Barbara Troise Rioda - La funzione metaforica del cibo nella poetica di Giovanni Pascoli

La rappresentazione del cibo e dei suoi riti all’interno delle opere pascoliane assolve, in situazioni e tempi diversi, precise funzioni. Non si tratta com’è ovvio di una mera presenza di carattere accessorio e casuale. In genere, la scelta di un cibo piuttosto che un altro, i soggetti interessati, le modalità di assunzione e il contesto nel quale avviene il pasto sono legati a un’intenzione e una precisa volontà di significazione. Questa può essere compresa non semplicemente all’interno del valore simbolico di una descrizione, quanto negli elementi costativi di un atto, il cucinare e il mangiare, che nella sua componente ‘culturale’ ha il nucleo fondante.
Del resto i riferimenti al cibo, agli alimenti, alla cucina e alle pratiche alimentari presenti nel testo letterario raramente sono da intendersi alla lettera nel loro significato primo e reale. Essi rimandano spesso ad un significato altro, ideale e figurato rivelando e rimandando ad una funzione  diversa da quella realistica e documentaria. Si tratta di una carica ermeneutica per la quale il cibo nella sua materialità costituisce solo il significante di un significato che non appartiene al campo semantico dell’alimentazione[1].
Tra i vari usi figurativi del cibo ve n’è uno che si distingue per la singolarità simbolica dei suoi significati specifici e intrinseci e per la qualità eccezionale che trasforma un atto di sopravvivenza (come il mangiare) e le sue forme percettivo-edonistiche nel loro esatto contrario: il banchetto della vita[2].
Il motivo che paragona la vita ad un banchetto, assai frequente nella trattatistica parenetica e morale in chiave censoria, è particolarmente produttivo anche nella letteratura del Novecento. Il banchetto presenta di per sé un legame reale con la natura fragile e incompleta dell’uomo che necessita di compensarsi e completarsi con e attraverso il cibo. Inoltre la modalità di appropriazione degli alimenti implica una distruzione che si collega volentieri all’immagine della morte e si fa veicolo di interrogativi universali dell’esistenza. Dal punto di vista simbolico, inoltre, il banchetto è anche una comune metafora per indicare l'allettamento dei sensi e il loro effetto seduttivo sull’animo umano[3].
Considerato che la rappresentazione della vita intesa come un banchetto risulta suscettibile di letture filosofiche tutt’altro che scontate, sulla straordinaria potenza di condensazione semantica delle metafore alimentari e sulla ricchezza e varietà delle sfumature che questa figura retorica consente, non solo a livello descrittivo ma anche concettuale e perfino ontologico non vogliamo soffermarci. Nell’analisi proposta si vuole fornire qualche precisazione specificatamente legata alla dimensione propriamente alimentare del rapporto che Giovanni Pascoli ebbe con il cibo partendo dalla particolare visione del momento conviviale dal quale (come spesso accade nelle liriche pascoliane) nasce un’inquietudine che diventa paradigma della relazione che il poeta instaura con il senso del vivere.
Un primo esempio è messo in evidenza dai versi del lucreziano Convivio[4]:

O convitato della vita, è l'ora,
Brillino rossi i calici di vino;
tu né bramoso più, né sazio ancora,
lascia il festino.

Splendano d'aurea luce i lampadari,
fragri la rosa e il timo dell'Imetto,
sorrida in cerchio tuttavia di cari
capi il panchetto:

tu sorgi e... Triste, su la mensa ingombra,
delle morenti lampade lo svolo
lugubre, lungo! Triste errar nell'ombra,
ultimo, solo!  

Il breve carme sembra riprendere nei primi versi il tema caro ad Orazio del Carpe diem che nel poeta latino talvolta si accompagna al banchetto come luogo riparato dove può fiorire la felicità. La quartina finale però si allontana dal clima di gioia e di vita evocata da «calici di vino rosso» e dai «lampadari illuminati», dal «profumo della rosa e del timo dell’ Imetto», «le lampade morenti», lo «svolo lugubre», rimandano al tema della solitudine della morte evocata e contemplata nel Pascoli delle Myricae e che ben si collega ad un altro carme che ci pare ancora più affine al tema conviviale il Convito Semplice, traduzione del Carma 38 oraziano[5]:

Io non voglio aromi di Persia; sdegno
le ghirlande unite con fil di tiglio:
non andarmi in caccia di rose, ancora
vive sul bronco.
Basta il mirto! nulla v'aggiungi! Troppo
vuoi, ragazzo, tu. Non il mirto è cosa
che disdica a te che mi porgi, a me che
vuoto, la coppa.

Come nella tradizione antica, la categoria del banchetto si conferma nella sua eloquente comunicativa. Pascoli, dotato di una straordinaria cultura letteraria che si muove nel solco di una finissima e rara conoscenza della tradizione poetica più remota greca e latina, evidentemente fa propria la metafora topica della vita intesa come banchetto dal quale si può essere scacciati all'improvviso. Il convitato saggio non si abbuffa, non attende le portate più raffinate, ma sa accontentarsi di quello che ha avuto ed è pronto ad andarsene appena sarà il momento, senza alcun rimorso. Il piacere catastematico di stampo epicureo infatti è durevole perché si realizza nella capacità di sapersi accontentare della propria esistenza, godendosi ogni momento come se fosse l'ultimo.
I versi pascoliani tuttavia sembrano pronunciati da chi, dai piaceri della vita, aveva da tempo preso le distanze e rimandano certamente al tema centrale di praticamente tutta la poetica pascoliana: quello della morte.
Questo tema è il grande protagonista di Myricae. Ne dà annuncio il "giorno dei morti", collocato in posizione introduttiva, in cui il poeta immagina che tutti i morti della famiglia, a partire dal padre, abbiano formato nel cimitero una nuova unità famigliare, più autentica e profonda di quella serbata dai pochi superstiti.
Il tema della morte si affaccia con il peso del perturbante, espressione di minaccia per lo stesso soggetto individuale, anche a tavola. È come se i morti mettessero di continuo in pericolo il diritto alla vita del soggetto anche nei momenti di maggiore spensieratezza, così che dietro le forme della vita come quella conviviale, si nasconde un mistero preoccupante e angoscioso.
Va in questa direzione il recupero pascoliano di una credenza viva in Romagna che vuole che i morti, gli spiriti, i folletti o gli angeli e i demoni che in occasioni festive e circoscritte, controllate, avevano campo libero nella casa famigliare, debbano invece solitamente restare a distanza. Per non richiamarli non doveva pertanto restare nessun resto di cibo sulla tavola, né tantomeno la tovaglia. A questa credenza è dedicata la poesia di Pascoli La tovaglia (dai Canti di Castelvecchio) molto interessante, se non fra le più belle, proprio per il riferimento alle tradizioni antiche e ai valori autentici del mondo popolare.
Nella lirica il poeta, seguendo il proprio sentimento, mette in scena un personaggio, forse la sorella, che rovescia il rito «Pensa a tutto, ma non pensa a sparecchiare la mensa», lasciando la sera «la tovaglia bianca» e «qualche bricia di pane» sulla tavola con l’intento di far venire i suoi morti amati, all’invocazione struggente: «Lascia che vengano i morti, / i buoni, i poveri morti».

Le dicevano: - Bambina!
che tu non lasci mai stesa,
dalla sera alla mattina,
ma porta dove l'hai presa,
la tovaglia bianca, appena
ch'è terminata la cena!
Bada, che vengono i morti!
i tristi, i pallidi morti!

Entrano, ansimano muti.
Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte intorno a quel bianco.
Stanno lì sino al domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,
sotto la lampada spenta. -

E` già grande la bambina:
la casa regge, e lavora:
fa il bucato e la cucina,
fa tutto al modo d'allora.
Pensa a tutto, ma non pensa
a sparecchiare la mensa.
Lascia che vengano i morti,
i buoni, i poveri morti.

Oh! la notte nera nera,
di vento, d'acqua, di neve,
lascia ch'entrino da sera,
col loro anelito lieve;
che alla mensa torno torno
riposino fino a giorno,
cercando fatti lontani
col capo tra le due mani.

Dalla sera alla mattina,
cercando cose lontane,
stanno fissi, a fronte china,
su qualche bricia di pane,
e volendo ricordare,
bevono lagrime amare.
Oh! non ricordano i morti,
i cari, i cari suoi morti!

- Pane, sì... pane si chiama,
che noi spezzammo concordi:
ricordate?... E` tela, a dama:
ce n'era tanta: ricordi?...
Queste?... Queste sono due,
come le vostre e le tue,
due nostre lagrime amare
cadute nel ricordare! -

La convivialità, in particolare la tavola della cucina, significa spazio, tessuto, mosaico di parole scambiate e di immagini create, racconti che seducono e che riportano in vita. Nel componimento il ribaltamento morte-vita consegna al lettore un senso di lacerazione e un sentimento di impotenza difronte all’impossibilità del dialogo e alla reciprocità negata. Le «lacrime amare» rimangono come unico sfogo alla sofferenza aperta dal ricordo.
È interessante notare come il convivio rappresenta un tema ricorrente della poetica. È l’evento a cui vengono invitati gli ospiti vivi che siedono al bacchetto della vita e i morti. È occasione di riflessione sul grande dilemma esistenziale che vede la sazietà e l’ingordigia le due polarità di un equilibrio pressoché irraggiungibile oppure, come nel caso de La tovaglia[6], è un momento e un luogo nel quale esprimere il turbamento del lutto e risarcire in questo modo la morte ingiusta, ridandole un ordine e un significato che non è mai fino in fondo consolatore.
Nella convivialità e in particolare nel calice di vino del Convivio, che non sazia se non è bevuto con coscienza, nel pane che «noi spezziamo concordi» risuona l’eco di una celebrazione liturgica. Del resto l’immagine di una riunione intorno ad un banchetto evoca una serie di simboli e di situazioni vitali che traducono esperienze e valori umani e religiosi. Ugualmente la categoria biblica del banchetto si distingue per la sua rilevanza tematica e le connessioni narrative a cui viene associata, tra le quali rileviamo la vita, la famiglia, la solidarietà, l’esperienza della consolazione e della memoria, l’ospitalità.
Pascoli scrisse anche i cosiddetti Poemi convivali (1904). Nonostante l’aggettivo conviviali derivi dal sostantivo convito, solo nel titolo i poemi rimandano al filone simposiaco classico e risultano slegati non solo al tema conviviale ma anche a quello alimentare in genere. In questi componimenti infatti il tema della realtà alimentare e delle immagini di senso assume una funzione che potremmo definire marginale.
Seguendo lo sviluppo della poetica pascoliana invece è possibile riconoscere alcuni richiami al mondo ‘alimentare’ molto più espliciti. In questi casi il cibo funge da sorgente dell'ispirazione; è l’oggetto-cibo ad essere il protagonista, all'interno dei singoli testi e trasversalmente nelle raccolte, seguendo l'evolversi delle esperienze dell'io alla ricerca della Poesia.
L’universo alimentare diventa così un serbatoio inesauribile di immagini che alludono, in maniera più o meno esplicita, alla dimensione figurativa e realizza uno dei più classici intrecci di piani e di livelli comunicativi possibili quello tra cibo e parola.
Nel caso de La canzone del girarrosto per esempio il nucleo della poesia ruota intorno ad un elemento ben preciso e concreto della cucina contadina «la docile macchina che gira serena» che cuoce la carne arrosto e che rende decisamente più facile lo sviluppo del testo.

Domenica! il dì che a mattina
sorride e sospira al tramonto! . . .
Che ha quella teglia in cucina?
che brontola brontola brontola. . .
È fuori un frastuono di giuoco,
per casa è un sentore di spigo. . .
Che ha quella pentola al fuoco ?
che sfrigola sfrigola sfrigola. . .
E già la massaia ritorna
da messa;
così come trovarsi adorna,
s’appressa:
la brage qua copre, là desta,
passando, frr, come in un volo,
spargendo un odore di festa,
di nuovo, di tela e giaggiolo.
La macchina è in punto; l’agnello
nel lungo schidione è già pronto;
la teglia è sul chiuso fornello,
che brontola brontola brontola. . .
Ed ecco la macchina parte da sé,
col suo trepido intrigo:
la pentola nera è da parte,
che sfrigola sfrigola sfrigola. . .
Ed ecco che scende, che sale,
che frulla,
che va con un dondolo eguale
di culla.
La legna scoppietta; ed un fioco
fragore all’orecchio risuona
di qualche invitato, che un poco
s’è fermo su l’uscio, e ragiona.
È l’ora, in cucina, che troppi
due sono, ed un solo non basta:
si cuoce, tra murmuri e scoppi,
la bionda matassa di pasta.
Qua, nella cucina, lo svolo
di piccole grida d’impero;
là, in sala, il ronzare, ormai solo,
d’un ospite molto ciarliero.
Avanti i suoi ciocchi, senz’ira
ne pena,
la docile macchina gira
serena,
qual docile servo, una volta
ch’ha inteso, ne altro bisogna:
lavora nel mentre che ascolta,
lavora nel mentre che sogna.
Va sempre, s’affretta, ch’è l’ora,
con una vertigine molle:
con qualche suo fremito incuora
la pentola grande che bolle.
È l’ora: s’affretta, ne tace,
che sgrida, rimprovera, accusa,
col suo ticchettìo pertinace,
la teglia che brontola chiusa.
Campana lontana si sente
sonare.
Un’altra con onde più lente,
più chiare,
risponde. Ed il piccolo schiavo
già stanco, girando bel bello,
già mormora, in tavola! in tavola!,
e dondola il suo campanello.

La lirica è ambientata interamente in cucina nel giorno della domenica, giorno in cui le famiglie sono solite essere a casa a consumare il pranzo insieme. Pascoli ci presenta una massaia che torna a casa dalla messa, con il vestito della festa, che sparge intorno odore di nuovo e di giaggiolo. Senza toglierselo di dosso, passa subito in cucina per un rapido controllo del fuoco nei fornelli, delle pentole e dei tegami. La donna trova un valido aiuto nel girarrosto. Dopo che vi è stato sistemato un agnello, la macchina, una volta messa in funzione, ha un movimento regolare lento e uguale, simile al dondolio d'una culla che lavora con docilità e costanza. A mezzogiorno si sente che l'ospite, molto loquace, è entrato nella sala da pranzo. In cucina la padrona impartisce ordini brevi e precisi. La «bionda matassa di pasta» bolle nella pentola. La carne è cotta; il girarrosto alfine si ferma, facendo squillare la suoneria, come a dire: «In tavola! In tavola!».
La prima associazione che comunemente si è portati a fare è quella della ‘poetica del fanciullino’ amante delle ‘piccole cose’, influenzata dalla costante ricerca del nido famigliare, quel nido che la disgrazia aveva sgretolato durante gli anni ma che rimane vivo anche attraverso il cibo. L’attaccamento al cibo è infatti, forse, uno dei rimandi più ‘materni’ che possa esistere in natura. E per un autore che ha dedicato parte della sua vita, nonché poetica, al recupero e al consolidamento di quei pochi affetti rimasti è ancora più evidente. ‘Il nido’ del resto ‘significa essenzialmente, sicurezza alimentare, che poi è tutt’uno con la garanzia degli affetti (calore, affetto, amore)[7]’ mentre l’esternalità è insieme al freddo e al buio, soprattutto la fame.
Il cibo e nel caso particolare gli oggetti della cucina non sono più solo elementi specifici, ma possono suggerire numerosi spinti di riflessione su temi più alti e complessi come il senso della morte, della famiglia, della comunione fraterna. Accade così che gli alimenti, così come gli utensili, non sono importanti solo perché se ne ha bisogno per sopravvivere, ma perché vi si identificano dei rituali e dei momenti sociali di qualche tipo.
L’amore per la cucina, che fa da filigrana alla poesia pascoliana, coincide con l’amore per la campagna, per i sapori semplici dell’orto e dei cibi genuini che rievocano le sue origini. Il cibo rimane sempre una presenza discreta, ma costante, sia nella quotidianità del poeta che nella sua produzione letteraria. Uno stretto legame tra il gusto della cucina e la ricerca linguistica di Pascoli è evidente nella naturalezza dell’utilizzo di vocaboli contadini e degli attrezzi domestici di uso comune. ‘Risulta evidente quindi – come afferma Laura Di Simo, una delle poche studiose della passione di Pascoli per il cibo e la buona tavola- che sia i piatti tipici che gli utensili da cucina, testimonianze della civiltà contadina di fine Ottocento rientrino a pieno titolo in quella poetica delle piccole cose che percorre l’intera produzione pascoliana’[8].
A conferma di questa tesi in molte delle sue liriche Pascoli cita e si sofferma su pietanze, prodotti dell’orto fino a fornire vere e proprie ricette dei piatti della tradizione locale, tratte forse dal celebre manuale di cucina di Pellegrino Artusi suo contemporaneo, ma certamente non affine negli intenti letterari[9].

Andando a cogliere tra le ricette ‘letterarie’ pascoliane ne troviamo una piuttosto celebre: la piadina romagnola. Nonostante il primo documento storico conosciuto che parla della "piada", risale al 1371[10], fu Pascoli a dare dignità culturale alla piadina raccontandola nella sua La piada. In verità in diverse sue opere il poeta ci parla del “pane di Enea”, del “pane rude di Roma”, legando l’origine della “piada” alla latina “mensa”, recuperandone una citazione presente nel settimo canto dell’Eneide. In una nota di presentazione del poemetto La Piada, pubblicata su “Vita Internazionale” nel 1900, Pascoli scriveva: “Piada, pieda, pida, pié, si chiama dai romagnoli la spianata di grano o di granoturco o mista, che è il cibo della povera gente; e si intride senza lievito; e si cuoce in una teglia di argilla, che si chiama testo, sopra il focolare, che si chiama arola…”. Vediamo ora alcuni versi significativi della lirica sopraccitata:

[...]  Ma tu, Maria, con le tue mani blande domi la pasta e poi l'allarghi e spiani;
ed ecco è liscia come un foglio, e grande come la luna;
e sulle aperte mani tu me l'arrechi,
e me l'adagi molle sul testo caldo, e quindi t'allontani.
Io, la giro, e le attizzo con le molle il fuoco sotto,
fin che stride invasa dal calor mite, e si rigonfia in bolle:
e l'odore del pane empie la casa[11].  [...]

La musa ispiratrice di questi versi è quindi un piatto della tradizione, di una lunga tradizione così nobile da meritare un intero poemetto. Così sublime e carica di dignità legata a valori primitivi da meritare la definizione di «pane della povertà», «pane dell’umiltà», «pane della libertà», «pane del lavoro». Tale in ogni caso l’importanza dell’oggetto con i suoi significati simbolici e culturali che Pascoli lo pone al centro di ben due ampi testi, dato che prima ancora della più celebre lirica eponima la piada è protagonista del Desinare nella prima edizione dei Poemetti (1897). Nella sua insistita inclinazione paratattica il discorso si risolve in una sequenza di azioni accumulate (nota Nadia Ebani) per frasette rapide, come per eseguire, punto per punto, le indicazioni di un ricettario:

Ubbidì Rosa al subito comando.
Sotto il paiolo aggiunse legna, il sale
gettò nell’acqua che fremé ronzando.
Stacciò: lo staccio, come avesse l’ale,
frullò fra le sue mani; e la farina
gialla com’oro nevicava uguale.
Ne sparse un po’ nell’acqua, ove una fina
tela si stese. Il bollor ruppe fioco.
Ella ne sparse un’altra brancatina.
E poi spentala tutta a poco a poco,
mestò. Senza bisogno di garzone,
inginocchiata nel chiaror del fuoco,
mestò, rumò, poi schiaffeggiò il pastone,
fin che fu cotto; e lo staccò bel bello,
l’ammucchiò nel paiolo, col cannone
di pioppo; e lo sbacchiò sopra il tarvello.
Ora la madre nella teglia un muto
rivolo d’olio infuse, e di vivace
aglio uno spicchio vi tritò minuto.
Pose la teglia su l’ardente brace,
col facile olio; e, solo intenta ad esso,
un poco d’ora l’esplorò sagace.
L’olio cantò con murmure sommesso;
un acre odore vaporò per tutto.
Fumavano le calde erbe da presso,
nel tondo ch’ella inebbriò del flutto
stridulo, aulente; e poi nel canovaccio
nitido e grosso avviluppava il tutto.
E Rosa intanto sospendea lo staccio,
ponea le fette sopra un bianco lino,
stringea le còcche, e v’infilava il braccio.
Tornò Viola, e furono in cammino.
Rosa e Viola furono in cammino.
Ma la pia madre altro pensò; discese;
spillò la botte d’un segreto vino.
E poi, tornata, con le figlie prese
pei greppi; lesta, poi ch’una campana
si sentiva sonare dal paese:
non più che un’ombra pallida e lontana.

Siamo all’interno di una cucina popolare romagnola, dove non possono mancare «teglia», «aglio», «paiolo», «cannone» (matterello), «canovaccio» (telo), e tutti gli altri oggetti quotidiani che una scelta poetica realistica nobilita con il ritmo narrativo della terzina dantesca. La formazione positivistica del Pascoli impone la precisione anche alimentare della procedura, ed ecco la «farina gialla» ad indicare una piada povera di farina di mais (eventualmente arricchita di un po’ di grano), ben diversa dalle piade ricche per i benestanti di puro frumento, rinforzate con strutto, uova o zucchero. Grazie alle migliorate condizioni di vita sarà quest’ultima, la piada di pretto frumento, a dilagare nel secondo dopoguerra nella campagne e nelle città, come golosa alternativa al pane e non come suo umile surrogato.
Ma lo spessore immaginario, metaforico, comunicativo dell'atto alimentare non è certo nella esecuzione della ricetta ma nel clima che il poeta riesce a ricreare. Sembra quasi di vivere un momento magico nella casa di campagna, dopo una tempestosa notte d’inverno, nel silenzio della neve. Tale è l'importanza del momento della preparazione rispetto al problema della sopravvivenza, che in esso si concentrano ogni sorta di attenzioni esistenziali e sociali, che finiscono per assorbire la funzione più propriamente nutritiva del cibo. La cucina, luogo sacro contagiato dal clima di festa è invitato al domestico convivio.
Oltre alla piadina un altro piatto molto amato dal poeta è il risotto. Pare addirittura che quello romagnolesco fosse il suo piatto preferito. Glielo cucinava a dovere la sorella Maria, che affettuosamente chiamava Mariù. A proposito di risotti, in omaggio a una consuetudine radicata nella cultura alimentare italiana, Pascoli ingaggiò con l'amico Augusto Guido Bianchi, scrittore e giornalista del Corriere della Sera, una tenzone letteraria sui risotti. Bianchi, infatti, gli mandò una lettera in cui esaltava l'arte del risotto alla milanese, suggerendogliene la ricetta. Pascoli lesse, e rispose.

Naturalmente, sotto forma di poesia:
Amico, ho letto il tuo risotto in …ai!
E’ buono assai, soltanto un po’ futuro,
con quei tuoi “tu farai, vorrai, saprai”!
Questo, del mio paese, è più sicuro
perché presente. Ella ha tritato un poco
di cipolline in un tegame puro.
V’ha messo il burro del color di croco
e zafferano (è di Milano!): a lungo
quindi ha lasciato il suo cibrèo sul fuoco.
Tu mi dirai:”Burro e cipolle?”. Aggiungo
che v’era ancora qualche fegatino
di pollo, qualche buzzo, qualche fungo.
Che buon odor veniva dal camino!
Io già sentiva un poco di ristoro,
dopo il mio greco, dopo il mio latino!
Poi v’ha spremuto qualche pomodoro;
ha lasciato covare chiotto chiotto
in fin c’ha preso un chiaro color d’oro.
Soltanto allora ella v’ha dentro cotto
Il riso crudo, come dici tu.
Già suona mezzogiorno…ecco il risotto
romagnolesco che mi fa Mariù.

Il momento del cibo di nuovo, seppur sottoposto ad una maniacale preparazione fatta di «cipolline, «burro», «zafferano», «fegatino di pollo», «qualche busso», «fungo», «pomodoro», appare circonfuso in un’aura particolare. Nel risotto romagnolesco non si può fare a meno di osservare come il fascino esercitato dalla visione dei colori del giallo che si trasforma in oro, degli odori che provengono dalla pentola sul camino, susciti nel lettore un senso di vagheggiamento infinito, che si esprime attraverso la contemplazione di una scena famigliare una contemplazione che ha il proprio luogo privilegiato di nuovo in un ambiente domestico come la cucina di casa, il deposito meraviglioso di sentimenti famigliari che Pascoli riafferma con la presenza costante della sorella Mariù. Custode delle ricette del nido pascoliano.
Sembra quasi che il cibo e gli alimenti, pur essendo preparati per essere mangiati, finiscano poi per esaurire la loro carica di significazione nel momento della loro preparazione come se la pietanza ‘vagheggiata’ non sia in realtà importante in sé per sé e che (a rigor di termini) non sia definibile tanto come oggetto ma piuttosto come ‘anima’ di un comune sentire .

 

Note:


[1] S. Ghiazza, Le funzioni del cibo nel testo letterario, Wip Edizioni, 2011, Bari

[2] L’evidenza più tragica del sentimento è nel legame morte e banchetto. L’evidenza realistica del ‘mangiare’ rende plausibile, di tragica classicità, l’esito fatale del ‘’banchetto di Eros, che nel massimo dell’attività (cibarsi dell’altro sesso) non può non riconoscere il massimo della passività (essere mangiati, e dunque essere uccisi).
La lirica risente della poesia classica di timbro epicureo, dove la vita è rappresentata come un banchetto che si deve lasciare con un composto equilibrio, senza desideri inappagati, né troppa sazietà delle cose.

[3] vedi esempio Champman Ovidis banquet of sense, 1595

[4] Giovanni Pascoli, Convivio, Myricae (1891)

[5] Giovanni Pascoli, Traduzioni e riduzioni. Orazio, Carme 38, libro I.

[7] > Elio Gioanola, Giovanni Pascoli. Sentimenti filiali di parricida, Jaca Book, 2000.

[8] Laura Di Simo, Alla tavola di Mariù e Zvanì. I cibi pascoliani, Pacini Fazzi, 2009, Lucca

[9] Come sottolinea bene Piero Camporesi si tratta infatti di: Due voci diverse, quella del Pascoli e quella dell’Artusi, due linguaggi senza punto d’incontro che rispecchiano non solo una fondamentale frattura fra le due Italie, quella borghese e quella proletaria, ma anche due lingue alimentari diverse, due diverse cucine, due culture e due storie contrapposte segnate da una dialettica senza mediazioni e punti d’incontro, quella del vuoto e quella del pieno, quella del cotto e quella del malcotto (P.Camporesi, La terra e la luna, cit. pp.75-6)

[10] Ed è opera di un prelato, del cardinale Angelico nella sua descrizione della Romagna ci inserisce anche il pane dei poveri. Racconta che tra i tributi che la città di Modigliana doveva pagare alla Camera Apostolica figuravano due "piade".

[11] Giovanni Pascoli, La piada, Nuovi poemetti (1909).