In principio era la polenta. Se le ricerche archeologiche non ingannano (antichi resti di pignatte incrostate di farina di cereali e fave ce ne documentano l’uso come alimento sin dall’età del bronzo), si può ben dire che la πάλη, polenta, puls, pulenda, polta, polenda è un cibo antichissimo e venerando, cui dobbiamo per larga parte la sopravvivenza della nostra specie, con buona pace di chi l’ha “demonizzata” individuandone la principale responsabile della pellagra in età moderna.
Certo, anticamente non si presentava di color giallo: il granoturco, portato insieme alle patate e al pomodoro, arriverà dall’America, come ben noto, solo nel XVI secolo, e impiegherà tempo per imporsi. L’antenata della polenta era pallida, fatta com’era da tutti quei cereali come il farro, usato prevalentemente dai Romani, oppure l’orzo, il miglio, il sorgo, che, non adatti alla panificazione, venivano sminuzzati e poi buttati in un paiolo con acqua bollente e sale. Il suo aspetto più emaciato non era però meno attraente per quegli strati più umili della popolazione che passavano la gran parte della loro esistenza a stomaco vuoto. Per lo stomaco, vuoto oppure pieno, passa un primo importantissimo discrimine per capire l’ambivalenza della polenta nella letteratura antica e moderna.
1.Le ragioni di poveri corpi
Per i poveri e gli affamati cronici la polenta ha rappresentato a lungo una sorta di metonimia del pranzo, dogana della sopravvivenza, sogno di abbondanza nutrito con la fantasia e i succhi gastrici; come tale essa entra spesso nell’immaginifico e utopico Paese di Cuccagna, la versione rustica della mitica età dell’oro, dove la vita degli uomini trascorre tra mangiate ai quattro palmenti e divertimenti di ogni tipo. È il commediografo greco Ferecrate (V sec. a.C.), nella sua opera I minatori, ad offrirci una prima rappresentazione letteraria di questo paese dove pancia e ganasce sono sempre riempite fino all’eccesso. Una donna torna dall’inferno e ne riferisce così i succulenti scenari:
Fiumi di farinata [alias: polenta] e brodetto nero ribollendo scorrevano colmi tra sponde strette, con bocconi di pane già preparati e pezzetti di galletta […] lungo i fiumi pezzi di carne farcita e rocchi bollenti di salsicce venivano ammucchiati, sfrigolanti, su grossi piatti, ed accanto v’erano fette di pesce da taglio, colti a modo, in salse d’ogni sorta, e anguille con ampi contorni di bietole.
Alimento di base di quell’«outrance gastronomica» che «coincide con la filosofia di Carnevale» (Camporesi), entrata di diritto nel mondo comico della commedia con le sue istanze di realismo quotidiano (ce lo vedreste mai un re o un eroe a mangiare la “grassa polenta”?), la polenta qui non si assaggia, non si degusta, non si deliba, ma si ingoia, si divora, si ingurgita, si trangugia, possibilmente con un companatico adatto: burro o formaggio. All’inizio dell’Asino d’oro ovvero Le metamorfosi di Apuleio, il protagonista e narratore incontra il primo di una lunga serie di compagni di viaggio, che gli confessa come abbia rischiato di rimanerci secco ingozzandosi di polenta per scommessa (I 4):
L’altra sera, per esempio, mentre cercavo di mandar giù un boccone troppo grosso di polenta incaciata (si faceva a chi ne mangia di più) ecco che quella roba molle e glutinosa mi si attacca in gola e mi blocca il respiro, che a momenti soffoco.
Nel Rinascimento, la curiosità filologica, culinaria e antropologica del più celebre commentatore di Apuleio, ovvero il bolognese Filippo Beroaldo il Vecchio (1453-1505), sarà stimolata proprio dal sintagma “polenta incaciata” (in latino polenta caseata), cui nella sua pagina densa di erudizione è dedicato un breve trattatello infarcito di citazioni: Beroaldo ci ricorda, ad esempio, che della polenta fa menzione Plauto all’inizio della sua Asinaria (vv. 33, 37) e che Plinio nella sua enciclopedia del sapere (Naturalis Historia XVIII 72) spiega quanto diversamente i greci la preparassero rispetto ai romani («I greci essiccano per una notte l’orzo pieno d’acqua e il giorno dopo lo tostano, poi lo frantumano con le macine»). Questo breve ma saporito excursus linguistico fece venire l’acquolina in bocca ad uno degli amici del “Commentatore bolognese”, il frate carmelitano Battista Spagnoli Mantovano (1447-1516), famoso in tutta Europa nel Cinquecento con l’appellativo tributatogli da Erasmo di “Virgilio cristiano”: nella sesta delle sue ecloghe (rustici componimenti pastorali), che tratta della differenza tra cittadini e contadini, la diatriba tra i due interlocutori Folaga e Cornacchia si inscrive tutta nel periodo di preparazione della polenta: il componimento si apre con la contadina Neera che cerca di vincere il gelo invernale mescolando la polenta fumante davanti al fuoco (vv. 4-5) e si chiude con l’eccitazione dei fanciulli che fremono perché la polenta è finalmente pronta. Allora i discorsi seri degli adulti devono cessare per dare spazio alle ragioni dello stomaco:
Folaga: O Cornacchia, smettila ormai con questi discorsi. È già da un po’ che sento i ragazzi che parlano di polenta; se ti resta qualcosa da dire, lo dirai dopo il pranzo. L’ora suggerisce di lasciar perdere i discorsi sulle città e di dedicarsi alla polenta. (vv. 252-255)
Bisognerà aspettare circa un secolo per ritrovare la polenta al centro di un’ecloga: verso la fine del Cinquecento, infatti, Bernardino Baldi (1553-1617) descrive la realizzazione di una polenta di bianca farina, «verosimilmente di miglio» (Messedaglia), nella sua ecloga Celeo, o l’orto. «Vecchio cultor di pover’orto», Celeo, per pagare il «solito tributo / al famelico ventre», prepara una polenta che prima asperge di «trito cacio», per poi «infondervi» sopra una gran quantità di burro, che penetra «tutto il penetrabil corpo [della polenta]».
Col Mantovano e il Baldi siamo tornati subito dall’erudizione al basso corporeo tipico dell’espressionismo padano, che conosce un vero e proprio trionfo, come è ben noto, nell’opus magnum di un altro frate, questa volta benedettino, ma anche lui, come il Mantovano, compatriota di Virgilio: si tratta di Merlin Cocai, più noto come Teofilo Folengo (1491-1544), il cui poema maccheronico Baldus, che lievita quasi in parallelo col cugino francese Gargantua e Pantagruel di François Rabelais, rappresenta il vertice rinascimentale della carnevalizzazione del mondo. Pur non essendoci in esso brani in cui la polenta faccia da protagonista, è significativo che essa compaia proprio nel proemio del poema, accompagnata dagli “gnocchi”, nella comica invocazione alle “Muse mangione” che il poeta chiama in suo aiuto:
Pancificae tantum Musae, doctaeque sorellae,
Gosa, Comina, Striax, Mafelinaque, Togna, Pedrala,
imboccare suum veniant macarone poëtam,
dentque polentarum vel quinque vel octo cadinos.
Hae sunt divae illae grassae, nymphaeque colantes,
albergum quarum, regio, propiusque terenus
clauditur in quodam mundi cantone remosso,
quem spagnolorum nondum garavella catavit.
(Ma solo le Muse mangione, le dotte sorelle, Gosa, Comina,
Striazza, Mafelina, Togna, Pedrala, vengano qui a imboccare
il loro caro poeta di gnocchi, e mi diano cinque o anche otto tegame
di polenta fumante. Queste sono le mie dee e le mie ninfe,
bell’e grasse che colano; e il loro albergo, la regione e terra
loro è lontana lontana, in un cantone del mondo che la
caravella degli Spagnoli non ancora è stata buona di trovare.)
Se si tien conto che una delle etimologie proposte per risalire al significato della letteratura “maccheronica” vien proprio da “macco” (una polenta di fave sminuzzate e dunque un cibo poco raffinato), non ci stupiremo di ritrovare la polenta, in compagnia di cibi grassi e unti come gnocchi, torte, tortelli in molti altri frangenti delle Macharonee del Folengo (si vedano per esempio Ecl. app. I 24; II 22; III 12; Zanit. (Tusc.) 373; Zanit. (Vig. Coc.) 428, 797, 896 ; Mosch. (al. red.) 3, 10).
Risalendo via via questo filone dell’eccesso e della dismisura, ci si imbatte in quel goloso di Giacomo Leopardi, cui il genere eroicomico della batracomiomachia pseudomerica concesse l’appiglio per ripetute gustose escursioni (nel 1821-22, nel 1826 sino ai Paralipomeni della Batracomiomachia degli estremi anni di vita) nel plurilinguismo, per quel che qui ci riguarda, gastronomico; è solo sotto questo segno, del resto, che per un classicista come Leopardi la polenta poteva entrare nel dettato poetico. All’inizio della sua Guerra dei topi e delle rane del 1826, il topo Rubabriciole, figlio di Leccamacine e nipote di Mangiaprosciutti, si vanta col ranocchio Gonfiagote di riuscire sempre a mangiare “a sbaffo” (nomen omen!) i più prelibati cibi degli uomini; i quali, però, ‘inghiottiti’ come sono, e non degustati come meriterebbero, servono solo a “riempire i budelli”:
Rodo il più bianco pan, ch'appena cotto,
Dal suo cesto, fumando, a se m'invita;
Or la tortella, or la focaccia inghiotto
Di granelli di sesamo condita;
Or la polenta ingrassami i budelli,
Or fette di prosciutto, or fegatelli. (I, strofe 11)
2. Le ragioni di menti sottili
Se in questo filone carnevalesco, imposto, come abbiam detto, dallo stomaco vuoto, la polenta è simbolo di smisurata voluptas, indice di insoddisfazione per l’hic et nunc e vagheggiamento di un mondo rovesciato, nell’altro, aristocratico e talvolta un po’ ascetico, la polenta assume il significato opposto di misura, sobrietà, regolatezza, rispetto dell’austero mos maiorum. In questa accezione non ci sorprenderemo di trovare la polenta in scrittori satirici latini del I sec. d.C. come Persio, Giovenale e Marziale, dove essa assume tutti i connotati simbolici di una cena frugale, idealmente contrapposta agli ostentati sfarzi culinari di un’epoca da basso impero e alle abbuffate dei suoi caratteristici parvenu (Trimalcione docet). Persio vede le contaminazioni dei costumi culinari come segno di decadenza (Sat. VI 38-40): «È così: da quando la sapienza [forestiera] è arrivata in Roma con i datteri e il pepe e questa nostrale [è caduta in disprezzo] i nostri falciatori hanno imparato a guastare la polenta con il burro»; Giovenale sfida Persico a vedere se c’è differenza tra la vita frugale che proclama e quella che conduce (Sat. XI 56-59): «Tu vedrai oggi, o Persico, se queste belle frasi io non metta in pratica nella vita, nei costumi e nei fatti, se io lodo i legumi essendo di nascosto un crapulone, se in pubblico io ordino al mio servo polenta e, in un orecchio, focacce»; Marziale invita infine l’amico Toranio a far penitenza a casa sua con una cenetta davvero sobria ma in cui si sentirà completamente a suo agio (Epig. V 78): «Ti sarà presentato, su uno scuro piatto, un verde cavolo colto or ora nel freddo orto, che dovrai prendere scottandoti le dita, una salsiccia adagiata sopra una bianca farinata [polenta], delle bianche fave con rosso lardo […] la mia cena è modesta – chi potrebbe negarlo?».
Anche Seneca, in una delle sue più note lettere a Lucilio (la 110), esalta, attraverso la polenta, una alimentazione semplice e contenuta; ce lo ricorda un suo grande ammiratore a distanza di tanti secoli, Francesco Petrarca (1304-1374), in uno di quei testi intimi con cui volle dimostrare ai posteri di aver consacrato anche l’ultima stagione della sua esistenza agli studia humanitatis, le lettere Senili. Non amante dei piaceri della tavola – così almeno gli piacque autoritrarsi nella sua lettera-testamento Posteritati – Petrarca trascorse gran parte della sua vita a pasteggiare sobriamente con le Muse in posti isolati (Valchiusa, Selvapiana), lontano dal rumore e dalle volgarità dei grandi banchetti; per questo, la Sen. XV 3 diretta a Lombardo da Serico è piena di elogi per la scelta dell’amico di vivere lontano dalle mollezze degli uomini, dunque dalla città fomite di vizi, essendo capace soprattutto – ed ecco qui che si innesta la lezione di Seneca – di soddisfare il palato con gli alimenti basilari:
Quando uno del gregge di coloro che sono vergognosamente servi del loro ventre – la parte più ignobile del corpo – ti chiese ridendo cosa tu mangiassi, tu rispondesti: «Pane e polenta». E quando poi ti chiese cosa bevessi, gli mostrasti il pozzo […] «Non sono cose deliziose in se medesime l’acqua, la polenta ed il pane d’orzo, ma è vera felicità il saper trarre piacere da ciò che nessuno può toglierti» [Seneca, Ad Luc. 18, 10]. Ed altrove non già il ricco re di Pergamo, che avrebbe per avventura pensato tutto il contrario, ma quel povero amico di Seneca, che fu Attalo: «vuoi veramente esser ricco? impara ad accontentarti del poco, e magnanimo esclama: «Se abbiamo acqua e polenta possiamo contendere a Giove stesso la palma della felicità».
3. Arrivo del mais. Trionfo interclassista e radicamento territoriale della polenta
Sol tra' villaggi, inonorata e vile;
E da le mense nobili sbandita,
Cibo fu sol di rozza gente umile:
Ma poi ne la città, meglio condita,
Ammessa fu tra 'l popolo civile;
E giunse alfin le delicate brame
A stuzzicar di cavalieri e dame.
Giunse il gran piatto adunque; e fece in fretta
Aprir la bocca, ed inarcar le ciglia:
Né solo giunse già; ché seco eletta
Venne d'augei multiplice famiglia,
Altri selvaggi, ed altri da civetta,
Ma buoni e cucinati a maraviglia.
Chi gli assaggiò vi dica il lor sapore:
Tocca il fumo a' poeti, e il solo odore.
Questi versi di Clemente Bondi (1742-1821), che al Leopardi non spiacque di inserire al posto CXCV della sua Crestomazia poetica (una antologia dei brani migliori della letteratura italiana), costituiscono la parte finale relativa alla preparazione della polenta nel poemetto La felicità (1776), composto a Mantova, dove si narra della giornata piacevolmente trascorsa da un gruppo di giovani in una villa di campagna. Non si troverebbe, credo, brano migliore per scavalcare l’epoca, antica e medievale, della polenta come cibo socialmente connotante e approdare invece a quella in cui diviene geograficamente connotato: da alimento ‘riempistomaco’ dei contadini a manicaretto (meglio condito!) sulle tavole dei borghesi lombardi e veneti, tanto che tutt’oggi gli abitanti del Meridione chiamano “polentoni” i cittadini del Nord Italia. Questo passaggio è icasticamente comprensibile se si accostano il Banchetto nuziale (1568) del fiammingo Pieter Bruegel il Vecchio, detto anche Pieter “dei Contadini”, con La polenta (1740 ca.) del pittore veneziano Pietro Longhi: il giallo e caldo impasto – vera e propria primizia in Bruegel – passa dall’essere agognato da una schiera di contadini pronti ad una rustica abbuffata all’essere contemplato con trasognata ammirazione da un singolo stomaco borghese, al momento dello ‘scodellamento’ sul tavolo. A lasciare ben sperare in un apprezzamento interclassista della polenta ci aveva già pensato, in tempi di idealizzazione arcadica della vita rustica, l’illuminata Accademia pisana dei Polentofagi, nella quale Domenico Batacchi (1748-1802) aveva chiamato a raccolta i più noti eruditi mangiatori di polenta; e l’esempio non rimarrà isolato, se alcuni decenni più tardi, a Parigi, il giornalista veneto Giacomo Capon, “Folchetto” (1830-1909), fonderà la società patriottica “Circolo della Polenta”, che ebbe come stemma un mosaico con una polenta dorata su un campo argentato, contornata da sei "P", acronimo di: «Per Patria Prima Per Polenta Poi».
A recare il suo omaggio alla polenta non poteva mancare, da bravo veneziano, Carlo Goldoni. Ne La donna di garbo, il suo Arlecchino, costantemente affamato, è attirato irresistibilmente dal profumo della polenta fumante appena versata sul tagliere di legno, mangiando la quale sazia il suo appetito. Ne Il servitore di due padroni (II, 15), invece, spetta al bergamasco Truffaldino riconoscere e lodare l’odore della polenta, salvo poi scoprire, proprio lui per il quale la polenta dovrebbe rappresentare il ‘nonplusultra’, che il cibo da cui è stato attirato non è polenta, ma qualcosa di addirittura più buono:
Che diavolo è sto bodin? L'odor l'è prezioso, el par polenta. Oh, se el fuss polenta, la saria pur una bona cossa! Vôi sentir. (tira fuori di tasca una forchetta) No l'è polenta, ma el ghe someia. (mangia) L'è meio della polenta. (mangia)
Amore incondizionato per la polenta dimostra, sul finire del Settecento, anche il letterato Ludovico Pastò (1744-1806), che nel componimento I due brindisi le dedica un’ode nel suo dialetto:
La me piase dura e tenera,
In fersora e sula grela,
in pastizzo, in la paela;
Coi sponzioli, coi fongheti,
col porselo, coi oseleti.
Cole tenche, coi bisati,
co le anguele per i gati;
e po' insoma in tuti i modi
la polenta xe 'l mio godi.
Insomma, basta saperla condire, o, meglio, avere la possibilità di condirla a dovere, che la polenta diviene buona anche per le tavole dei ricchi, come dirà Giovanni Pascoli nel finale del suo poemetto Per casa (in Primi poemetti: La sementa). Qui, infatti, la madre dà questi ordini alla figlia in vista della cena: «E tu, mentr’io soffriggo uno o due spicchi / d’aglio trito, costì, su la brunice, / fa la polenta, buona anco pei ricchi, // quando s’ha un bocconcino che ci dice».
E in questa breve rassegna di encomi della polenta non può certo mancare un milanese. Quando l’ex cappuccino Costantino Longaretti regalò alcuni tordi a Carlo Porta (1775-1821), il poeta ebbe la brillante idea di invitare amici a cena e fare la polenta; il risultato fu davvero brillante e degno di essere eternato in una epistola in versi italiani (la numero 53 del suo “Canzoniere”) che contiene la precisa descrizione di una polenta e osei non ancora politicamente pregiudicata:
Grazie, grazie, o Reverendo,
De’ tuoi merli, de’ tuoi tordi,
Ma più ancor perché comprendo
Ch’io non sfuggo a’ tuoi ricordi:
[…]
Quanto ai tordi, quanto ai merli
eran pingui, freschi e sani
che una gioia era il vederli,
il palparli con le mani.
Ma la gioia la più intensa
quella che fu dei convitati,
allorquando sulla mensa
caldi caldi fur portati,
Volti in candide indumenta,
con lardosa maestà,
sedean sopra una polenta
come turchi sul sofà.
Altra concitata lode della polenta, che fotografa anche i successivi convulsi stadi di preparazione di un impasto che pare prender vita, è contenuta nella commedia mai rappresentata Basi e bote (1881) del padovano Arrigo Boito (1842-1918), da cui si può imparare «L’arte di menar bene la polenta e de metterghe el pocio»; anche qui il dialetto sala il dettato come la lingua italiana non avrebbe saputo fare: «La canta, la ronfia la subia, la fuma / de qua la se s-gionfa de là la se ingruma. / El fogo consuma col vivo calor / le brombole in s-ciuma la s-ciuma in vapor. […] Dài! Dài! Dài! La broa, la scota! / Ahi! Ahi! Ahi! Me son scotà! / La xe cota! La xe cota, / sior Florindo, la se senta / che xe ora de polenta. / Dunque magnemola. / Ghe manca el sal …/ Sal de l'apologo / xe la moral .../ Eco: la spatola / la xe el mio estro, / la xe el mio genio / pronto e maestro; / e quel finissimo / fior de farina / vol dir Rosaura / e Colombina. / L'aqua brenta / xe el nostro cuor / e la polenta / la xe l'amor». (continua)
4. Ritualità domestiche
Ma la comparsa più celebre della polenta nella letteratura italiana moderna è forse nel VI capitolo dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, «perfetto conoscitore della storia agraria» (Messedaglia). Si tratta della scarsa «polenta bigia, di gran saraceno» (o “fagopiro”, che nel Seicento, tra i cereali, era uno degli ultimi arrivati) in cui i venticinque lettori del romanzo si imbattono con Renzo a casa di Tonio, che diventerà presto attore della memorabile notte degli imbrogli nel cap. VIII:
[Renzo] andò addirittura, secondo che aveva disegnato, alla casetta d'un certo Tonio, ch'era lì poco distante; e lo trovò in cucina, che, con un ginocchio sullo scalino del focolare, e tenendo, con una mano, l'orlo d'un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia, di gran saraceno. La madre, un fratello, la moglie di Tonio, erano a tavola; e tre o quattro ragazzetti, ritti accanto al babbo, stavano aspettando, con gli occhi fissi al paiolo, che venisse il momento di scodellare. Ma non c'era quell'allegria che la vista del desinare suol pur dare a chi se l'è meritato con la fatica. La mole della polenta era in ragion dell'annata, e non del numero e della buona voglia de' commensali: e ognun d'essi, fissando, con uno sguardo bieco d'amor rabbioso, la vivanda comune, pareva pensare alla porzione d'appetito che le doveva sopravvivere. Mentre Renzo barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la polenta sulla tafferìa di faggio, che stava apparecchiata a riceverla: e parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori. Nondimeno le donne dissero cortesemente a Renzo: «volete restar servito?», complimento che il contadino di Lombardia, e chi sa di quant'altri paesi! non lascia mai di fare a chi lo trovi a mangiare, quand'anche questo fosse un ricco epulone alzatosi allora da tavola, e lui fosse all'ultimo boccone.
A volte più mesta, altre più allegra, non c’è dubbio che intorno alla polenta si consumi un rito, si palesi un’etnografia, fatta di paiolo (spesso di rame), di filo per tagliarla, di intingoli, di attese fameliche, di intimità familiare, di rustica ghiottoneria.
Che con la polenta si potesse fare lirica, e financo elegia, francamente, non ce lo aspetteremmo. Ma ci sorprendono a questo riguardo i poeti Umberto Saba e Andrea Zanzotto. Il primo ci porta a considerare un aspetto rimasto inevaso della nostra rassegna sulla polenta, quello estetico; dal suo giallo canarino, in una dimessa Cucina economica (questo il titolo della poesia, contenuta nella raccolta Il piccolo Berto), scaturiscono inaspettate epifanie salvifiche («[…] In grande povertà anche è salvezza. / Della gialla polenta la bellezza / mi commuove per gli occhi; il cuore sale, / per fascini più occulti, ad un estremo / dell’umano possibile sentire»); in una prosa giovanile del poeta di Pieve di Soligo, Parlami ancora (1950), invece, la polenta si fa mediatrice tra l’anima e la memoria, in un turbinio di frammenti d’affetti e d’amore; alla bionda polvere di Cerere il poeta chiede di funzionare da madeleine proustiana e di suscitare ancora rustiche, dolcissime, intermittenze del cuore che gettino ponti sul suo piccolo mondo antico:
Io vi voglio ancora, mie mattine, voglio vivere, e nelle vostre ombre incristallite dal profumo della notte mi siedo tra i cespugli e intingo nello zucchero la fredda polenta, gelatinosa come torta di crema; e il mio cuore palpita più che per qualunque amore mentre essa e lo zucchero si fondono nella mia bocca e giù nel petto con l’anima dolente. O polenta e cannella. Cannella, tristezza, cannella, acre solitudine […] Parlami ancora di te, polenta, dimmi come mi proteggevi mentre per meglio assimilarti ti facevo a pallottole e ti stringevo forte nel pugno, e tu uscivi spiaccicata tra le dita, donde la mia lingua ti coglieva! […] Ma perché tu mai, anima mia, indugi tanto su questi ricordi? Vuoi forse, per loro mezzo, assicurarti che esisti, che sei sempre te stessa, vuoi che lo splendore mai del tutto offuscato della polenta ti riporti fuori dal vorticoso dissolversi del tempo?
Anche nel racconto Polenta e formaio zè bòn! di Mario Rigoni Stern (1921-2008) la polenta funge da finestra sul passato. Ma qui catalizza un dialogo intergenerazionale. Luisa, che vuole conoscere i luoghi dove il nonno ha fatto il partigiano mezzo secolo prima, si reca sull’altopiano di Asiago, nella malga Hotara, dove, assieme al fidanzato Franco, rivive le sensazioni del nonno e conosce le persone superstiti che con lui avevano combattuto durante la Resistenza. Attorno ad una tavola dove troneggia una polenta da accompagnare con delizioso coniglio e formaggio, sorgono ricordi che suscitano ora commozione, ora divertimento:
- Mio nonno Gigi mi diceva che un tempo si mangiava solamente polenta e formaggio. […] - Lo chiamavano Teròn, anche come nome di battaglia, perché era del sud. - Il Teròn! – esclamò il casaro. – Ci faceva ridere quando voleva parlare in dialetto. Mi diceva sempre: «Bocia, polenta e formaio zè bon, ma zè bon anche spaghetti con la pommarola ‘n coppa».
Testi
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