Barbara Troise Rioda - La costumatezza come regola galante di 'bella e buona creanza'

Che la si chiami decenza, pudicizia, ritegno, decoro, riserbo, discrezione, castigatezza la sostanza non cambia. La costumatezza rientra a pieno titolo nella moderna concezione di ‘buone maniere’ che si è sviluppata a partire dal periodo rinascimentale, quando le forme esteriori di comportamento (decorum) si precisarono e si differenziarono progressivamente.  È opinione comune che il ‘costumato gentiluomo’[1] sia obbligato a trattenersi dallo scivolare nella sfera dell’istinto puro e semplice perché ‘l’eleganza del comportamento è conseguenza di un sereno dominio delle inclinazioni naturali.’ Senza l’eleganza dissimulata che contiene e controlla l’impudicizia del corpo non c’è civiltà, ma anche, precisa Della Casa, non c’è né bellezza, né bene.  
Nell’ambito dell’estetica è interessante notare che nella socialità il ‘gusto’ diventa un elemento costitutivo. I codici condivisi del Cinquecento (in special modo Il Cortegiano e il Galateo) sono codici comportamentali che indicano l’orizzonte del giudizio estetico (cos’è bello vedere, pitturare, leggere, scrivere, come e cosa si deve dire) che trova nello spazio negoziabile della socievolezza la via intermedia tra ciò che è generalizzabile e ciò che è del tutto privato, individuale, intimo.                                                                     
Detto in altre parole il Galateo (1558) delinea i confini di un viver civile improntato su un canone che ricerca il piacevole e il bello, lontano dal pericolo di incorrere nella rozzezza del malcostume. È in questa prospettiva che il ‘vecchio idiota[2]’, come si autodefinisce il Monsignor per bene, situa la costumatezza sul piano delle regole ‘di bella e di buona creanza’.Si tratta diun insieme di raccomandazioni e di una miriade di esempi inusitati che l’autore fatica ad organizzare in qualche ordine e che vengono pertanto elencati ‘a cascata’ come a suggerire un elenco provvisorio e aperto. Ciò che rende un uomo educato non è perciò una dote astratta ma la padronanza dei ‘modi piacevoli’ che ‘porgon diletto, o almeno non recano noia ad alcuno’ [3] nonché la capacità di orientarsi nell’universo ‘degli acconci e degli sconci modi che l’uno con l’altro usiamo’[4].
In questo catalogo disordinato di brutte maniere ed esempi sgraziati, alla costumatezza quale costruzione del legame sociale e comunicativo, è riconosciuto un ruolo ed un peso educativo essenziale fin dalla sezione introduttiva nella quale si specifica: ’Io comincerò (…) da quello che si convenga di fare per potere, in comunicando ed in usando con le genti, essere costumato e piacevole e di bella maniera[5]. L’aspetto innovativo è proprio il concetto di ‘bella maniera’ che si estrinseca concretamente in ogni gesto umano: ’nello andare, nello stare, nel sedere, negli atti, nel portamento e nel vestire e nelle parole e nel silentio e nel posare e nell’operare’[6]. E soprattutto nel mangiare.                                                                                                                
Il buon modo di stare a tavola va innanzi tutto distinto dalle altre pratiche concrete, vista la sua ambivalenza, e deve essere colto come una delle chiavi dell’educazione e della formazione umana. Sistematicamente si ribadisce la necessità del controllo di sé, dei propri discorsi e dei propri gesti, ma si insiste anche su ciò che potremmo definire una forma di empatia nei confronti degli altri convitati, che non deve essere però promiscua, né dimessa, occorre creare un contatto, quindi, ma anche praticare l’introspezione e l’auto controllo relativamente all’immagine di sé che si offre agli altri.                                          
Al riguardo sono descritte situazioni per noi ormai consolidate come oltraggio al bon ton, per esempio infilare ‘le mani in qual parte del corpo vien voglia[7] o ‘apparecchiarsi alle necessità naturali nel cospetto degli uomini’[8] o ‘fregarsi i denti con la tovagliuola e col dito’[9] per poi arrivare a stabilire leggi ’estetiche’ di buon gusto che ricordano il dovere di temperanza in opposizione alla volgarità e alle barbarie.                                                                                   
Il convivio infatti oscura a poco a poco lo spirito del guerriero anche in relazione al cibo e viene così alla luce il temperamento del cortigiano ‘galantuomo’. Quest’ultimo sa come mettersi a tavola, ma è anche capace di cimentarsi nella sottile arte della diplomazia e della dissimulazione. L’autocontrollo conviviale non è tanto nei consumi o nelle prescrizioni del corpo ma nella cura, nell’ordine, nel giudizio e nel rispetto.                                                               
E' riprovato lo scherno, la beffa, la parola che 'morde' e offende, si suggeriscono i modi del parlare e si consigliano i vocaboli da usare e quelli da evitare. La decenza verbale e la scelta di parole ‘pure’, ‘senza alcuna rammemorazione di cosa brutta nè laida ne bassa’ [10], sono messe sullo stesso piano della decenza comportamentale per cui: ‘non solamente non sono da fare in presenza di altri uomini le cose laide e fetide o schife o stomachevoli, ma il nominarle anco si disdice’[11].  Raccomandando un equilibrato senso della conversazione, ‘schifando’ certi atteggiamenti di presunzione, ritrosia e svenevolezza,  evitando nelle chiacchierate sia materia ‘frivola’ e ‘vile’, sia quei temi eccessivamente sottili che richiederebbero fatica ad essere intesi, riprovando i bestemmiatori e quanti raccontano noiosamente i loro sogni o appaiono millantatori e bugiardi, altro non si fa che condannare vizi capitali più comuni della superbia e della vanagloria, espressioni di quella ‘sconvenevolezza’ che ‘per se stessa è noiosa agli animi ben composti’.                                                                                             
Il senso della misura in tutti gli atteggiamenti: ’nello andare, nello stare, nel sedere, negli atti, nel portamento e nel vestire e nelle parole e nel silentio e nel posare e nell'operare[12] è più volte richiamato. Ed è proprio nel nome della misura che nasce l’idea di una violenza incanalata, di un’addomesticazione del corpo, di un lavoro su quanto di sconveniente vi sia nella ferinitas e nell’atteggiamento sprezzante e irrispettoso che può coinvolgere letteralmente dalla testa ai piedi. Infatti ciò che vale per gli ‘sconci atti del viso, ha similmente luogo in tutte le membra, ché non istà bene né mostrar la lingua, né troppo stuzzicarsi la barba, ...., né stropicciar le mani l'una con l'altra, né gittar sospiri e metter guai, né tremare o riscuotersi, né prostendersi e prostendendosi gridare per dolcezza’[13]. All’idea di ‘compostezza’ o ‘convenevolezza’, in quanto armonia delle parti, gli uomini dovrebbero conformarsi nel vestire, nel profumarsi, nell’atteggiarsi, nel camminare. Per quel che riguarda l’abbigliamento è sconsigliata la trasandatezza delle vesti ed è conveniente che ‘i panni’ siano ‘secondo il costume degli altri’, adeguati al ‘tempo’ e la propria ‘conditione’. Saper vestire, secondo buon gusto, implica un rispetto delle proporzioni del proprio corpo e una nuova attenzione ai particolari. Bisogna scegliere con cura anche delle calze. È consigliabile per esempio che ‘se tu arai per aventura le gambe molto lunghe le robe si usino corte’ o nel caso fossero o troppo o grosse o sottili o storte sarebbe meglioevitare ‘le calze di colori molto accesi, né molto vaghi, per non invitare altrui a mirare il suo difetto’[14]. Il pudore, inteso come la voce interiore che spinge l’uomo a controllarsi ed evitare di esibire la parte più brutta di sé, ha diversi strumenti da cavalcare oltre all’abbigliamento. Ci sono come detto una serie di comportamenti scostumati da ‘schifare’ e  ‘da schivare come la morte’ quando ci si trova in compagnia o in pubblico.                                                                                   
Con il Galateo si sfata il mito, se mai ce ne fosse necessità, che il pudore coinvolga solo la sfera della corporeità. Esibire ciò che non va esibito è un atteggiamento sconveniente che coinvolge anche i comportamenti sociali e collettivi. È in questo contesto che ‘l’uomo temperato’ deveevitare qualunque eccesso. È infatti facile sorridere di alcuni contenuti dei libri e dei trattati di bon ton di epoca rinascimentale oggi che siamo a distanza di sicurezza da certi atteggiamenti, ma basta leggere alcune parti del Galateo, per vedere quanto brutalismo ci si aspettasse da un qualsiasi giovane commensale, e quanto necessario la padronanza dei modi e rappresentasse per un gentiluomo l’unica occasione di essere padrone della propria vita relazionale. Il senso del pudore (e quindi del buon gusto) si traduce in parte nel non dare mai segno di ingordigia o disgusto, fare un uso sensato ed estetico dei vari attrezzi da tavola (la specializzazione progressiva degli accessori della tavola e degli utensili da cucina del XVII secolo non faciliterà certo il compito dei convitati), non infastidire la vista, l’udito, il gusto, il movimento, ma anche e soprattutto consiste nella capacità di non urtare la sensibilità degli altri commensali, evitare le inutili affermazioni, gli schemi e gli atteggiamenti di prevaricazione che portano a voler ‘in ciascuna cosa essere avantaggiati dagli altri, e coricarsi ne' migliori letti e nelle più belle camere, e sedersi ne' più comodi e più orrevoli luoghi’ oppure a cercare ‘prima degli altri essere serviti et adagiati’[15] oppure a parlare troppo di sé e arrivare alla ‘ bugia per vanagloria di se stessi’. 
I dettami impartiti da Della Casa formano un compiuto insieme di norme che avranno notevole fortuna (le ben trentotto ristampe volgari[16] danno la misura della circolazione di un testo destinato a divenire un simbolo della cultura e della civiltà europea di fine secolo) nell’Europa di fine Cinquecento e nei secoli a venire. Se questi consigli, che possono apparirci piuttosto rudimentali, si sono cristallizzati come massima espressione del rispetto dell’etichetta, è una prova che il Galateo esalta la sua grandezza nella tensione all’universalità delle sue linee guida poiché il rispetto delle regole è sempre il contrassegno dell’uomo civilizzato e ancor più dell’uomo elegante.
La bellezza non è più un archetipo ma una consapevole misura ed è nella condanna di Della Casa di ogni eccesso animalesco che si incarna il culto della proporzione caratteristica del Rinascimento. Le leggi estetiche del ‘non si deve fare’ servono in senso più ampio a ricordare il dovere di temperanza in opposizione all’esibizione e all’esagerazione, mettendo freno a derive ed eccessi che sono per natura umana in incubazione e spesso nemmeno troppo latenti.                                                                                                                                                
(Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 6-7, 11, 13-14)

Note:



[1] Cap. II  Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 6-7

[2] Trattato nel quale, sotto la persona d'un vecchio idiota ammaestrante un suo giovanetto, si ragiona de' modi che si debbono o tenere o schifare nella comune conversazione, cognomi nato Galateo overo de' costumi)

[3] Cap. XXV Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 22

[4] Cap. XXVIII  Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 53-54

[5] Cap. I Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 3

[6] Cap. XXVIII Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 55

[7] Cap. III Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 13

[8] Cap V Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 16

[9] Cap V Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 16

[10] Cap XIV Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 20-21

[11] Cap III Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 12

[12] Cap XXVIII Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 72

[13] Cap XXX Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 81-84

[14] Cap XXVII Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 81-84

[15] Cap VIII Giovanni Della Casa, Galateo, a c. di R. Romano, Einaudi, 1975, pp. 20

[16]  La traduzione francese del 1562, quella inglese del 1576, quella latina del 1580, cui fanno seguito la versione spagnola del 1584 e tedesca del 1594.