugamento, cioè la tendenza a formare un malloppo ostruttivo in bocca, o in gola. È stato calcolato che per masticare una fetta di Palugona è necessaria un’energia pari a quella che occorrerebbe per masticare duemilaquaranta panettoni. Questo numero è detto il coefficiente di Ferdi, dal nome dello scienziato che morì durante l’esperimento, e si scrive:
M 1 PL = 2040 m pa
La Palugona, una volta a contatto con la saliva, si densifica in una melassa al calcestruzzo che si attacca ai denti e al palato con terribile effetto occludente. I monzurlesi bevono in media un bicchiere di vino ogni briciola di Palugona, ma anche così la torta è difficile da mandare giù. Spesso dopo ogni boccone bisogna scalpellare molari e premolari, e spruzzare acqua calda sulla lingua, a volte anche Niagara o altri prodotti per sturare i lavandini. Ma la Palugona è pericolosa soprattutto quando giunge in gola. Qua, per essere inghiottita, deve essere spinta con un bastone, o un forchettone, oppure sparata giù con un getto di aria compressa.
 
Per concludere la sezione pasticcera non si può non citare una scena cult del film Bianca di Nanni Moretti (1984): la celebre tirata sulla torta Sacher del professor Apicella parte infatti proprio da una pignola considerazione su come si tagli il montblanc:
 
- Lei non faccia il tunnel!
- Cosa?
- Lei mi sta scavando sotto, mi toglie la panna, la castagna da sola sopra non ha senso. Il Mont Blanc non è come un cannolo alla siciliana che c’è tutto dentro, è come uno zaino: lei se lo porta appresso per un mese e sta sicuro. Il Mont Blanc si regge su un equilibrio delicato, non è come la Sachertorte
- Cosa?
- La Sachertorte…
- Cos’è?
- Cioè lei praticamente non ha mai assaggiato la Sachertorte?!...
- No.
- Va be’ continuiamo così, facciamoci del male!!!  
Evidentemente questa borghese tavola romana difetta dei raffinati camerieri che, nel Gattopardo di Tomasi da Lampedusa, durante il ballo a palazzo Ponteleone servono al principe Salina «una fetta di Mont-Blanc e un bicchiere di champagne».

Castagne “in lingua”

La castagna, oltre che in cucina, è presente in moltissime formule linguistiche, metaforiche, gergali, anfibologiche, a conferma di una lunga e fortunata tradizione. Espressioni come «castagne secche» ad indicare cose di poco o nessun conto, «togliere le castagne dal fuoco», «prendere in castagna» sono ancora diffuse nella lingua d’uso, così come «castagna» nell’accezione di colpo, pugno e l’ancor più diffuso «marrone» nel senso di errore; meno frequente, ma ancora attestato, è il proverbio, di grande fortuna misogina, «la donna è come la castagna, bella di fuori e dentro la magagna» in tutte le sue varianti e la metafora relativa all’organo genitale femminile.
Le castagne secche compaiono per esempio nelle rime di Antonio Pucci, ad indicare i futili motivi per cui litigano le verduriere del Mercato Vecchio (Rime 46, 50-53: «Sempre di più ragion vi stanno trecche: / diciam di quelle con parole brutte / che tutto il dì per due castagne secche / garrono insieme chiamandosi putte»), o nel poema eroicomico di Alessandro Tassoni, come paradossale epiteto del guerriero Irneo Montecuccoli (Canto 3, ott. 14):
           
Fu Irneo di Montecuccoli il secondo,
figliolo del signor di Montalbano,
giovane disdegnoso e furibondo,
e di lingua e di cor pronto e di mano;
a carte e a dadi avria giucato il mondo,
e bestemmiava Dio com’un marrano:
buon compagno nel resto e senza pecche,
distruggitor de le castagne secche.  
  Ben più significante è la loro presenza al centro di un paio di battibecchi esilaranti ne La bottega del caffè goldoniana tra don Marzio e le donne che tenta di sedurre, sempre offrendo loro delle castagne secche: prima la ballerina Lisaura (Atto 2, sc. 9) e poi Placida (Atto 2, sc. 11; Atto 3):
   
MAR. Aprite, aprite, che parleremo.
LIS. Mi scusi, io non ricevo visite.
MAR. Eh via!
LIS. No davvero.
MAR. Verrò per la porta di dietro.
LIS. Anche ella si sogna, della porta di dietro? Io non
apro a nessuno.
MAR. A me non avete a dir così. So benissimo, che
introducete la gente per di là.
LIS. Io sono una donna onorata.
MAR. Volete che vi regali quattro castagne secche? (le
cava dalla tasca).
LIS. La ringrazio infinitamente.
MAR. Sono buone sapete. Le fo seccare io ne miei beni.
LIS. Si vede, che ha buona mano a seccare.
MAR. Perché?
LIS. Perché ha seccato anche me.
MAR. Brava! Spiritosa! Se siete così pronta a far le
capriole, sarete una brava ballerina.
LIS. A lei non deve premere, che sia brava, o non brava.
MAR. In verità, non me ne importa un fico.  
Stesso significato naturalmente avrà la semplice castagna, in espressioni come quella di Giambattista Basile “per due castagne” (Lo cunto de li cunti, Giorn. 5, tratten. 4 «E la zita respose: “Ben se pare ca sì na sciaurata, si campasse ciento anne, che fai la schifosa de vasare no giovene cossì bello ed io, pe doi castagne, me lassai vasare a pezzechille da no pecoraro!”») o di Niccolò Franco (Priapea, 58, 1-4: «O vos otros vegliaccos nati in Spagna, / ch’a l’orto mio venite stravestiti, / e da me volete essere serviti, / né darmi in ricompensa una castagna»). Una variante secondaria è poi quella del pulire le castagne ad indicare un’azione inutile e di poco conto, come ad esempio in Bandello («tu non stavi armato per mondar de le castagne», Novelle, Parte seconda, 28).
Sempre in Goldoni, evidentemente appassionato di castagne, troviamo l’espressione «cavar la castagna dal foco colla mano altrui» (Gli amori di Zelinda e Lindoro, Atto 1, sc. 5), ad indicare il fare qualcosa a vantaggio proprio esponendo altri al rischio. Il modo di dire più diffuso rimane comunque il «togliere le castagne dal fuoco con la zampa del gatto», che sembra derivare dal francese «tirer les marrons du feu», espressione tratta da una favola di Jean La Fontaine Le singe et le chat. Nella fiaba una scimmia e un gatto decidono di mangiarsi delle castagne messe ad arrostire ma, quando arriva il momento di toglierle dal fuoco, la scimmia, per non scottarsi, convince a compiere l’azione pericolosa il compagno che alla fine rimane a bocca asciutta. Rievocata nella quarta satira di Salvator Rosa (La Guerra, vv. 292-297: «così la scimia quando il fuoco avampa, / per cavar la castagna e non si cuocere, / de la gatta balorda opra la zampa. / Più non badano i re quanto può nuocere / d’un uom la morte: pur che stian lontani, / restin vedove e figli e madri e suocere»), l’espressione ritorna più volte nei romanzieri siciliani veristi, ad esempio ne I Vicerè di Federico de Roberto (Parte 1, 3: «“Perché non parla Vostra Eccellenza con Giacomo?” Il monaco, a quest’uscita, diventò paonazzo e parve sul punto di soffocare. “Ho da parlar io, ah, bestia? ah, bestiona? Vi piacerebbe, bestioni, prender la castagna con la zampa del gatto? Ah, volevate che parlassi io!... E che cavolo vi pare che me n’importi, in fin dei conti, se vi spoglia, se vi mangia tutti quanti, brancata di pazzi, di gesuiti e d’imbecilli, oh?...”»), ne Il Marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana (cap. 21: «Scadeva di carica il Sindaco. Menato pel naso da due o tre consiglieri furbi e prepotenti che non avevano voluto essere della Giunta per levare le castagne dal fuoco con la zampa altrui, egli non osava di muovere un dito senza aver preso prima l’imbeccata da loro») e anche in Verga, nel Mastro don Gesualdo (parte 2, cap. 1) e ne I Malavoglia (Cap. 8: «A mastro Vanni gli piacerebbe levar le castagne dal fuoco collo zampino di Piedipapera»).
Se la castagna diventa un poco lusinghiero termine di paragone nelle similitudini (Burchiello, I sonetti, LXXXV, 7-8: «e le ginocchia paian duo castagne, / sì son ben magre da far gelaria»; Emilio De Marchi, Arabella II, 1: «una faccia rugosa come una castagna secca»; Remigio Zena, La bocca del lupo, 8: «Angela pareva una castagna secca»), viene anche utilizzata in chiave anfibologica ad indicare metaforicamente l’organo femminile. Proprio nel Galateo di Monsignor della Casa, al capitolo XXII, laddove consiglia di «fuggir di dire le parole meno che oneste», l’autore spiega:
 
Le mani alzò con amendue le fiche», disse il nostro Dante, ma non ardiscono di così dire le nostre donne; anzi, per ischifare quella parola sospetta, dicono più tosto le castagne; comeché pure alcune poco accorte nominino assai spesso disavedutamente quello che, se altri nominasse loro in pruova, elle arrossirebbono, facendo menzione per via di bestemmia di quello onde sono femine.  
Assai meno preoccupato del decoro è Pietro Aretino nel Ragionamento della Nanna e della Antonia: qui la prima racconta alla seconda un’impressionante orgia conventuale a cui ha assistito e, per giustificare la mancata descrizione del finale, usa un’espressione metaforica che lascia ben poco all’immaginazione (Giornata I):
 
Io manco a te perché fu mancato a me. E mi spiacque al possibile di non poter veder fare il seme alle fave e alle castagne.  
Così come del resto ritroviamo anche in un canto carnascialesco molto diffuso, noto come Canzona delle castagne, in cui ai baldi “raccoglitori” di castagne occorre avere gli attrezzi propri della gioventù (vv. 1-9):
 
Donne, noi siàn battitor di castagne
che cerchiam guadagnare,
non sendo più da far nelle montagne.
Gagliarda gioventù vuol l’arte nostra,
chi la vuol far perfetta;
e la pertica prima vi si mostra
che l’opera si metta,
perché la lunga, grossa e soda vette
ritrova me’ per tutto le castagne.  
Passando dalla castagna ai marroni, nel significato figurato di errori questi ritornano di frequente, dal prolifico Goldoni (Il contrattempo, Atto 2, sc. 15) a Manzoni che prima nel Fermo e Lucia («No, Fermo, per amor del cielo, non mi fate un marrone: non mettete in imbroglio me e voi» Tomo 4, cap. 5), poi nei Promessi Sposi del 1827 li impiega ben tre volte («Dite pure che son io che ho fatto un marrone, per la troppa pressa, per troppo cuore: gettate tutta la colpa addosso a me» dice per esempio sempre don Abbondio a Renzo nel capitolo 2), per eraderli infine nella redazione definitiva – evidentemente ritenendo l’espressione troppo connotata – mentre restano ben attestati nel Verga novelliere di Per le vie (per esempio in Gelosia della povera Carlotta, rimasta incautamente incinta, si dice che: «S’era lasciata prendere dalle belle parole di un signorino, e dopo era scappata via di casa, per nascondere il marrone accorgendosi che la mamma le ficcava gli occhi addosso senza dir nulla, e si sentiva salire le fiamme al viso»).
Per concludere occorre citare il poco lusinghiero proverbio, già presente in una celebre canzone a ballo di Angelo Poliziano, in cui il poeta celebra beffardamente la fine di un amore tormentoso:
 
Io ho rotto el fuscellino,
pure un tratto, e sciolto el gruppo,
i’ son fuor d’un gran viluppo
e sto or com’un susino.
Una certa saltanseccia,
fatta come la castagna,
c’ha ben bella la corteccia,
ma l’ha drento la magagna,
fe’ insaccarmi nella ragna
con suo ghigni e frascherie;
poi di me fe’ notomie,
quando m’ebbe a suo dimino.  
La donna volubile («saltanseccia») che ha snervato il povero Poliziano, come una castagna marcia sembra bella e appetibile solo all’apparenza, riproponendo così un topos diffusissimo di lunga tradizione misogina, ripreso poi, tra i molti, da due autori dialettali come Giambattista Basile (Cunto de li cunti, Giorn. 1, egroca, vv. 659-660: «da chillo mutto antico: La femmena è secunno la castagna: / da fore è bella e drinto ha la magagna») e Giuseppe Gioachino Belli (Sonetti, 84, 9-11: «La donna, fijjo, è ccome la castaggna, / Disceveno Bertollo e Bertollino: / Bbella de fora, e ddrento ha la magagna»), che lo declina anche in chiave antipapale (Sonetti 1348, 5-8):
 
 Ste facciacce che pporteno er trireggno
S´assomijjeno tutte a le castaggne:
Bbelle de fora, eppoi, pe ddio de leggno,
Muffe de drento e ppiene de magaggne.  
Testi:

  • P. Aretino, Dialogo, in La letteratura italiana. Storia e testi, vol. 26, tomo II, a cura di C. Cordiè, Ricciardi, Milano-Napoli, 1976.
  • M. Bandello, La prima parte de le Novelle, a cura di D. Maestri, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1992; Id., La seconda parte de le Novelle, ivi, 1993; Id., La terza parte de le Novelle, ivi,1995; Id., La quarta parte de le Novelle, ivi,1996.
  • G. B. Basile, Lo cunto de li cunti, a cura di M. Rak, Garzanti, Milano, 2007.
  • G. G. Belli, Sonetti, a cura di G. Vigolo, 3 voll., Mondadori, Milano, 1952.
  • S. Benni, Bar sport, Feltrinelli, Milano, 1976.
  • Id., Bar sport duemila, Feltrinelli, Milano, 1997.
  • F. Berni, Rime, a cura di G. Barberi Squarotti, Einaudi, Torino, 1969.
  • G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Einaudi, Torino, 2007.
  • Id., Esposizioni sopra la Comedia di Dante, a cura di G. Padoan, in Id., Tutte le opere, vol. VI, Mondadori, Milano, 1965.
  • Id., Ninfale fiesolano, a cura di A. Balduino, in Id., Tutte le opere, vol. III, Mondadori, Milano, 1974.
  • L. Capuana, Il marchese di Roccaverdina, Rizzoli, Milano, 2010.
  • G. Carducci, Tutte le poesie, Bietti, Milano, 1973.
  • Cenne della Chitarra, in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, vol. II, tomo I, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960.
  • G. C. Croce, Le sottilissime astuzie di Bertoldo le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino, con il «dialogus Salomonis et Marcolphi» e il suo primo volgarizzamento a stampa, a cura di P. Camporesi, Einaudi, Torino, 1978.
  • G. Deledda, Cenere, a cura di V.Spinazzola, Mondadori, Milano, 2007.
  • G. Della Casa, Galateo, a cura di A. Di Benedetto, Fògola, Torino, 2004.
  • E. De Marchi, Arabella, Mursia, Milano, 1986.
  • F. De Roberto, I Vicerè, Einaudi, Torino, 1990.
  • C. Dossi, La desinenza in A, a cura di G. Lucchini, Garzanti, Milano, 2009.
  • A. Fogazzaro, Piccolo mondo antico, a cura di L. Baldacci, Garzanti, Milano, 1973.
  • N. Franco, La Priapea, Carabba, Lanciano, 1916.
  • C. E. Gadda, Romanzi e racconti, vol. I, a cura di R. Rodondi, G. Lucchini, E. Manzotti, Garzanti, Milano, 2007.
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  • B. Giambullari, Rime inedite o rare, a cura di I. Marchetti, Sansoni antiquariato, Firenze, 1955.
  • C. Goldoni, Tutte le opere, a cura di G. Ortolani, 14 voll., Mondadori, Milano, 1935-1956.
  • J. La Fontaine, Favole, traduzione in versi di E. De Marchi, Rizzoli, Milano, 2001.
  • A. Manzoni, Fermo e Lucia, a cura di S. S. Nigro, Mondadori, Milano, 2002.
  • Id., I promessi sposi 1827, a cura di S. S. Nigro, Mondadori, Milano, 2002
  • Id., I promessi sposi, a cura di S. S. Nigro, Mondadori, Milano, 2002.
  • L. de’ Medici, La Nencia da Barberino, a cura di R. Bessi, Salerno, Roma, 1982.
  • Nuovi canti carnascialeschi del Rinascimento, a cura di Ch. S. Singleton, Società Tipografica Modenese, Modena, 1940.
  • C. Plinius Secundus,  Naturalis historia, ed. D. Detlefsen, rist. anast., 3 voll., G. Olms, Hildesheim – Zurich - New York, 1992.
  • A. Poliziano, Rime, a cura di D. Delcorno Branca, Venezia, Marsilio, 2009.
  • A. Pucci, Rime, in Rimatori del Trecento, a cura di G. Corsi, Utet, Torino, 1969.
  • L. Pulci, Morgante e opere minori, a cura di A. Greco, Utet, Torino, 1997.
  • S. Rosa, Le satire, a cura di D. Romei, Mursia, Milano, 1995.
  • I sonetti del Burchiello, a cura di M. Zaccarello, Einaudi, Torino, 2004.
  • F. Sacchetti, Il trecentonovelle, a cura di D. Puccini, Utet, Torino, 2004.
  • I. Sannazaro, Arcadia, a cura di F. Erspamer, Mursia, Milano, 2003.
  • A. Tassoni, La secchia rapita, edizione critica a cura di O. Besomi, Antenore, Padova, 1987-1990.
  • G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano, 2010.
  • G. Verga, I Malavoglia, Rizzoli, Milano, 2011.
  • Id., Mastro don Gesualdo, Rizzoli, Milano, 2010.
  • Id., Novelle, a cura di F. Spera, Feltrinelli, Milano, 2006.
  • Virgilio, Bucoliche, a cura di M. Cavalli, Mondadori, Milano, 1990.
  • R. Zena, La bocca del lupo, a cura di C. Riccardi, Mondadori, Milano, 1980.

 
 
Strumenti critici:

  • G. P. Biasin, I sapori della modernità. Cibo e romanzo, Il Mulino, Bologna, 1991.
  • G. Bottiroli, Il cibo e la collera in «Mastro don Gesualdo», in Codici del gusto, a cura di M. G. Profeti, Franco Angeli, Milano, 1992, pp. 380-387.
  • La sapida eloquenza. Retorica del cibo e cibo retorico, a cura di C. Spila, Bulzoni, Roma, 2003.
  • P. Camporesi, Calcagnantes, trufatores et malagentes. La famiglia di Margutte, in Id., Il paese della fame, Il Mulino, Bologna, 1978, pp. 49-69.
  • E. Carcano, Il banchetto del Gattopardo. A tavola con l’aristocrazia siciliana, Il leone verde, Torino, 2005.
  • D. Carossi, I promessi sapori. Il sugo della storia di Alessandro Manzoni, Il leone verde, Torino, 2007.
    L. Giorgioni, F. Pontiggia, M. Ronconi, La grande abbuffata. Percorsi cinematografici fra trame e ricette, Effata, Cantalupa, 2002.