Alberto Natale - Percorsi infernali in Piero Camporesi

Il pozzo scuro della regione infernale è un luogo che Camporesi ha ripetutamente esplorato fin da quando il suo Carnevale, cuccagna e giuochi di villa (meglio noto come Il carnevale all’inferno) fu pubblicato, quasi trent'anni fa, nella rivista diretta da Raffaele Spongano, «Studi e problemi di critica testuale»[1]. Si trattava di una innovativa lettura della demonologia dantesca che - filtrata attraverso la prospettiva folklorica - permetteva di gettare più di una luce sui canti xxi e xxii della prima cantica, ricostruendo il senso, altrimenti sfuggente, della'farsa dei diavoli':

È l'inferno-carnevale della tradizione subalterna a sforzare la penna dantesca, una delle poche parentesi e figurazioni (ma non l'unica) in cui il lettore può assistere alla carnevalizzazione e alla trivializzazione dell'ideologia del perfetto meccanismo del castigo[2], una pausa, quasi un ripensamento nella geometrizzante e tassonomica struttura aristotelica e tomistica che caratterizza l'Inferno. «La "diversa cennamella" di Barbariccia segna il culmine della carnevalizzazione del canto xxi, inatteso finale a sorpresa che non ha mai mancato di stupire innumerevoli schiere di lettori e d'interpreti»[3].

L'inferno 'serio' e minaccioso scivola nella parodia, come attratto in un vortice visionario collettivo che sembra distrarre il Poeta dal suo personalissimo viaggio e parlare in sua vece; la caratteristica volgarità 'programmata' del rituale carnevalesco irrompe con tutto il suo clamore, ‘sforzando’ «la penna dantesca», e lasciando intravedere una sfilata di mascheroni peteggianti, giganti grotteschi e demoni scatologici, simboli mostruosi della fecondità e della rinascita secondo i tipici paradigmi di un’ancestrale ritualità agraria di inevitabile ascendenza popolare. Nella logica di 'inversione' propria del carnevalesco e del 'mondo alla rovescia' trionfavano il rimosso del 'basso corporeo', la frenesia della bestialità, i ludi viscerali espressi mirabilmente dallo stesso «squaquaratissimo, sloffeggiantissimo, ingordissimo, sfondatissimo diluviatore Signor Carnevale»[4], emblema del tempo rovesciato, del mondo a 'capinculo' in cui era prescritto di «sbevazare papare sgolazare squaquarare trachanare ingultire lecare stragualzare surbire et gualcire robbe delicate bone et sbilisighente»[5].

L'esaltazione del ventre e dei processi digestivi venivano calati in un tempo alterato, decisamente fuori giri ed esibiti in corteo da una chiassosa masnada comandata dal «Re de' Pazzi» - che trova un preciso riferimento in quel «Rubicante pazzo» d'Inf., xxi, 123 e nel manipolo diavolesco dai nomi di maschere grottesche: Calcabrina, Cagnazzo, Farfarello, Draghignazzo, etc.

In questa incursione all’interno dell’opera forse più canonica della letteratura universale emerge con chiarezza quale fosse il metodo (filologico e antropologico) con il quale Camporesi conduceva le sue indagini testuali: ricordare che Dante, «pur accettando etiche aristocratiche e filosofie "superiori"» non poteva talvolta evitare il contagio della «demonologia "bassa" elaborata dalle plebi delle campagne»,[6] significa non soltanto collocare testi e autori nel loro inevitabile contesto di produzione, ma anche e soprattutto pagare un debito, spesso ignorato con cinica disinvoltura dagli studiosi di letteratura, riconoscendo l’importanza dell'humus 'popolare' all'interno di un corpus di grande tradizione letteraria.

Camporesi, fin dal suo incontro col testo dell'Artusi[7], si era allontanato dalle abituali, confortevoli ma spesso segregate dimore dell'Accademia, e aveva cominciato a deviare dal percorso canonico in voga ai suoi tempi, da quell'analisi del testo visto come pura forma, che appariva ai suoi occhi come una soffocante e forse sterile prospettiva di ricerca, lontana dalla realtà della vita concreta in cui quelle umane avventure di scrittura e di rielaborazione del vissuto si erano pur formate e che ora, registrate su quegli antichi libri che egli frequentava con serietà e passione, gli restituivano (come amava dire) «l'odore dei secoli» permettendogli di cercare quel mondo che si celava dietro al testo. Il cammino intrapreso si dipanò per trent'anni lungo sentieri scarsamente esplorati ma ricchissimi di suggestioni: quel muoversi in limine tra letteratura, storia, sociologia e antropologia improntò la cifra stilistica e poetica di un autore sempre più propenso a indagare il processo di formazione dei testi quasi fossero prodotti collettivi di una comunità culturale, pur rappresentata, a seconda dei casi, nelle sue varietà, singolarità, stratificazioni e contrapposizioni, attraverso una tavolozza ricca e composita di autori.

Se si dovesse definire la cifra distintiva dei percorsi di ricerca di Camporesi si sarebbe tentati di fissarla in una semplice congiunzione, tra, sottolineando la libertà di movimento che il termine consente nella lingua italiana, senza vincoli tra numero e posizione degli elementi congiunti a differenza di altre lingue (come accade a between e among per l'Inglese o entre e parmi per il Francese). Si tratta quindi di una trasversalità che non necessariamente rappresenta un punto mediano tra diverse sfere del sapere, un percorso sul filo del rasoio che richiede maestria e umiltà, e che non può assolutamente essere intrapresa senza l'ausilio di un eclettismo sostenuto da conoscenze attinte da fonti certe e solide. La formazione stessa di Camporesi è trasversale, e inizia con gli studi di medicina prima di approdare alla filologia letteraria: la sua esperienza successiva risentirà costantemente di questa duplice predilezione, consentendo di inserire la sua opera tra i maggiori contributi del Novecento volti a sgretolare il muro medievale che ancora separa trivio e quadrivio.

Come dichiarava lui stesso, il suo metodo «non discende certo dall'idealismo crociano, ma dalla grande tradizione positivista, spesso trascurata, che ha avuto anche l'Italia: per fare dei nomi, D'Ancona, Novati, Ludovico Antonio Muratori. Non l'Italia delle parole insomma, ma quella dei fatti e dei documenti»[8].

Un itinerario affascinante che si muove tra scienze del corpo e letteratura dunque, ma anche tra storia e cronaca, tra società e individuo, tra cultura materiale, religione, antropologia e mitografia, tra corpo e anima, tra arte e mestieri, tra cultura popolare e cultura d'élite. Anche se il tempo della sua indagine è focalizzato principalmente sull'arco storico tra medioevo ed età moderna, la prospettiva di lungo periodo gli permette di produrre una visione complessiva e globale della sfera intima dell'uomo europeo, quando non universale. Nella sua capacità di restituirci un trattato iconologico della vecchia società, attraverso le invarianze dei grandi temi della natura umana (l'alimentazione, la percezione del corpo, il laboratorio dei sensi), Camporesi riannoda i fili che permettono di scorgere una trama unitaria e di riconoscere la funzione maieutica svolta dal passato nei confronti del presente, secondo un processo non tanto di ricostruzione, quanto di svelamento.

Il suo interesse è sempre concentrato sulla materia, sia rappresentata nella dimensione corporea degli uomini - nella girandola della sua percezione, del suo governo e delle sue trasformazioni, un corpo che vive la realtà dei tempi, ma anche un corpo che sogna - sia delineata come sfondo nel quale le attività umane si svolgono, nel mondo della vita quotidiana di borgo, città e campagna, nella dialettica dei mestieri delle acque e della terra, nella geografia mentale di una sensibilità umana plasmata da una realtà dura e scabra, generatrice di ansie escatologiche, ombre, insicurezze, paure.

Nell'attraversare questo territorio smisurato e viscoso Camporesi non rifiuta nessuno strumento di indagine, proveniente dai più diversi ambiti scientifici. Tuttavia rimane sempre viva in lui l'esigenza di far parlare i testimoni, le sue fonti, i colti e gli incolti, gli scienziati e i 'filosofi', i cronisti, i diaristi, gli artigiani della penna e gli accademici togati, privilegiando quella tradizione scritta che egli stesso, come ricorda Elide Casali - la sua più stretta collaboratrice - definiva «non propriamente letteraria»[9], ben consapevole che per comprendere appieno un'epoca è spesso necessario interrogare gli scrittori minori.

Memorabili sono certe sue pagine su grandi figure del passato, ritratti sulla scena del proprio ambiente contemporaneo: l'anziano Petrarca, ospite di un banchetto padano di corte, ossessionato dal cibo greve e delirante di una «tavola infernale fatta... su misura per carnivori sanguinari»10; Galileo invaghito della misteriosa idraulica vegetale della vite - distillatrice di nettare solare - che si rivela scienziato più propenso ad arricchire la cantina che la biblioteca; il medico scomunicato Fioravanti, ciarlatano per la scienza ufficiale, ma grande bonificatore e antesignano della moderna medicina.

Accanto a queste figure incontriamo però anche lo stuolo sterminato degli umili: «erbaroli», cerusici, levatrici, mammane, «mercuriali», «mulierculae», villani, norcini, pastori, capimastri, barcaioli, fonditori, mercatanti, che producevano sapere, spesso più di quanto non facessero i sapienti; cantastorie, cantimbanchi, «ciurmadori», accattoni, eremiti, preti di campagna, pellegrini, vagabondi, banditi, viaggiatori, osti, «guidoni»[11], che producevano una parte considerevole di quella 'cultura', fissavano stili e maniere della vita di piazza e di festa, riversavano il sentimento religioso fuori dei sagrati.

Una mescolanza di generi e di voci, «la piazza universale di tutte le professioni del mondo», l'immenso calderone della vecchia società dalla quale, dopotutto, ci sentiamo oggi indebitamente lontani, ma il cui svelamento ci permette di guardare con più acutezza e onestà intellettuale al nostro presente, di accorgerci delle continuità con il passato e di comprenderne le trasformazioni.

L'originalità di Camporesi non si limita alla pur stupefacente capacità di raccogliere materiale documentale, sottraendolo all'oblio dei secoli: tale sforzo sarebbe vano se fosse disgiunto da un metodo stilistico idoneo a renderlo visibile e plausibile. Ed è qui che il grande ricercatore dà forse il suo maggiore contributo. Camporesi riteneva impossibile che la ricerca fosse divulgabile, addirittura concepibile, senza l'influsso di una forte tensione creativa, senza un approccio alla materia non soltanto passionale, ma anche inventivo.

Per lui la ricerca scientifica doveva inglobare creatività e fantasia, nel massimo rigore metodologico e pur tuttavia sotto la guida di «suggestioni» ed «emozioni». E da ciò si vede quanto grande fosse la distanza che lo separava da quell'arida scrittura accademica, spesso asettica o addirittura respingente, che tutti conoscono, alla cui mancanza di brillantezza e passione sovente ci si inchina in nome di una presunta scientificità.

La sua prosa, nitida e scintillante, affabulante e immaginifica - ma dalla cui esattezza e precisione traspare sempre lo sguardo severo del professore - permette allo studioso di farsi scrittore, inventore di percorsi e non semplice mediatore di un sapere altrimenti ristretto all'ambito della bibliografia erudita o, peggio, ad un circuito autoreferenziale. La sua scrittura è densa, magmatica, opulenta, pur senza indulgere all'autocompiacimento.

L'equilibrio, quasi impossibile, si realizza attraverso una scelta lessicale sorvegliatissima, che rifugge dalla piattezza come dalla concitazione, dall'uso sapiente della citazione, sempre perfettamente inserita nell'orizzonte narrativo, in un impasto sonoro prima ancora che discorsivo. La terminologia del passato, delle fonti, luccica nella pagina - come direbbe Roland Barthes[12] - grazie alla scelta accurata dei due corni della parola: significato e significante.

Camporesi non rinnegò mai le sue origini di acuto filologo che gli permisero anzi di non perdere mai di vista le ragioni fondative del suo metodo di indagine, che miravano a far parlare i testi interrogati, a interrogarne la lingua, a svelarne le intime confessioni, per trasformarli in testimoni di un'epoca, spie di un pensiero profondo che traeva origine dalla materialità della vita e dalla corporeità degli uomini, attraverso pagine che sembravano scritte sempre sotto la dettatura dell'urgenza e del bisogno, dell'impellenza quotidiana e del «tempo breve», quasi a voler ricordare che la spiritualità delle forme nasce in primo luogo dalle necessità del corpo.

L'incontro di Camporesi con La scienza in cucina di Pellegrino Artusi avvenuto alla fine degli anni sessanta, rappresentò certamente una rottura rispetto ai canoni della ricerca letteraria a cui l'autore sembrava felicemente destinato. Eppure basta sfogliare le pagine del Camporesi ‘italianista' per rendersi conto che il suo peculiare punto di vista, quel suo guardare i testi in controluce rispetto alla loro letterarietà - destinato a divenire in seguito il suo inconfondibile marchio d'autore - fosse già presente e ben riconoscibile. Così scriveva, per esempio, nel presentare le Lettere inedite di Ludovico Di Breme nell'edizione einaudiana del 1966:

C'è un abisso tra la «plebe» dell'apollineo poeta delle Grazie, letterato «napoleonico» e umanista di vecchio stampo nonostante le pose eroiche e la ricercata eccentricità, che riservava alla povera gente unicamente «aratri, sacerdoti e carnefici», e la «società degli uomini» dibremiana; un abisso che sottolinea non solo il contrasto e la rottura fra i due amici ma anche gli ideali d'una generazione nuova che opera e soffre in Italia per l'Italia e che sceglierà l'esilio non per capriccio ma solo per ineluttabile necessità[13].

Come si può vedere il Camporesi moralista e sagace giudice di quelle qualità umane, che presto o tardi la penna degli scrittori insensibilmente rivela, lascia già presagire in quale direzione intendesse procedere, a quale serrato confronto con la storia e con la realtà quotidiana avrebbe sottoposto quei testi che sarebbero poi diventati i suoi più fedeli compagni di viaggio nel rivisitare il passato, rilevando nel contempo la necessità di ridare voce a quella «povera gente» che rappresentava in fondo la stragrande maggioranza di una società altrimenti informe, la massa pauperistica d'ancien régime destinata a parlare soltanto attraverso intermediari raramente interessati a comprenderne davvero le ragioni e le aspirazioni, convinti com'erano che il suo mondo dovesse limitarsi all'aratro e la sua educazione alle pastorali della Chiesa, pronti per contro a reclamare la forca ogniqualvolta essa non fosse rimasta al suo posto (richiesta che a dire il vero le autorità del tempo erano sempre disposte a soddisfare con grande liberalità).

Dare voce agli esclusi, tuttavia, non rappresenterebbe in sé e per sé una novità negli studi storici e letterari, e rischierebbe di esaurirsi (come spesso è accaduto e accade) in un programma di ricerca destinato a non andare oltre una generica dichiarazione d'intenti, se non si riuscisse a ricreare il mondo in cui quegli uomini vivevano. Viene da pensare al difficile rapporto del Pierre Menard di Borges con il capolavoro di Cervantes:

Non volle comporre un altro Chisciotte - ciò che è facile - ma il Chisciotte. Inutile specificare che non pensò mai a una trascrizione meccanica dell'originale; il suo proposito non era di copiarlo. La sua ambizione mirabile era di produrre alcune pagine che coincidessero - parola per parola e riga per riga - con quelle di Miguel de Cervantes[14]. (continua)

 

Note

[1] Piero Camporesi, Carnevale, cuccagna e giuochi di villa (Analisi e documenti), in «Studi e problemi di critica testuale», x, 1975, pp. 57-97. Il testo è stato successivamente ripubblicato in Id., Il paese della fame, Bologna, Il Mulino, 1978, poi Milano, Garzanti, 2000. Le citazioni sono tratte da quest'ultima edizione.

[2] Camporesi, Il paese della fame, cit., p. 29. .

[3] Ivi, p. 30.

[4] Giulio Cesare Croce, La solenne e trionfante entrata dello squaquaratissimo et sloffeggiantissimo Signor Carnevale in questa città, Bologna, B. Cochi, s.a., in Affanni e canzoni del padre di Bertoldo, a cura di M. Dursi, Bologna, Alfa ed., 1966, p. 119.

[5] Anonimo, Processo e confessione del squaquarante Carnevael, s.l.a. e n.t. [secolo XVI], c.2.v.

[6] Camporesi, Il Paese della fame, cit., p. 41.

[7] Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene (1891-1910), introduzione e note di Piero Camporesi, Torino, Einaudi, 1970.

[8] Pronto in tavola l'alfabeto della storia, intervista di Cesare Medail a Piero Camporesi, in «Corriere della Sera», 24 gennaio 1981.

[9] Elide Casali (a cura di), «Academico di nulla Academia». Saggi su Piero Camporesi, Bologna, Bononia University Press, 2006, p. 9.

[10] Camporesi, Le vie del latte dalla Padania alla steppa, Milano, Garzanti, p. 77.

[11] Il riferimento obbligato è a Piero Camporesi (a cura di), Il libro dei vagabondi, Milano, Garzanti, 2003. Prima edizione, Torino, Einaudi, 1973.

[12] Roland Barthes, Il piacere del testo (1973), Torino, Einaudi, 1975, p. 41

[13] Ludovico Di Breme, Lettere, a cura di Piero Camporesi, Torino, Einaudi, 1966, p. xxiii.

[14] Jorge Luis Borges, Finzioni (1944), in Tutte le opere, Milano, Mondadori, 19853, vol. i, pp. 652-53.