Barbara Troise Rioda - Attorno alla tavola dell'Ultima cena

In un recensissimo saggio, uscito nel 2016, sulla Filosofia dell’arte l’autore scrive: ‘il soggetto della rappresentazione artistica, ha sempre una relazione con la realtà, (...) mi viene da pensare che la maschera sia un truccoper attirare lo sguardo, e infatti la maschera non interrompe il flusso ma anzi direi, anche fortuitamente, contribuisce a rivelare altro senso e ad aggiungere relazioni col mito e con la pluralità del reale[1]. Questa semplice nota sul rapporto che esiste tra dato storico, tradizione, evento mitico e rappresentazione artistica è certamente forte ed evidente nel caso dell’iconografia dell’Ultima cena proprio in virtù delle ‘tante maschere’ che ad essa hanno applicato gli artisti e all’inesauribile ricchezza di significato che la scena ha suscitato nei loro animi.
In ogni caso la versione alla quale si pensa, almeno dal punto di vista della disposizione dei commensali e della forma della mensa, è sostanzialmente una.  Essa, pur con alcune varianti nella sua composizione, è composta da una tavola rettangolare, dalla disposizione frontale degli attori e una visione centrale della figura di Cristo. La maggior parte delle opere ha questo impianto e l’opera del cenacolo leonardesco inevitabilmente risuona nel nostro immaginario come il modello al quale fare riferimento.
Tuttavia che la mensa alla quale Gesù consumò l’ultima cena non potesse di certo assomigliare a quella dipinta da Leonardo non ci sono dubbi.
Al tempo di Gesù a Gerusalemme infatti si mangiava all’uso dei greci e dei romani. I romani in quel tempo tenevano sotto controllo la Giudea perciò nella cena di Pesach gli Ebrei, rievocando la libertà conquistata al tempo di Mosè, ci tenevano a mangiare come uomini liberi, cioè in un triclinio come i romani o meglio su uno stibadium.
Lo stibadium,è una mensa usata dagli antichi romani in alternativa al triclinio, che anziché tre letti intorno a una tavola quadrata, come per il triclinio, ha un letto unico. Tavola e letto hanno la forma di un arco di cerchio o di un sigma anulare. Tale forma rimanda a tutti gli effetti alla forma e alla dimensione circolare presente nelle primissime opere d’arte dell’arte cristiana raffiguranti l’Ultima cena[2].
é evidente che l’impianto a sigma, con il Cristo disteso sul letto mentre gli altri apostoli sono sinteticamente raccolti a semicerchio fino al limite opposto della curva è forse più di altri la registrazione di un costume reale, la commemorazione di un avvenimento e un comportamento sociale prescritto[3].
Dopo essermi immersa nella sterminata serie di Ultime cene esistente del nostro panorama artistico alla ricerca di echi che provenissero dalla voce dell’iconografia classica ‘a sigma’ confesso di non aver avuto l’animo di affrontare un compito tanto ambizioso e ho ripiegato su una soluzione che mi è parsa la più filologicamente corretta. Ho così optato per l’analisi del tavolo sacro in tre opere contemporanee molto diverse tra loro, che a mio avviso possono offrire spunti e piste di riflessione tutt’altro che scontate.
In un multiforme approccio, attraverso correnti contemporanee e tecniche diverse, ho studiato tre artisti oramai consacrati dalla storia dell’arte: il pittore tedesco Sieger Köder, lo scultore, scenografo italiano Mario Ceroli e il danzatore, pittore e coreografo rumeno naturalizzato svizzero Daniel Spoerri, che si muovono entrambi prevalentemente nell’orbita culturale neoavanguardistica.

Sieger Köder[4] è il sacerdote tedesco che dipinge l’ultima cena e l’atto del donare il pane e il vino agli apostoli da parte di Gesù in una piccola e buia stanza del cenacolo, quasi interamente occupata dal gruppo degli undici apostoli. Giuda sceglie di non partecipare a questa mensa e nella notte, nel buio, se ne va dopo aver preso il boccone dalla tavola e aver udito le parole del Maestro: «Quello che devi fare fallo presto». Mentre la sala è illuminata dal gesto di Gesù, Giuda è avvolto nella tenebra. Il vangelo di Giovanni dopo l’uscita di Giuda annota ‘Ed era notte’ ed è la stessa notte del cuore di Giuda il cui volto infatti non si riesce nemmeno a riconoscere perché in lui non risplende più la luce di Gesù.
Le altre undici teste, restano vicine tra loro attorno alla mensa con un movimento di mani e un’espressività di volti nei quali si declinano tutti i sentimenti umani. C’è chi reagisce a questo gesto, stupito, impaurito, qualcuno pensieroso mentre uno dei discepoli si distrae a seguire con lo sguardo la fuga.
Molti sono i segni sulla tavola. In mezzo al gruppo, la lunga ombra della croce si disegna sul biancore della tovaglia, sugli stessi discepoli ed oltre. C’è un pane spezzato, pronto per essere afferrato dalle mani dei commensali, segno del corpo di Cristo che si offre in quest’ultima cena per la salvezza dell’uomo. Il pane ha la forma del mondo, a sottolineare l’universalità del sacrificio rivolto a tutti gli uomini, di ogni tempo e luogo e disegna, lasciandole intravedere, la forma di due lettere greche Chi e Ro. Cristo Redentore, un acronimo che per i cristiani della prima ora aveva tutto il senso profondo della resurrezione.  
Attorno a questa tovaglia essenziale dalla forma rettangolare ci sono gli undici apostoli  disposti a semicerchio, in un modernissimo impianto a sigma. La figura di Cristo, che da una prima e veloce lettura dell’immagine può essere confusa con quella vestita di rosso vermiglio alla destra della tavola (come piacerebbe alla classica iconografia semicircolare) in verità non compare ma assume una posizione centrale e non frontale rispetto all’osservatore chiudendo il cerchio.
Al centro della scena c’è il calice con il vino, sorretto dalle mani di un Gesù, che non è perciò raffigurato. Vediamo solo il suo volto riflesso e le sue mani. Köder vuole spingere chi guarda il dipinto a partecipare ancor più alla Passione di Cristo facendoci mettere nei panni di Gesù, assumendo così il Suo punto di vista. E da quel punto di vista, il pittore ci chiama a re-incontrare lo sguardo e il corpo del Signore guardando nel riflesso del suo volto il nostro volto[5] e facendone memoria attraverso le mani di chi celebra l’eucarestia nella messa.
L’autore usa frequentemente questo particolare punto di vista per raccontare un evento[6] e comunque cerca spesso una visuale ‘altra’ dell’evento; forse per arginare il rischio di pensare di conoscerlo già e di averne compreso a fondo i significati[7].
L’arte di Köder è caricata pesantemente della sua esperienza personale di guerra durante il periodo Nazista e dell’Olocausto. Questa prospettiva che ‘si mette dalla parte di chi soffre’ è evidente soprattutto nel ciclo pittorico raffigurante l’intera passione di Gesù nella quale l’attenzione è focalizzata su Simone di Cirene che aiuta Gesù a portare la croce nella salita verso la collina del Golgota[8].
Proseguendo l’excursus nel mondo della rappresentazione della tavola e della disposizione intorno al pasto eucaristico ho scelto due artisti e due opere contemporanee che non solo si emancipano totalmente dalla figura a sigma classica e dalle sue repliche più o meno conseguenti, ma sono frutto di una scelta compositiva coraggiosa.
Incominciamo con il dire che l’arte del primo artista, Mario Ceroli, trova consistenza fisica nel legno. Sul piano di questo materialismo pratico, dopo essersi dedicato alla ‘opaca sordità legnosa’ degli oggetti (grandi lettere dell’alfabeto, numeri enormi di orologi da stazione ferroviaria, elementari opposizioni fonetiche, l’antitesi primaria di SI e No in grezze tavole d’abete inchiodate con dissimulata perizia d’artigiano) potremmo dire che Ceroli incontra l’uomo.
Negli anni sessanta, una delle fasi più felici della sua prorompente creatività, per la realizzazione della sua Ultima cena ritaglia letteralmente dal legno una serie di dodici silhoutte sagomate e prive di colore che siedono in fila uguagliate dalla serialità del profilo.
Questa versione fornisce non solo una visione stilizzata, ma anche un’interpretazione diversa: l’uomo viene abbandonato dal suo Dio. Tra le dodici sagome al centro infatti spicca prepotentemente il vuoto lasciato da Cristo.
La ripetitività delle forme, l’impossibilità di distinguere i vari apostoli fra di loro e soprattutto l’assenza dell’elemento divino, oltre ad inserirsi pienamente nella crisi esistenziale dell’Europa postbellica e mostrare segni dell’influenza della Pop Art americana, fa dal punto di vista iconografico da contraltare all’originale di Leonardo (dove Gesù costituisce l'asse centrale della scena compositiva a forma piramidale mentre gli apostoli sono disposti a gruppi in movimento).
Per apprezzare a fondo il significato è utile il confronto diretto con L’Ultima cena più famosa della storia dell’arte e in questa direzione l’ulteriore elemento di contrasto è percepibile anche nei moti dell'animo degli apostoli leonardeschi e quelli freddi, muti e impersonali di Ceroli.
La ricerca della rappresentazione psicologica, tema ricorrente nell’arte di Leonardo ma non solo, si esplicita nella varietà di volti ed emozioni espresse dai commensali, senza che mai si comprometta la percezione unitaria dell'insieme. Qui l’artista, come abbiamo già osservato, vi rinuncia in toto, come rinuncia al contatto fisico tra i corpi, creando un effetto ‘distanza’ ben lontano dall’opera rinascimentale del cenacolo ma anche dall’effetto ‘concentrato’ e raccolto della composizione circolare a sigma dell’arte cristiana antica nella quale gli apostoli invadono i propri spazi vitali, parlandosi, toccandosi, guardandosi e in molti casi accavallandosi fisicamente[9].
Un’altra grande assenza è quella del tavolo eucaristico. La scelta contribuisce a dare un’idea di sospensione e di ‘mancanza’, quasi se i commensali fossero sull’orlo di un precipizio, privati di un solido appiglio di senso sul quale appoggiare le proprie certezze.
La scelta di gettare nell’oblio la figura di Cristo e di escludere dalla scena la solidità della mensa eucaristica (archetipo dell’altare sacro al quale si rifà la liturgia della messa e che occupa dentro le nostre Chiese il posto d’onore) è forse una inconsapevole provocazione[10]  o un sintomo del senso di abbandono, di mancanza o perdita del sentimento del divino che accompagna il nostro tempo.
La scelta dell’ultima opera che propongo è venuta dopo la mia visita all’esposizione organizzata quest’estate dal comune di Carrara ‘Una dura scelta’ di Daniel Spoerri. All’interno di una stanza luminosissima del centro delle arti plastiche l’artista declina il tema dell’ultima cena in una sequenza di ‘ultime cene’ attribuite ad alcuni personaggi storici (Freud, Proust, Platone sono alcuni di questi). Sono tredici tavole in marmo di Carrara trattato con ossidi di ferro, sulle quali al centro spicca, per maggiori dimensioni, la cena di Cristo.
Daniel Spoerri ha sempre sfidato le leggi di gravità, dal piano orizzontale a quello perpendicolare, dando vita alla grande epopea dei Tableaux Pièges. Con l’asistematicità che lo caratterizza è riuscito a restituire a noi ed agli oggetti che guardiamo un nuovo valore vitale per lo sguardo e per la memoria, sospendendo ogni costruzione e decostruzione.
L’oggetto in sé stesso è privo di vita, tuttavia il caso o l’incontro casuale di due o tre di questi oggetti, che con straordinaria capacità intuitiva e fattiva unisce, coniuga e vivifica, permette al nostro sguardo di volare su regioni mentali del tutto sconosciute.
A Carrara[11] Spoerri ha proposto qualcosa di diverso dal ‘solito’, si è concentrato sulla scultura, un binomio tanto ovvio quanto impegnativo per il luogo scelto dall’artista. La mostra di Daniel Spoerri fa pensare e sorprende, inquieta e incanta come tutte le forme culturali che hanno il coraggio delle scelte forti, di indagare l’umano senza tirarsi indietro di fronte ai suoi abissi, alle sue contraddizioni.
Tra le opere più intense c’è proprio quella delle Ultime cene in marmo bianco, per le quali si serve di un ‘linguaggio che produce contraddizioni forti tra il senso della modernità e il senso della classicità’[12].
Ed è interessante che per l’Ultima cena di Cristo scelga una lastra di marmo e rinunci alla rappresentazione del protagonista (o di protagonisti). Gesù non è più il vero e proprio fulcro impaginativo della scena, ma lo è il cibo consumato.
L’incisione del nome in questa sorta di lapide verticale è l’unica certezza. I protagonisti tornano ad essere i simboli e come ci saremmo forse potuti ben aspettare da Spoerri il cibo. Ecco che allora i resti del pane spezzato, il pesce nel piatto e la brocca di vino vengono ‘intrappolati’ questa volta nel marmo.
Anche qui mancano almeno due dei pilastri dell’iconografia classica e sono Cristo (che si nasconde in tutte e tre le opere analizzate) e gli apostoli. Nessun segno infatti sulla tavola di marmo richiama la presenza dei dodici, l’esperienza del ‘pasto finale’ è individuale, singolare. La tavola, diversamente da Ceroli, è tutto, è fisicamente presente ed è in marmo come lo sono gli altari sacri delle nostre Chiese. Rimane però una tavola ‘solitaria’, individuale, nominale (GESU’ CRISTO 4 a.C-30 d.C.) che riporta all’idea della morte e dissolve l’alone di comunione fraterna che sottende l’opera di Ceroli e che colora vivacemente quella di Köder.
Alla fine della mia trattazione posso dire che per quanto nitidi siano i travestimenti o le ‘maschere’ appunto che gli autori producono e applicano all’evento sconcertante dell’Ultima cena un effetto di dispersione e di disseminazione di significato mi pare accomuni molte delle opere contemporanee (almeno quelle delle quali ci siamo occupati lo rivelano). Tuttavia tutte queste antinomie e gradazioni di colori non fanno che confermare che nei secoli questa sequenza non ha per via della sua famigliarità perso il suo alone di enormità.
L’ultima cena continua quindi a parlare alla nostra modernità inquieta e lacerata lasciando a ognuno di noi uno spiraglio dell’intuizione che la ricerca del volto di Dio e la sensazione della sua ‘assenza’ fanno comunque parte della nostra condizione di uomo e di donna.

 

Bibliografia:


A. d’Avossa, mostra Una dura scelta, Centro Ari Plastiche Massa, Accademia di Belle Arti di Carrara 11 Giugno-11 Settembre 2016.
P. Adorno, L'arte italiana. Le sue radici medio-orientali e greco-romane. Il suo sviluppo nella cultura europea, Messina-Firenze, D'Anna, 1993, vol. I, tomo I, Dalla preistoria all'arte paleocristiana.
G. Heinz-Mohr, Lessico di iconografia cristiana, Milano, Istituto di propaganda libraria, 1995.
J. van Laarhoven, Storia dell'arte cristiana, Milano, B. Mondatori, 1999.
R. Boscaglia-M. Cinotti, Tesoro e Museo del Duomo, Milano, Electa, 1978, tomo I.
R. Cammilleri, Ma la cena eucaristica non è un pic-nic, La nuova bussola quotidiana rivista on line: http://www.lanuovabq.it/it/home.htm
G. Cavallo, Codex Purpureus Rossanensis, Roma, Salerno, 1992.
L. Colonnelli, La tavola di Dio, Edizioni Clichy, Firenze, 2015
J. Wettstein, Sant'Angelo in Formis et la peinture médiévale en Campanie, Genève, Droz, 1960.
R. Causa, Gli affreschi di Sant'Angelo in Formis, Milano-Ginevra, Fabbri-Skira, 1965.
F. de' Maffei, Sant'Angelo in Formis. II. La dicotomia tra le scene del Nuovo e dell'Antico Testamento e l'originario ceppo bizantino, ”Commentari”, XXVIII (1977), pp. 26-51, 195-227.
G. Lorenzoni, La pala d'oro di San Marco, in L'alto Medioevo, Firenze, Sadea / Sansoni, 1968.
J. Ainaud de Lasarte, Il Panteon di Sant'Isidoro a Len, Milano-Ginevra, Fabbri-Iskra, 1965.
P.C. Marani, Il cenacolo di Leonardo, Skira, 2009, Milano.
L. Margarita, L’Ultima Cena interpretata da grandi pittori della storia dell’arte, www.gulliber.it

Giovanni 13:21-30

21 Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: «In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà». 22 I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. 23 Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. 24 Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: «Di', chi è colui a cui si riferisce?». 25 Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?». 26 Rispose allora Gesù: «È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò». E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. 27 E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. Gesù quindi gli disse: «Quello che devi fare fallo al più presto». 28 Nessuno dei commensali capì perché gli aveva detto questo; 29 alcuni infatti pensavano che, tenendo Giuda la cassa, Gesù gli avesse detto: «Compra quello che ci occorre per la festa», oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri. 30 Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte.

 

Note:


[1] A. Tanfoglio, Filosofia dell'arte: rappresentazione e società, Youcanprint, 2016, p.87.

[2] Partendo dall’analisi dell’immagine presa dall’Evangelario greco miniato di Rossano Calabro (Codex purpureus rossanensis), realizzata nella seconda metà del VI secolo e costruita con la tecnica di esecuzione propria dei codici purpurei (così denominati per la pergamena tinta in porpora in cui venivano scritti), appare evidente la costruzione intorno ad una tavola semicircolare, con pani e pesci e i dodici commensali semisdraiati (a rappresentare ovviamente i dodici apostoli) strettamente uniti l'uno accanto all'altro, quasi a esprimere i loro sentimenti all'unisono nei confronti di Gesù, collocato a sinistra, come voleva l'uso romano del tempo.
Questa disposizione dei commensali principali ha la stessa forma della tavola a sigma, chiaramente riscontrabile anche nel mosaico della basilica di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna, nell’immagine parietale dell’abbazia di Sant’Angelo in Formis a Capua e infine nella Pala d'oro dietro l'altare maggiore della basilica di San Marco a Venezia dove nell'ottava placchetta in alto risalta appunto la scena dell'Ultima Cena, con gli apostoli disposti a sigma attorno a una tavola, alle cui estremità siedono come sempre Gesù e san Pietro. [3] Tuttavia rimane molto discusso il modello archetipo della tavola a sigma rappresentata nell’arte paleocristiana. Una delle possibili piste battute dagli studiosi è l’ipotesi della sua origine mediorientale che proviene dall’analisi del mosaico pavimentale di una casa romana del terzo secolo d. C. di Sepphoris a 9 Km da Nazareth. Questa composizione musiva è un’ulteriore conferma della teoria, secondo la quale sotto l’aspetto stilistico la prima arte cristiana non si configura con tratti propri, ma si innesta su quella romana, assumendo tuttavia nuovi significati simbolici. Si può dunque affermare che siamo davanti a un caso di sincretismo religioso: il tema pagano del convivio viene trasfigurato in quello cristiano della sacra cena dall’arte bizantina, che, in virtù della sua caratteristica conservatrice, per secoli lo ripropose come modello figurativo. Si può perciò ragionevolmente ipotizzare che la tavola "a sigma" richiami le mense dell'età apostolica e sub-apostolica, quando il rito agapico eucaristico non aveva ancora attuato la separazione fra la tavola del banchetto e quella del divin sacrificio, e che essa fosse su per giù conformata su questo tipo. Sempre in relazione al rapporto con il paganesimo è da considerare inoltre che gli altari pagani avevano proprio la caratteristica forma a sigma e in qualche modo la mensa eucaristica si innesta in un valore simbolico che richiama e richiamerà a tutti gli effetti l’altare liturgico.

[4] Morto di recente a ottantacinque anni ha illustrato quasi tutta la Bibbia.

[5] A tal proposito si veda anche dello stesso autore: Donna al pozzo di Giacobbe

[6] Ad esempio nella crocefissione del ciclo La follia di Dio

[7] Oltre agli impianti esegetici e alle storie bibliche, uno dei leitmotiv di Köder è l’Arlecchino. Controparte del robot moderno (una creazione della razionalità, della logica, della progettazione, e della precisione) Arlecchino simbolizza l’irrazionalità, la poesia, la libertà, il divertimento. Arlecchino corrisponde all’arte e all’artista, alla parte comica che c’è dietro la realtà di ognuno di noi. Infatti ‘siamo tutti dei matti’ dichiara Köder e forse l’Arlecchino corrisponde anche, per l’autore-sacerdote, alla straordinaria ‘stravaganza’ di un Dio che si è fatto uomo per salvare ognuno di noi.

[8] Gesù e Simone sono come viaggiatori sulla stessa strada: corpo che sostiene corpo, spalla a spalla, guancia a guancia. Simone accettando di aiutare Gesù si mette dalla sua parte e assume il suo stesso sguardo sul mondo e sull’umanità.

[9] Si pensi solo a tutta l’iconografia di Giovanni che ha la testa reclinata sul petto di Gesù o in senso più ampio alla fluidità del disegno che le dodici figure disegnano a contatto tra loro.

[10] A parziale dimostrazione di ciò nell’Ultima cena della Chiesa di San Lorenzo a Porto Rotondo entrambi gli elementi ricompaiono.

[11] L’Italia ritorna per Daniel Spoerri con un viaggio iniziato con la sua prima ed ormai leggendaria esposizione personale: 1961 ,Milano, Galleria Schwarz. Quella mostra dove i topi penetrati nel deposito della galleria contribuirono ‘collaborando’ e mangiando parte dei suoi quadri-trappola e dove Spoerri intuendo accettando e governando la casuale collaborazione sviluppa in termini visivi quel concetto di indeterminazione.

[12] Antonio d’Avossa, catalogo della mostra Una dura scelta, Centro Ari Plastiche Massa, Accademia di Belle Arti di Carrara 11 Giugno-11 Settembre 2016.