Boccaccio parlando del rapporto di Dante col cibo scrive:
«Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all’ore ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità (…) né alcuna curiosità ebbe mai più in uno che in uno altro: li dilicati lodava e il più si pasceva di grossi, oltre modo biasimando coloro, li quali gran parte del loro studio pongono e in avere le cose elette e quelle fare con somma diligenza apparare, affermando questi cotali non mangiare per vivere, ma più tosto vivere per mangiare»[1].
Fedele anche nella vita privata[2] all’Etica Nicomachea di Aristotele, secondo cui si deve mangiare per vivere e non viceversa, Dante non approva gli artifizi dei banchetti, i fasti, le opulenze, i piatti ricercati, ma ama piuttosto la sobrietà, il mangiare semplice e il rispetto delle regole canoniche.
Nel ‘poema sacro al quale ha posto mano cielo e terra’[3] sono rare le occasioni e i luoghi in cui descrive o nomina direttamente vivande o bevande. In realtà non è l’unico nella sua epoca ad astenersene. Massimo Montanari ricorda che nemmeno i romanzi cavallereschi dei secoli dodicesimo e tredicesimo, fonti importanti per la cultura letteraria di Dante, si dilungano in racconti dettagliati che hanno come oggetto il cibo.[4] Inoltre non bisogna dimenticare che il cibo, come di tutto ciò che riguarda il cosiddetto ‘basso corporeo'[5] non era considerato una materia adatta alla trattazione di un intellettuale.
Nell’Inferno l’accenno alla colpa riferita al cibo è fugacemente espresso («per la dannosa colpa de la gola,/come tu vedi, a la pioggia mi fiacco[6]») e la pena è generica, applicabile a molti altri peccati (l’ambientazione avvilente per cui i golosi sono prostrati nel fango è condivisa da altri dannati dei primi cerchi).
Gli studiosi concordano nel ritenere che i canti dedicati al tema della golosità siano tra i più difficili della Commedia[7]. Essi catturano la nostra attenzione non certo per la rappresentazione delle pene di una categoria di peccatori che ama ingurgitare senza sosta cibi di ogni genere e provenienza quanto piuttosto per la descrizione esatta degli effetti di una tale incontinenza.
I golosi nel VI canto sono coloro che in vita hanno sicuramente ecceduto nel mangiare, ma più che altro hanno desiderato cibi e ambienti piacevoli e lussuosi. Questo aspetto, come abbiamo accennato, non emerge apertamente dal testo, ma è deducibile indirettamente dalla punizione a loro riservata[8]. La legge del contrappasso alla quale obbediscono infatti li tormenta dal freddo, dal puzzo, dal fango, dai terribili latrati e dalle unghie di Cerbero[9].
Come in vita i golosi sono stati ossessionati dal pensiero ricorrente del cibo, così sono battuti continuamente dalla pioggia. Come in vita amarono gustare cibi di mille sapori, inspirando fragranze deliziose e assaporando gusti diversissimi, così ora subiscono l’immutabilità di una pena che mortifica tutti i sensi. Cerbero, che di loro fa strage, rendendoli divorati da divoratori che erano, mima metaforicamente con la sua bestiale avidità l’atteggiamento famelico che troppe volte costoro assunsero in vita. La scelta del demone crudele e della pena generica sottolineano il distacco e la ripugnanza del poeta nei confronti di un peccato che, più che fare ingrassare, degrada chi lo commette a una condizione bestiale.
Nel Purgatorio invece la pena è chiaramente e didascalicamente legata alla colpa. I golosi soffrono il tormento della fame e della sete e il loro patimento è acuito dalla vista di frutti e di acque purissime che essi non possono toccare in una sorta di purificazione divina. Un clima di accentuata fisicità nel quale compare l’unica menzione esplicita di un cibo e di una bevanda: quelli il cui abuso sconta papa Martino IV («e purga per digiuno/ l’anguille di Bolsena e la vernaccia[10]»).
Per quel che riguarda i personaggi nominati l’unico goloso posto nell’Inferno è Ciacco[11]. Una figura enigmatica che vive in una dimensione di crucciato e tormentato amore per la sua città e di nostalgia per la vita serena condotta sulla terra. Il suo pianto si piega ad una digressione politica, allontanandosi dal vizio della gola, o meglio dandone una interpretazione molto lontana dal vizio carnale.
Nellasesta cornice purgatoriale[12] incontriamo gli altri due golosi: Forese Donati e Bonagiunta da Lucca ai quali è riservata una punizione che coinvolge il cibo e il nutrimento in senso privativo. Forese spiega al Poeta Pellegrino che il desiderio dei frutti e dell’acqua che scorre, acceso dalla vista e dai profumi, diviene per loro penitenziale: «De l’etterno consiglio/cade vertù ne l’acqua e ne pianta/rimasa dietro, ond’io sì m’assottiglio./Tutta esta gente che piangendo canta /per seguitar la gola oltra misura, /in fame e in sete qui si rifà santa. /Di bere e di mangiar n’accende cura/l’odor ch’esce del pomo e de lo sprazzo/che si distende per la sua verdura[13]».
Sottoposti ad una originale versione del supplizio di Tantalo essi sono pertanto ridotti a pelle ed ossa per la fame e la sete terrificante ed eterna: «Ne li occhi era ciascuna oscura e cava, /palida ne la faccia, e tanto scema/che da l’ossa la pelle s’informava[14]».
In definitiva i golosi infernali e purgatoriali sembrano non essere mai protagonisti di situazioni di ingordigia canonica. Sono molto lontani dalla consueta immagine del goloso come colui che fa del male a sé stesso mangiando da solo ed egoisticamente smisurate quantità di cibo o si siede ai banchetti eccedendo abitualmente, godendo dello sfarzo e del piacere fine a sé stesso.
Di conseguenza nella Commedia la relazione tra «la dannosa pena de la gola» e il vizio è evidentemente solo allusivo e il cibo più che essere descritto viene evocato.
Tale distanza è motivata da due ragioni. In primo luogo si giustifica storicamente con l’evolversi separato della letteratura e della concezione del cibo e della cucina, separatezza data dalla distinzione tra sensi inferiori (tatto, olfatto, gusto) e sensi superiori (vista e udito). La letteratura, attività legata alle parti più nobili dell’anima, non poteva quindi trattare di cibo e cucina, che riguardavano le parti più basse del corpo. Inoltre altro aspetto importante nella realtà del Medioevo mangiare molto ed essere grassi era un obbligo per chi deteneva il potere.
Nella contemporaneità si avverte, tuttavia una decisa inversione di entrambe le tendenze e che ha come risultato quello di condurre la letteratura verso il cibo e il cibo verso la letteratura.
In Parliamo tanto di me[15] , l’insolito “viaggetto nell’oltretomba” dantesco nel quale Cesare Cadabra lo scrittore-protagonista che il suo fantasmatico interlocutore guida tra le ombre dei vivi e dei morti, si legge:
I golosi erano reclusi in ampie stanze smaltate di rosa pallido. Nel mezzo di ciascuna, pile di croccanti, di budini, di gelati, si affiancavano in un sontuoso disordine. Rivoletti di rosolio e di vino passito scorrevano gorgogliando, come l’acqua fra l’erba dei prati, entro tubi di cristallo che circondavano con la più elegante delle architetture la montagna dei cibi. Sui cibi vagavano fumi bianchi e un venticello alpestre profumato di resina faceva frusciare le foglie di un albero, carico di pesche dai colori delicati, che pendeva dal soffitto.
I condannati assiepati intorno a quelle meraviglie, guardavano con gli occhi sgranati. Intanto i diavoli divoravano a quattro palmenti mugolando di giubilo, e taluno, battendosi il ventre, esclamava: “Questo è il Paradiso”. Udii un defunto che diceva a un diavolo: “Vuole scommettere uno schiaffo che in cinque minuti mangio cento sfogliatini?” Rispose il diavolo:“Marameo”.
Tra la rappresentazione del girone dei golosi di Dante e quello zavattiniano c’è un abisso evidente.
La tavola è ricca di cibarie ed è molto più ‘mangiabile’. Il banchetto allestito è molto lontano dall’ambiente fangoso nel quale scontano la pena i golosi del VI canto ma è molto diverso anche dal banchetto allestito in cui clima solenne nel quale ‘lo pane de li angeli si manuca’[16] che ci descrive per esempio Dante nel Convivio.
Qui i cibi hanno un nome («croccanti», «budini», «gelati», «sfogliatini», «vino passito», «rosolino», «pesche») e appartengono tutti al mondo dei dolciumi, emblema della comune inclinazione dei golosi verso il superfluo zuccherino. Sono presenti in grandi quantità (si parla di pile di dolci, di «montagna di cibi», di fiumi di vino che scorrono gorgogliando, di «cento sfogliatini» )e sono mangiati voracemente (i diavoli «divorano a quattro palmenti»), ma soprattutto velocemente secondo le regole del fast (veloce) food (gli sfogliatini sono «mangiati in cinque minuti»). Sono presentati con una attenzione cromatica nuova (che va dal «rosa pallido» delle pareti, al «bianco dei fumi» e i «colori delicati» delle pesche) ed una cura estetica che stimola tutti i sensi. La vista grazie alla più elegante delle architetture, ai «tubi di cristallo» e ai «fumi bianchi». L’olfatto stimolato dal «venticello alpestre profumato di resina». Il tutto inserito in un clima goliardico assolutamente desacralizzato rispetto a quello dantesco e che vede sostituirsi alla fame animalesca un gioco tra scommesse bizzarre ed esclamazioni blasfeme come quella di un diavolo che battendosi il ventre esclama ‘Questo è il Paradiso’.
Nonostante le evidenti e profonde fratture con la tradizione Cesare Zavattini[17] nella sua rappresentazione dell’Inferno conserva molti degli elementi che abbiamo analizzato in Dante. Insieme all’idea che il contrappasso sia il miglior modo di far espiare un peccato, si ritrova per esempio quella forte umanità[18] intrisa di ascendenze cristiane nel raccontarci i protagonisti invitati al banchetto goloso.
Così come la Commedia dantesca non è solo il resoconto del viaggio compiuto dall’autore, ma un contenitore di storie di diversa umanità le cui esperienze riecheggiano senza sosta tra le varie terzine, Zavattini ci presenta le testimonianze delle precedenti vite condotte dagli spiriti, avvolte in un’aura di assurdità e segnate dal desiderio di essere raccontate e trasmesse.
Una rappresentazione quindi, quella di Zavattini, non priva di debiti nei confronti della tradizione letteraria[19] e in particolare di Dante che offre comunque una percezione della realtà e della condizione umana davvero unica, dando di oltre mezzo secolo di vita italiana e dei suoi costumi una esemplare testimonianza. L’abbondanza di cibo tipica delle società industriali postmoderne pone problemi nuovi e mette in luce una cultura lontana dalla paura e della fame e non più segnata dal desiderio di mangiare molto. Sono tanti nella letteratura contemporanea i «romanzi golosi» che possono diventare anche la chiave per esplorare inquietudini e insoddisfazioni di oggi. Attraverso luoghi e sapori carichi di echi simbolici o più semplicemente fornendoci alcune significative definizioni:
‘Ecco, io direi che buongustaio è colui che fa del gustare un mezzo, e ghiottone chi fa del mezzo un fine: che è poi il peccato originale’[20]. Tutta la differenza sta tra il mezzo e il modo quindi. Questo per esempio il pensiero di Fabio Tombari ci offre nel suo romanzo I ghiottoni, storia di una dinastia di ingordi raffinati che da tre secoli sono ‘devoti’ alla buona cucina e che vivono in un paese tutto frugale chiamato Fruscaglia.
L’idea poi che chi mangia molto ‘pecchi’ e sia destinato all’inferno è ancora presente, ma in maniera profondamente diversa rispetto al passato. Forse anche perché, come si è visto, nel Novecento è parso a molti autori che l’inferno non fosse in un qualche al di là, ma fosse qui tra noi. Così uno dei più acuti indagatori della letteratura sull’alimentazione come Piero Camporesi, davanti alle evoluzioni dei costumi alimentari negli ultimi decenni del secolo scorso, arriva a individuare il vero inferno per la gola e per il ventre nella nostra «dura realtà chimica quotidiana», mentre in fondo i peccatori di gola stanno scomparendo:
Il fast food, il cibo svelto che non fa sognare e non induce in tentazione, il cibo senza piacere (e senza peccato), insieme alle diete salutiste e alla eubionica vegetariana, ha da parte sua notevolmente contribuito a liquidare le riprovevoli intemperanze d’una volta. La paura delle calorie in eccesso è ormai più forte del terrore della fiammeggiante, infame cucina infernale. Pernici e beccacce, capponi e pasticci, storioni e murene, falerni e malvasie, strumenti infernali di seduzione, sono sfortunatamente scomparsi, e non è ragionevole supporre che possano essere i panini alla cipolla o altre diavolerie del genere a portare alla dannazione. L’altro mondo, quello rovesciato delle pene eterne, prosperava quando questo mondo era (per i ricchi) colmo di piacevoli seduzioni, dolce a viversi, gustoso ad assaporarsi: ora l’inferno è qui, alla portata di tutte le borse. È qui nei vini avvelenati, nei pomodori al temik, nelle carni gonfiate da ormoni cancerogeni, nelle primizie degli orti sature di pesticidi, nelle belle mele senza vermi, ancora seducenti ma dai succhi avvelenati (potenza della tradizione!), nelle sogliole al mercurio, nell’acqua all’atrazina, nell’aria pesante di teraetile di piombo. L’inferno del ventre non è più metafora letteraria, ma dura realtà chimica quotidiana[21].
La stessa realtà chimica quotidiana che vede il ricorso a conviti originali e cibi colorati in sostituzione dei pasti tradizionali. L’ossessione per il cibo si trasforma in una golosità perversa e distorta.
Proprio lo scorso Gennaio la triennale milanese Gola, arte e scienza ha esplorato, attraverso le nuove forme dell’arte contemporanea, una nuova interpretazione della golosità.
Tra le opere presentate Chromatic diet [22]>di Sofie Calle. Una sequenza fotografica, ispirata al racconto Leviathan dello scrittore e regista Paul Auster, che restituisce la maniacalità della protagonista Maria, la cui regola è di mangiare ogni giorno cibi dello stesso colore.
Some weeks, she would indulge in what she called "the chromatic diet," restricting herself to foods of a single color on any given day. Monday orange: carrots, cantaloupe, boiled shrimp. Tuesday red: tomatoes, persimmons, steak tartare. Wednesday white: flounder, potatoes, cottage cheese. Thursday green: cucumbers, broccoli, spinach—-and so on, all the way through the last meal on Sunday[23].
Alimenti monocromatici come le stoviglie, le salviette e le tovaglie, disegnano questi pasti artificiosi quanto attraenti per i loro colori, evidenziando l’importanza dell’aspetto estetico e una moderna declinazione del vizio della gola[24].
Altra interessante performance è quella realizzata dall’artista americana Marilyn Minter. Il video Green Pink Caviar, già esposto al MOMA di New York e scelto da Madonna per accompagnare il suo Sticky e Sweet European Tour 2009, mostra una bocca che in modo sensuale lecca e mangia sensualmente gelatine colorate e altri ingredienti usati per la decorazione di torte. La lingua golosamente si trasforma in una sorta di pennello che, sulla superficie di vetro in primo piano, crea immagini astratte, utilizzando come materia prima elementi commestibili e attraenti per forme e colori. La centralità attribuita alla bocca diviene immagine del desiderio, espressione di un gusto che non si ferma all’atto di mangiare ma si estende a tutte le altre diverse forme con cui il piacere può manifestarsi.
Si perché la gola rimane soprattutto un piacere e un desiderio insito nella natura dell’uomo. Ce lo ricorda anche la psicanalisi contemporanea. Nel recentissimo i Ritratti del desiderio[25] lo Massimo Recalcati, noto psicanalista lacaniano, colloca il peccato legato al cibo (usando in realtà sempre il termine desiderio) nel quinto ritratto quello del ‘desiderio di godere’ e traccia, a nostro avviso, una straordinaria immagine di come esso si manifesti.
La figura che lo illustra degnamente è quella di un barbone protagonista di una barzelletta ebraica[26] . Nel racconto un benefattore, lasciatosi convincere da un miserabile a fargli un prestito, resta basito scoprendolo comodamente seduto in un ristorante di lusso di fronte a un generoso piatto di salmone con maionese. Il barbone ripreso risponde ’Proprio non la capisco. Se non ho denari non posso mangiare salmone e maionese. Se ho denari non devo. Ma allora, quand’è che riuscirò a mangiare salmone e maionese?’. La morale è che il desiderio non è mai solo desiderio di pane, perché la voglia di cibo non ha la stessa natura dei desideri primari. Per questa ragione è rappresentato attraverso un’immagine di godimento inutile, dispendioso, nocivo, un piacere vizioso. L’amabile benefattore sembra proprio dire ‘Ma come, invece di nutrirti, mangi per godere?’. Ma il mendicante rivendica non tanto il suo diritto non a sfamarsi ma a godere del dispendio, del superfluo, dell’inutile. Come dice una famosa pubblicità, ormai passata alla storia, rivendica più che la sua fame la voglia di qualcosa di buono.
Nonostante lo spiccato individualismo (ma pure l’isolamento in cui sono costretti gli uomini), oggi come nel passato il cibo e la sua consumazione si configurano pertanto come veicoli di messaggi e codici di comunicazione. La ritualizzazione che ne caratterizza i molteplici aspetti, dalla preparazione al consumo, produce significati ed esprime valori. A meno dunque di non volersi collocare in una posizione deviante nessuno dei partecipanti ad un pasto comune, aa un banchetto può sottrarsi ai modelli simbolicamente espresi che governano le tipoligie deglia imenti, le scelte, le preparazioni e il consumo di cibi. E la verità è che non c’è alcun male nel procurarsi un piacere, nemmeno se lo si fa in solitudine. Tuttavia paradossalmente l'assillo per il cibo, che scandisce questo scorcio di secolo, dimentica l’importanza della condivisione che ci vede consumare in solitudine pasti anonimi in fast food affollati.
In Il pane di ieri Enzo Bianchi priore di Bose, scrive:
Davvero la cucina e la tavola sono l’epifania dei rapporti e della comunione. Del resto, il cibo è come la sessualità: o è parlato oppure è aggressività, consumismo; o è contemplato e ordinato oppure è animalesco; o è esercizio in cui si tiene conto degli altri oppure è cosificato e svilito; o è trasfigurato in modo estatico oppure è condannato alla monotonia e alla banalità.
Il cibo cucinato e condiviso – il pasto – è allora luogo di comunione, di incontro e amicizia: se infatti mangiare significa conservare e incrementare la vita, preparare da mangiare per un altro significa testimoniargli il nostro desiderio che egli viva e condividere la mensa testimonia la volontà di unire la propria vita a quella del commensale[27].
L’edonismo solitario, la ricerca del piacere del cibo senza gli altri è un’altra forma inequivocabile di golosità. Parallelamente, l’estetica dominante impone una bellezza diafana, androgina, snella fino all’anoressia e il computo delle calorie diventa ossessivo. Il goloso, quindi, più che un peccatore indefesso, è disprezzato dalla morale comune per l’incapacità di autoregolamentazione. La sua pena, l’adipe in eccesso, è considerata il male per eccellenza e il suo inferno si dipana tra diete non rispettate e umiliazioni quotidiane.
L'emisfero nord del pianeta ove la gola è ormai sottratta alla sfera morale col conseguente aumento di problemi legati ad una cattiva alimentazione. La società del benessere ci ha così abituato ad avere molto che ogni limite ci appare esagerato e anacronistico. Eppure l’obesità si è così diffusa nel Nord del mondo, che nel 2001 è stato coniato il termine di globesity, ovvero ‘obesità diffusa a livello planetario’[28].
Una delle tante contraddizioni del nostro tempo che si possono trovare anche nell’immaginario cinematografico contemporaneo nel quale continuano comunque ad essere potenzialmente attivi i meccanismi innovativi di rappresentazione del peccato di gola. Così, David Fincher nel film Seven, in cui un serial killer sceglie le sue vittime ispirandosi al settenario dei vizi capitali, l’uccisione del goloso si rifà a logiche infernali tutte ‘alimentari’. Egli è ingozzato forzatamente di cibo (), sino al soffocamento, ma gli è anche asportato un pezzo di carne viva, secondo il più classico schema dell’inferno-macelleria. Altrettanto perversamente infernale può essere considerata la scelta del suicidio attraverso la soddisfazione del vizio della gola, messa in atto dai protagonisti del film di Marco Ferreri, La grande abbuffata (1973): in fondo una variante della punizione dei golosi attraverso l’ingestione forzata di quantità eccessive e intollerabili di cibo.
Il mondo contemporaneo ha elaborato un modello ideale di corpo, soprattutto femminile, che esalta la sottigliezza, la minceur dei francesi, e che condanna il grasso, al punto che si è prodotta una sorta di lipofobia planetaria. Il grasso viene pertanto respinto ed allontanato. La nostra società rifiuta il grasso in tutte le sue manifestazioni rivedendo e trasformando il peccato di gola e dandole una identità più perversa e per certi versi immonda.
I peccati di gola non si portano in confessionale.
Si riferisce ad un procedimento di tipo antitetico diverso da quello di ingestione smodata e volontaria di cibi di ogni tipo e genere tante volte presente nella letteratura contemporanea.
Negli inferni allucinati e visionari degli scrittori novecenteschi per esempio sono spesso citati cibi immondi e infernali.
In Hilarotragoedia Giorgio Manganelli descrive il «triste cibo» dei «sobborghi dell’Ade», con il quale si nutrono gli «adediretti» così:
Dunque: parte del tetro cibo reperiscono tra quegli animali – vipistrelli, serpi, sauri – che si dice frequentino le distese rupestri della banlieue infera. Anche i mutili pipistrelli: che, prima, careggiano, come cose mutile e inferme, poi mozzano del capo con esattezza di denti, e ne suggono il lento sangue; poi ne biascicano la poca carne; o per qualsivoglia orifizio, orecchio, bocca, podice, deglutiscono bisce e ramarri; altri più umidi animaletti bevono per dilatati pori; li schiacciano sui sassi, e vi si stendono sopra, e ne bevono il liquore, come succo di mora, per le membra assetate. Ma in luogo di vita assai rada, qual è quello, è dubbio che ciò potrebbe bastare; sebbene costoro che han carne di fantasima e sangue rosé sian di assai parco cibo.
L’«inferno» descritto nell’opera si rivela a tratti una condizione assolutamente reale. Del resto i protagonisti sono tutti «adediretti». Uno straordinario concentrato di qualità e vizi umani e diabolici. Pur essendo «umani» con il comune destino discenditivo che accomuna qualunque mortale ‘diretto’ verso gli inferi dalla nascita, vivono in tane, «sono solitari», non parlano tra di loro, «ignoranon i rispettivi nomi», non dormono, giocano tutto il giorno, hanno una corporeità che si trasforma e si dissolve e quello che ci interessa di più, si nutrono di alimenti disumani e inquietanti.
Ai pasti paradossali, fatti di carne e sangue di vipistrello[29] , bisce e ramarri si alternano infatti cibi inconsistenti e privi di fisicità assorbiti dall’organismo:
Corrono dunque altre favole. Certe lunghe, tiepide, umidose ventate portano granuli minutissimi e lievi; li alitano come spore a primavera; e quei granuli si appigliano alle aduste carni e le penetrano e nutrono; oppure, quasi polvere di polline talora oscura l’oscurità del cielo, come sabbia; cosa sfatta e pingue, dolce al palato, tenera la dente. E ancora: si aprono sassi, e partoriscono tonda morula di esculenta carne, come uovo; e quella mangiano[30].
Ma i «mutili vipistrelli», cioè i pipistrelli dalle ali mozzate che vagano per i sobborghi dell’Ade e di cui si nutrono gli adediretti, rivelano, verso la conclusione dell’opera una ipotetica natura di «angeli spie», che riconduce a nuove e mistiche interpretazioni sulla loro funzione nutritiva ultraterrena che:
spiegherebbe l’alto potere nutritivo delle immonde bestiole, e insieme il gastronomico amore che per esse nutrono gli angosciastici, che in tal modo conseguirebbero una sorta di comunione negativa, una blasfema partecipazione alla carne divina, secondo l consuetudini del cannibalismo mistico[31].
Note:
[1] G. Boccaccio, Trattatello in laude di Dante a cura di Vittore Branca, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1974, p.47
[2] Ancora il novelliere Giovanni Sercambi narra un episodio difficile da verificare, ma ottimo per comprendere l’approccio di Dante alla tavola. Invitato a pranzo dal Re Roberto D’ Angiò alla sua tavola. Il poeta era vestito in modo poco elegante e poco consono all’etichetta di corte, come soleano li poeti fare per questo venne relegato ad uno fra gli ultimi posti (in coda di taula). Non disse una parola, mangiò e se ne andò. Il re, resosi conto della scortesia riservata a Dante, lo invitò una seconda volta. Dante si presentò vestito in maniera ricca ed elegante e gli fu assegnato il posto di capotavola. Quando arrivarono le prime portate, cominciò a buttarsi il cibo addosso. Fra lo sconcerto del re e della corte, rispose che l’onore che gli aveva rivolto era dovuto solo ai suoi vestiti, era giusto che questi godessero del pasto più di colui che li stava indossando.«Santa corona, io conosco che questo grande onore ch’è ora m’è fatto, avete fatto a’panni miei e pertanto io ho voluto che i panni godano le vivande apparecchiate. E che sia vero, vi dico io non ho ora men di senno che allora quando prima ci fui, che in coda taula fui asettato, e questo fue perch’io era malvestito. Et ora con quel senno svere son tornato benvestito e m’avete fatto stare in capo di taula»
[3] Paradiso XXV, 1-2
[4] Massimo Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari 1994, 74-75.
[5] A. Natale, Percorsi infernali di Piero Camporesi, in http://www.griseldaonline.it/camporesi.it
6] Inferno VI, 53-54
7] Nell’Inferno, al cerchio dei golosi è dedicato un intero canto, nel Purgatorio invece il peccato è citato in due canti (XXIII-XXIV), con proiezioni nel canto precedente, quando i pellegrini s’imbattono nell’albero capovolto (XXII, 130-154), e si proietta nel successivo, quando la pena inflitta ai golosi fornisce l’occasione per una riflessione di portata generale (come possono la fame e la sete produrre i loro terribili effetti su puri spiriti?) che sarà risolto da Stazio (XXV, 1-108).
[8] Sapegno, che probabilmente non annoverava fra i propri vizi il peccato di gola, scrive a riguardo: “Non è facile questa volta stabilire un preciso rapporto fra la pena e la colpa; certo è che alla qualità tutta sensuale di un peccato, che avvilisce l’uomo a una condizione bestiale, corrispondono la materialità ripugnante del castigo e quello stato di prostrazione in cui i golosi giacciono immersi in una sorta di torpore animalesco”. A contraddire questo presunto torpore, Dante stesso svela, nei vv.19/21 : Urlar li fa la pioggia come cani;/de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;/volgonsi spesso i miseri profani. I commentatori antichi del VI canto dell'Inferno si sono adoperati con grande cura per illustrare il contrappasso dei golosi nei minimi particolari. Alcuni di essi hanno visto nelle tre teste e tre gole di Cerbero, il cane che ha il compito di dilaniare i golosi, le tre età dell'uomo: infanzia, giovinezza, vecchiaia; altri, come Guido da Pisa, l'Ottimo e Pietro di Dante vi hanno ravvisato i tre continenti: Asia, Africa, Europa; altri ancora, come Jacopo di Dante, Graziolo de Bambaglioli e Pietro di Dante, i tre modi diabolici di «golosizzare»: quantità, qualità, continuità. I golosi sono ulteriormente condannati ad essere immersi in una palude di fango fetido, sotto una pioggia nera, mista di grandine e di neve. Riferimenti a supplizi simili sono presenti in tutto il Medioevo: dalle scarne e precise parole della Corona di Tertulliano ad alcuni sermoni di S. Agostino e di S Pietro Crisologo, dal Verbum abbreviatum di Pietro Cantore al fantasioso De planctu Naturae, dalla Summa de arte praedicatoria di Alano di Lilla al suo Sermo de Trinitate. S. Agostino stesso, ad esempio, paragona la natura umana alla terra e l'eccessivo bere all'eccessiva pioggia che produce melma e paludi. S. Pietro Crisologo afferma inoltre che lo spirito della gastrimargia, o "diavolo della gola", opera in modo tale da rendere la nostra mente «a-mente», pazza, fuori di sé.
[9] graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra (v.18)
[10] Purgatorio XXIV, 23-24
[11] Boccaccio nel Decameron (IX, 8) lo definisce un «uomo ghiottissimo quanto alcun altro fosse giammai... per altro assai costumato e tutto pieno di belli e piacevoli motti». Il nome poteva forse essere un soprannome spregiativo col senso di «porco», ma potrebbe essere anche un nome proprio. Probabilmente era un parassita che a Firenze veniva invitato ai banchetti per allietare i commensali con le sue facezie, quindi doveva essere ben noto ai lettori contemporanei della Commedia.
[12] Purgatorio, XXIII-XXIV
[13] Purgatorio XXIII 61-69
[14] Purgatorio XXIII 22-24.
15] Un testo lirico, surreale e paradossale, il cui titolo gli fu dato da Valentino Bompiani «Rizzoli non faceva libri (sono stato io poi a fargli stampare il primo libro) e allora sono andato a portare il mio libretto a Bompiani: non so perché proprio a lui, forse perché era giovane e aveva appena cominciato a fare l’editore, dopo aver lavorato con Mondadori. Andai a trovare il conte Valentino Bompiani. Gli diedi il mio libro, tirandolo fuori dalla tasca dove giaceva da qualche settimana. Era tutto disordinato, era un montaggio di pezzi già stampati e di altre cose, sparse in cartelle di vari tipi. Era un manoscritto proprio disordinato “fisicamente”. Bompiani lo guardò e mi disse: “Lo riprenda, ci deve lavorare ancora”. Glielo riportai messo un po’ meglio ma senza una riga in più e Bompiani mi disse: “Io pubblico il libro. Non solo lo pubblico, ma lo pubblico in un certo modo”. Fu lui a trovare il titolo. Sfogliando le pagine del manoscritto, per trovare una frase, un’espressione adatta…tac: Parliamo tanto di me»: C. ZAVATTINI, Io. Un’autobiografia, a cura di P. Nuzzi, cit., p. 53. Valentino Bompiani era stato attirato dalle due paginette conclusive del ventesimo capitolo del libro: “Adesso ho una casetta bianca, una moglie affettuosa, un bambino ubbidiente. Alla sera, finita la cena, seduti sulla morbida ottomana per un’oretta o due, sin che non ci prende il sonno, parliamo tanto di me”: C. ZAVATTINI, Opere 1931-1986, cit., p. 65.
[16] Si parla nel I capitolo del Convivio, nel corso di una lunga metafora tutta pervasa di spirito di carità (si noti ancora il sintagma ‛ sedere a m. ', già visto nella Vita Nuova): sono pochi e privilegiati quelli che seggiono a quella mensa, ma lo spirito di amore reciproco da cui gli uomini sono animati fa sì che coloro che a così alta mensa sono cibati si volgano non sanza misericordia a chi da quel banchetto è escluso (I I 7 e 8). E io adunque, che non seggio a la beata mensa, ma... a' piedi di coloro che seggiono ricolgo di quello che da loro cade... per li miseri alcuna cosa ho riservata (§ 10). Infine, l'invito a chiunque è ne la umana fame rimaso ad ‛ assettarsi ' ad una mensa con li altri simili impediti (§ 13).
[17] Di solito, quando si pensa all’apporto dato da Cesare Zavattini (1902-1989) alla cultura italiana viene in mente solo l’attività cinematografica appartenente alla stagione del neorealismo . Zavattini sonda un terreno assai nuovo, friabile e spaventoso, impervio e fantasmagorico, dove trovano asilo spettri, anime, illusioni, sogni e altre rappresentazioni surreali e fantastiche marcate da una forte ironia. Un atteggiamento riscontrabile fin dal primo testo, Parliamo tanto di me, pubblicato nel 1931 da Bompiani, sorta di anomalo romanzo dantesco dal titolo fortemente egocentrico. E proprio l’Io zavattiniano è protagonista e narratore del viaggio che costituisce l’ossatura dell’opera: un viaggio compiuto attraverso l’oltretomba assieme ad uno spirito guida e ad un angelo, novecentesche ricostruzioni di Virgilio e Beatrice. Gli spiriti sono parte integrante di questo mondo allucinato, scorporato in aldilà e aldiquà, dove però sono bistrattati e umiliati, relegati ai margini della civiltà sebbene non siano pericolosi né crudeli.
[18] I personaggi di Zavattini, scrive Malerba nell’Introduzione alle sue Opere edito da Bompiani, ‘smascherano le angosce segrete della quotidianità, le inquietudini che si nascondono nella routine dalla quale ci arrivano gli echi lontani di una possibile catastrofe in agguato’
[19] La qualità della produzione letteraria di Zavattini è indiscussa, ma la ‘difficoltà di inquadrare questo corpo estraneo nel contesto italiano è ‘un’anomalia che doveva essere una garanzia di originale qualità ha finito per trasformarsi in un boomerang contro di lui, e il suo successo è stato poco alla volta retrocesso in zona mediana, in una specie di purgatorio dove vengono chiamati gli autori che devono scontare qualche grave colpa (C. Zavattini, Opere, Bompiani, Introduzione di Luigi Malerba pag. XI
[20]
[21] P. Camporesi, La casa dell’eternità, pp. 9-10
[22] Sophie Calle, Le régime chromatique, 1997. Si tratta di sette fotografie, testi, menu, mensola 30x30 cm (6 foto) + 49 x 73,5 cm (1 foto).
[23] P. Auster, Leviathan, Penguin Books, 1992.
[24] Per approfondire il legame tra cibo e arte si veda Liminalities: A Journal of Performance Studies Vol. 7, No. 2 ISSN: 1557-2935 The Excess Of Elements In The Chromatic Diet di Melanie Kitchens O’Meara
[25] Una ‘bizzarra galleria ’ di immagini di viziosi. Nella cui premessa si legge che il desiderio, al pari del vizio, ‘non è a mia disposizione, a disposizione del mio Io, ma è piuttosto l’esperienza di uno sconvolgimento, di un inciampo, di uno sbandamento, di una perdita di padronanza, di una caduta dell’Io’. Quando l’inciampo persevera diventa abitudine umana negativa, che spinge l'individuo ad un comportamento nocivo normalmente ripetitivo. Per cui si può parlare di vizio.
[26] Ripresa da Freud in Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in Opere, cit. vol.5, pp.43-44.
[27] E. Bianchi, Il pane di ieri, Einaudi, 2008
[28] Il 20% della popolazione mondiale consuma l’80% delle risorse del pianeta, costringendo il restante 80% della popolazione alla fame e al sottosviluppo.
[29] Nella letteratura fantastica del Novecento si moltiplicano esponenzialmente, rispetto alla tradizione “classica” (ottocentesca) del genere, gli animali indefinibili, le creature come l’odradek di Kafka o l’adbekunkus di Cortázar : organismi viventi e inquietanti che è impossibile catturare se non attraverso la suggestione fonica di una parola letteralmente “impossibile”. Il presente saggio recensisce alcune fra le specie più interessanti che vanti la letteratura italiana : il vipistrello (che non va confuso con il volgare pipistrello), identificato da quel vero e proprio Linneo degli animali inesistenti che risponde al nome di Tommaso Landolfi. Organismi paradossali, che non respirano eppure esistono, viene indagato con una particolare attenzione alle questioni onomastico-etimologiche.
[30] G. Manganelli, Hilarotragoedia, p.98-99
[31] G. Manganelli, Hilarotragoedia, p.139