Strumenti e saggi di letteratura a cura di Gian Mario Anselmi
Rappresentazioni cinematografiche del cibo
1. Il rimosso della fame
Il terzo episodio del film Ro.Go.Pa.G. firmato da Pier Paolo Pa-solini (La ricotta, 1963) è una denuncia della decadenza morale dell’uomo contemporaneo. Il protagonista Stracci (Mario Ci-priani) è un sottoproletario perennemente affamato, ingaggiato come comparsa per interpretare la parte del buon ladrone in un film sulla Passione di Cristo, diretto da un pretenzioso regista (Orson Welles). Dileggiato e tiranneggiato da una troupe ridan-ciana e crudelmente indifferente alle sue esigenze di “povero Cristo” con la pancia vuota, non esita tuttavia a sacrificare il ce-stino del pranzo, che gli spetta come attore, per sfamare la sua povera e numerosa famiglia che è venuta a fargli visita sul set. Riesce con uno stratagemma a procurarsene un altro, ma ri-chiamato sulla scena è costretto ad abbandonarlo. Al suo ritor-no scopre che il pasto è stato divorato dal cagnolino della prima attrice. Si rende conto che l’animale interessa a un giornalista inviato per intervistare il regista e, fingendo di esserne proprie-tario, glielo vende per mille lire. Può così acquistare una grossa ricotta, che tuttavia non riesce a mangiare perché chiamato di nuovo a disposizione della troupe. Quando riesce finalmente a tornare nella grotta, dove ha nascosto la ricotta, la ingurgita in maniera parossistica, irriso dai tecnici di ripresa che gli gettano i resti del cibo avanzato dalla scena (già girata) dell’Ultima Cena. Giunto il suo turno di andare in scena, legato sulla croce, tutti aspettano invano che pronunci la sua unica battuta («Quando sarai nel regno dei cieli, ricordati di me!»): infatti, congestionato dal cibo con cui si è «strafocato», il povero Strac-ci è morto di indigestione. Senza ombra di commozione il regi-sta commenta così la misera fine del poveraccio: «Povero Strac-ci. Crepare... non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo...» . Nella metafora pasoliniana Stracci rappresenta il sottoprole-tario umiliato e sacrificato al capriccio borghese che attraverso una stralunata e personale passione testimonia l’incarnazione reale e contemporanea del Cristo: la sua grottesca maschera di “morto di fame”, crudelmente derisa e trattata da fenomeno da baraccone, mette in luce con crudezza il rimosso di un tempo remoto e senza storia nel quale la quotidiana lotta per procurar-si il sostentamento vitale non viene più ricordata con pietà e comprensione, ma al contrario risulta scacciata e svilita ed equi-parata a una condizione di vergogna.
Sergio Citti (autentico rappresentante del mondo di borgata e vero conoscitore dei morsi della fame – di cui ebbe esperienza diretta) si era cimentato nei film di Pasolini (in particolare Accat-tone e appunto La ricotta) come consulente e co-sceneggiatore soprattutto per ciò che riguardava la vita e il linguaggio del sot-toproletariato romano, temi che trasferì nelle sue prime regie (Ostia e Storie scellerate) incoraggiato dal suo stesso mentore, de-stinato di lì a poco a una tragica morte, ancora avvolta da miste-ri e depistaggi, proprio sul litorale di Ostia. Citti, dopo la morte dell’amico, fece ritorno al tema della fame con il film Due pezzi di pane, ma soprattutto con Il Minestrone (1981). Quest’ultimo si caratterizza come una favola surreale e bizzarra in cui la conti-nuità con le suggestioni di Pasolini è accentuata dalla presenza tra gli attori di Ninetto Davoli e di Franco Citti, fratello di Ser-gio e indimenticato protagonista di Accattone, per non parlare della sceneggiatura firmata insieme a Vincenzo Cerami, già assi-stente alla regia di Uccellacci e uccellini.
Naturalmente, data l’epoca contemporanea in cui il film è ambientato, il tema della fame non può essere inteso né come rievocazione, né come incongrua rappresentazione di una realtà esistente. Il motivo si dipana lungo un piano inevitabilmente al-legorico e si configura come un tentativo di realizzare «un film sulla fame come modo di vita», secondo quanto lo stesso regista ebbe a dichiarare. Nella pellicola vengono narrate le grottesche peripezie di uno stuolo di “morti di fame” perennemente fru-strati nella costante e infruttuosa ricerca di qualsiasi cibo capace di riempire un ventre sempre vuoto.
Il racconto si dispiega attraverso scenari ambientali degrada-ti in cui appare evidente il contrasto tra natura e modernità: dai palazzoni dormitorio della periferia romana, dove Giovannino (Ninetto Davoli) e Francesco (Franco Citti) rovistano senza successo nei bidoni dell’immondizia insieme al cane «Amico», fino ai paesaggi toscani deturpati da discariche, cumuli di im-mondizie e cataste di pneumatici abbandonati. Ma sono gli stes-si luoghi in cui i diversi protagonisti si incontrano e agiscono che sembrano voler denunciare lo stato di fatiscenza e precarie-tà a cui è destinata la vita umana. La cella in cui Giovannino e Francesco incontrano il «maestro» (Roberto Benigni) ricorda una prigione d’ancien régime; i quartieri romani dove cercano di mangiare a sbafo sono anch’essi squallidi e imbruttiti da cantieri in stato di abbandono; il viaggio involontario che i tre amici compiono da Roma a Poggibonsi avviene in un carro bestiame non molto diverso da quelli di inizio secolo; il solare paesaggio toscano in cui si svolge la ricerca della «trattoria ai cacciatori» appare incolto e polveroso, sfigurato da rifiuti e degradato a car-tolina anti-turistica, fra abitanti inospitali e grotteschi e cascinali in stato di abbandono; le campagne emiliane dominate da un padrone-latifondista rimandano ai tempi delle rivolte agrarie e gli sfarzosi interni della sua dimora, insieme alla tavola sontuosa e signorile, contrastano in modo stridente con gli esterni decre-piti e scalcinati; il pasto immaginario consumato tra i ruderi di una sedicente «trattoria al verme solitario» avviene in un litorale marino devastato e ingombro di macerie e residuati bellici; l’ospedale in cui il gruppo di “morti di fame” (nel frattempo considerevolmente cresciuto di numero, avendo accolto tra le sue fila reietti di varia natura) viene ricoverato per la lavanda ga-strica dovuta alla folle ingestione di propellente per razzi, sem-bra un ospizio per poveri, in cui i pazienti muoiono come mo-sche; la risalita della penisola, fino alle lande gelate e inospitali di un valico alpino, in cui si conclude la marcia senza senso della confraternita degli affamati – guidati da un allucinato santone armato di carrello per la fleboclisi anziché di pastorale (Giorgio Gaber) – si svolge fra cascine diroccate i cui abitanti, avviliti dal-la miseria e dalla mancanza di opportunità, non trovano di me-glio che aggregarsi alla processione di miserabili, sedotti dalla visionaria fede del santone per un «di là», «all’estero» che non verrà mai raggiunto, una terra promessa da cui, per contro, marciano in senso contrario altri derelitti privi di speranza. Citti sembra voler suggerire che la fame non ammette una vera condivisione e uno spirito solidale tra coloro che la soffro-no. Mentre nel suo film precedente Due pezzi di pane due amici come Pippo e Peppe, in cella, non hanno difficoltà a mescolarsi fra gli altri detenuti, semplicemente unendosi al loro canto, ne Il Minestrone perfino questa opportunità risulta impossibile. Quan-do Giovannino, Francesco e il «maestro» si incontrano in galera cercano anch’essi di ingannare il tempo cantando: ma ognuno intona una canzone differente e non condivisibile dagli altri. Il motivo dell’impossibilità di avere un’unica voce si ripete quando la torma degli affamati seguendo il santone alla ricerca della ter-ra promessa, si trasforma in una processione cacofonica in cui ognuno intona un proprio canto. L’unico pensiero condiviso che riesce a emergere dal gruppo esplode nel fatidico grido «c’ho faaame» che sovrasta per un momento la dissonante lita-nia dei pellegrini del cibo e a cui farà in seguito da controcanto la banda di ottoni che suona una marcia funebre tra le lande de-solate, innevate e sterili in cui si conclude il film.
Il patto di solidarietà umana, infranto dalle differenze di classe che dividono l’umanità in padroni affamatori (quelli che «mangiano e cacano») e sfruttati famelici (quelli che «non man-giano e non cacano»), non riesce pertanto a ricrearsi neppure tra i diversi gruppi proprio perché tali differenze degradano il mondo stesso allo squallido rango di «un cesso» in cui ognuno è assillato da urgenze esclusivamente individuali, e dove la solida-rietà umana appare come un lusso insostenibile e incongruo.
L’amara parabola cittiana, proprio perché irreale e allegorica, riesce a riportare alla luce gli aspetti più tipici della fame come fantasma antropologico, compreso il rimosso del cannibalismo a cui alludono Giovannino e Francesco, minacciando scherzo-samente (ma non troppo, dato il contesto) un loro compagno, il «cameriere» (Fabio Traversa). Allusione a cui segue un litigio per stabilire chi ha più fame tra i componenti del gruppo, lite futile come ricorda il «maestro»: «La fame non si misura. La fa-me è come l’onda del mare [...] viene e ritorna, viene e ritorna. Dopo un digiuno viene, e dopo, quando non mangi, ritorna. E poi la fame è un’impressione, è un vizio, un’abitudine, è un’illusione. Basta non pensarci [...] Bisogna pensare a un’altra cosa: alla pastasciutta per esempio. Non ci pensate. All’abbacchio. Niente, non ci dovete pensare nemmeno all’abbacchio. La fame è un’impressione».
Poche battute, ma illuminanti, per decretare lo statuto fanta-smatico della fame e al tempo stesso per materializzarne la sua cruda presenza, per incidere in un piano tipicamente onirico il doppio regime spettrale e mortifero della privazione del cibo, che rimanda direttamente al quadro stuporoso ed ebetizzante in cui sprofondavano i derelitti descritti nei documenti storici dei secoli passati o in cui si dibattono ancora oggi tanti individui anonimi, abitanti di quegli “altrove” fuori del mondo occidenta-le in cui la fame è ancora una triste e ben riconosciuta presenza.
Dopo aver più volte affrontato il tema del difficile rapporto col cibo del proletariato nelle grandi città americane, in particolare con Vita da cani (1918), Charlie Chaplin, nel più celebre film sul tema della fame, La febbre dell’oro (1925), prende spunto da una vicenda di cannibalismo probabilmente realmente accaduta nel 1847, durante la corsa all’oro della California, ma certamente trasferibile, pochi decenni più tardi, nel contesto del “Grande Nord” celebrato da Jack London e da altri scrittori americani, all’epoca della “febbre dell’oro” del Klondike, il territorio cana-dese della regione del fiume Yukon, ancora inesplorato, ai con-fini dell’Alaska.
La chiave comica che caratterizza le scene più significative non è certo nuova per poter affrontare un tema scabroso come la fame: le maschere della commedia dell’arte italiana, come Ar-lecchino e Pulcinella, sono pronte a ricordarcelo: si può esorciz-zare la fame soltanto ridendone e le radici del comico si sono costantemente intrecciate con i temi delle miserie alimentari, con gli appetiti carnali del basso ventre per cui lo stesso cibo ri-sulta erotizzato, al pari dell’altro grande tema comico-corporale che è quello della sfera sessuale.
La sequenza di Charlot che nel Giorno del Ringraziamento bolle uno scarpone per dividerlo con il compagno di sventura Big Jim, mangiandone i lacci come fossero spaghetti, tagliando la suola con squisite manières de table e succhiando i chiodi come succulente costolette, si contrappone, nella sua irresistibile co-micità, alla scena più inquietante nella quale, allucinato dalla fa-me, il compagno vede Charlot trasformarsi in un grosso pollo e a cui ovviamente tenta di tirare il collo. Il tragico epilogo viene evitato dalla provvidenziale comparsa di un orso, anch’esso af-famato, ma sicuramente meno inquietante: Charlot col fucile uccide l’animale impegnato a inseguire il compagno e così, con la provvista di carne fresca, svaniscono le tentazioni. Tutto il film si svolge all’insegna del cibo, fino all’altra indimenticabile sequenza della danza dei panini nella quale il cibo per l’ultima notte dell’anno (altra festa di riferimento per gli americani) è questa volta presente: quello che manca è la ragazza amata da Charlot, Georgia, in cui onore l’omino aveva preparato una ric-ca cena destinata purtroppo a rimanere solitaria. Il film di Cha-plin si presenta pertanto come un archetipo delle assenze fon-damentali dell’uomo: il cibo e il sesso.
Il motivo della fame è centrale in quella cinematografia che si ripromette di narrare, spesso in chiave politico-sociale, le condi-zioni di vita materiali dei diseredati come accade nel Cinéma Nô-vo brasiliano di cui registi come Glauber Rocha, Nelson Pereira dos Santos, Joaquim Pedro de Andrade e Ruy Guerra sono stati tra i principali protagonisti. Rocha, soprattutto con la ‘trilogia del sertão’ (Barravento, 1962; Il dio nero e il diavolo biondo, 1965; Antonio das Mortes, 1968), insieme a Ruy Guerra (I fucili, 1964) hanno trattato la materia inserendola in uno scenario fortemen-te epico e morale, caratterizzato dalla denuncia delle politiche neocoloniali destinate a produrre un desolante miscuglio di mi-seria, fame e violenza.
«Una cinepresa in mano e un’idea nella testa» ebbe a dichiarare Rocha per descrivere la poetica alla base del Cinéma Nôvo, una dichiarazione di fede nel realismo e nella possibilità di narrare la realtà attraverso lo sguardo indagatore e critico, straniante ma rigoroso della macchina da presa. Risultano evidenti le ispira-zioni del cinema neorealista italiano che era riuscito a stupire il mondo intero semplicemente portando l’obiettivo a scrutare le pieghe di una società ferita e confusa dalle contraddizioni inne-scate dai rapidi cambiamenti dell’Italia, da poco uscita dal deva-stante conflitto mondiale, un paese che da agricolo si apprestava a vivere la difficile transizione verso la modernità industriale: non a caso molte sono le riflessioni sulla fame che nei film di Rossellini, De Sica, Visconti e De Sanctis (solo per ricordare al-cuni autori) diventano occasioni per animare il dibattito politico sulle disparità di classe: memorabile è la sequenza di Ladri di bi-ciclette (1948) in cui il bambino Bruno, insieme al padre disoccu-pato alla ricerca della bicicletta rubata, mangia la sua mozzarella in carrozza osservato con sufficienza dallo sguardo profonda-mente distante di un suo coetaneo di una famiglia borghese, che sta consumando un consistente e ricco pasto nello stesso risto-rante.
Il grande Totò evoca il fantasma della fame in molte occa-sioni (indimenticabile è la scena degli spaghetti, mangiati in pie-di sul tavolo e perfino infilati nelle tasche nel film Miseria e nobil-tà (1954), commedia di Eduardo Scarpetta portata sullo scher-mo da Mario Mattoli, ma è tutta un’intera cinematografia comi-ca che comincia a mostrare nei tripudi della pastasciutta, e quin-di nella quantità esibita del cibo, che un cambiamento radicale sta avvenendo, che la fame è un ricordo ancora ben vivo, ma che una nuova era è alle porte, una felice stagione in cui pane e companatico non saranno mai più assenti sulle tavole del prole-tariato. L’epoca della carenza lentamente lascia spazio all’abitudine, all’evocazione del cibo esotico come sinonimo di scalata sociale: non si può non citare Alberto Sordi che nel film di Steno (Un americano a Roma, 1954) dopo aver tentato di ma-gnificare i cibi fatti conoscere dagli americani («yogurt, marmel-lata, mostarda [...] questa è roba che magnano l’americani, roba sana, sostanziosa») non sa resistere al richiamo di un piatto di spaghetti che aggredisce con la celebre battuta: «maccarone, m’hai provocato e io te distruggo; adesso maccarone, io me te magno». I tempi grami stanno ormai per terminare e con essi la penuria. Il cinema italiano comincia a invertire il registro e, spe-cialmente nelle commedie, inizia a celebrarne l’abbondanza, non senza una punta di incredulità, quasi a volere sottolineare una sensazione diffusa di scampato pericolo, di fine epocale della quotidiana lotta per mettere insieme il pranzo e la cena. Ma i problemi col cibo, con il trionfo della quantità, si presenteranno paradossalmente rovesciati appena due decenni dopo: con il film La grande abbuffata (1973) di Marco Ferreri lo spettro della morte torna ad aleggiare intorno al cibo, ma questa volta ciò ac-cade in nome del suo eccesso, della sua estenuata abitudine. Morire per troppo cibo diventa ben presto sinonimo di morte per noia, temi che anticipano i drammi individuali del nostro presente in cui il fantasma della fame trova nuovi travestimenti e nuove forme di incarnazione nelle patologie della bulimia e dell’anoressia, oppure si cela sotto le mentite spoglie del trash food, tema recentemente portato con successo al cinema da Morgan Spurlock con un documentario che denuncia le infauste proprietà del nuovo cibo dei poveri, ammannito dalla catena di fast food McDonald’s (Super Size Me, 2004).
Il fantasma della fame rimane comunque difficile da esorcizza-re. In tal senso risulta emblematica la vicenda portata sugli schermi da Sean Penn con il film Into the Wild (2007). La vicen-da si basa sulla ricostruzione giornalistica di Jon Krakauer, tra-dotto in Italia con il titolo Nelle terre estreme , in cui viene rac-contata la storia vera di Christopher McCandless, un giovane del West Virginia che, stanco della vita convenzionale e borghe-se, decide dopo la laurea di abbandonare la famiglia, intrapren-dendo un lungo viaggio di due anni attraverso gli Stati Uniti, ben saldo nel proponimento di sperimentare l’autenticità della vita libera – fuori dalla civiltà e dai condizionamenti della socie-tà civile – nelle terre estreme dell’Alaska.
Il viaggio on the road iniziato dal giovane Christopher nell’estate del 1990 si conclude con la sua morte nel mese di a-gosto del 1992. Spinto dal desiderio di vivere esperienze pure e incontaminate si addentra nei selvaggi territori dello Stampede Trail, ai margini del parco del Denali, desideroso di provare a se stesso la capacità di sopravvivere, contando soltanto sulle pro-prie forze, e di nutrirsi esclusivamente di ciò che la natura può offrirgli. Un azzardo incauto che si conclude con la morte per inedia dopo quattro mesi di vita solitaria condotta nell’estenuante ricerca di forme alimentari capaci di sostentarlo.
È significativo che sia il testo letterario sia il film tentino di stemperare la temeraria e ingenua avventura di McCandless, i-potizzando che la morte per fame sia avvenuta a causa di un er-rore compiuto dal ragazzo nel valutare la tossicità dei semi di patata selvatica con cui si era ridotto a cibarsi negli ultimi giorni della sua sfida. Il film propone direttamente l’avvelenamento come causa prima della morte; mentre il resoconto di Krakauer, più cautamente tende a considerarlo una concausa, secondo la quale l’intossicazione di alcaloidi contenuti nei semi avrebbe impedito al giovane di metabolizzare lo scarno vitto che pur continuava a procurarsi. Anzi, sull’onda dell’ampio dibattito se-guito sia alla vicenda, sia alla divulgazione romanzata, Krakauer rivede la sua versione e ipotizza che i semi (la cui tossicità era da molti ritenuta irrilevante) fossero contaminati da una muffa ve-lenosa. In realtà, entrambe le letture sembrano voler rifuggire la verità banale che si affaccia crudele dietro alla vicenda: la sotto-nutrizione unita al dispendio energetico sembra palesemente presentarsi come la causa più probabile della tragedia, la perdita di peso corporeo e la progressiva debilitazione sono cause scientifiche più che sufficienti per delineare un quadro di depe-rimento organico, la cui curva discendente – una volta raggiun-to il punto critico – è destinata a risolversi in una rapido crollo del metabolismo basale. Sotto questa luce la vicenda è stata indagata dal documenta-rista Ron Lamothe, che ripercorre le vicende di Cristopher McCandless, nel suo The Call of the Wild (2007) , nel tentativo di riportare la tragica avventura del giovane in un quadro di realtà, al di fuori delle contaminazioni romantiche che sono alla base delle letture di Penn e di Krakauer, entrambi vittime, probabil-mente, dell’esigenza più o meno consapevole di rimuovere dalla storia del loro personaggio acquisito l’ombra sinistra della morte per fame, lasciando intendere che è ormai divenuto difficile ammettere che il normale destino dell’uomo occidentale di oggi – orfano della cultura della fame, che significava grande capacità di adattamento – è quello di soccombere nella impari sfida con la natura indifferente.
2. Manifestazioni sociali e di status
La contrapposizione tra presenza e assenza di cibo, tra il mesto desco di quaresima permanente dei ceti popolari sottoalimentati e la vorace ostensione, spesso cacofonica e ridondante dei signori, messa in scena con un tripudio di vivande accatastate a sancire l’aspetto totemico del proprio rango sociale, è al centro di acute riflessioni da parte di Piero Camporesi sulle rappresentazioni dei differenti regimi alimentari delle due culture. Un vivido ritratto di un barbarico banchetto nuziale lombardo del 1368 possiamo leggerlo attraverso la testimonianza di un ospite imprevedibile: l’anziano Francesco Petrarca.
In una calda giornata di giugno si celebrarono gli sponsali tra Violante (figlia di Galeazzo Visconti e di Bianca di Savoia) e Lionello Plantageneto (duca di Chiarenza e figlio di Edoardo III re d’Inghilterra). Seduto al fianco del duca di Savoia il grande poeta, per natura schivo e parco di appetiti, dovette sopportare un interminabile pranzo di diciotto portate del tutto prive di minestre e zuppe che costituivano il suo abituale desinare: si incominciò con un’impegnativa doppia pietanza di carne e pesce a cui seguirono «due maiali arrostiti e dorati col fuoco in bocca e due storioni, pure addobbati con scaglie d’oro». Anche la seconda portata faceva ampio sfoggio di dorature: lepri e lucci sgargianti come si conveniva all’imperativo per cui «ogni cosa doveva sfavillare sulle tavole lussuriose dei potenti», come il grande vitello laccato e guarnito con trote dipinte d’oro che seguì qualche tempo più tardi.
Il poeta non riusciva tuttavia a comprendere quale bisogno ci fosse d’accoppiare la carne al pesce. Purtroppo in quel colossale banchetto dal quale la temperanza e la moderazione erano state proscritte, sedeva arrogante e cieca l’«abbondanza, anzi lo straboccamento»: ogni ordine razionale era assente, ogni ratio dietetica bandita. Quella tavola infernale era fatta su misura per carnivori sanguinari, per dispotici maniaci delle armi, per collerici baroni di sangue barbarico usi a trattare i contadini come vile canaglia e a svenare con tasse e balzelli villaggi e piccoli comuni. In fondo i veri lombardi erano loro, rampolli lontani della schiatta di Alboino, non il volgo disperso gallolatino, i discendenti dei conquistatori romani che dissetandosi con l’acqua e nutrendosi con le pappe di farro e di miglio avevano svenato infinite tribù di barbari urlanti gonfi di cervogia.
In effetti le portate che continuarono imperterrite a sfilare non fecero altro che seguitare a mescolare carni di diversa provenienza, cucinate nei modi più diversi, ma dispensate seguendo il medesimo assiomatico disordine: quaglie, pernici, trote arrostite, anatre, aironi, carpe, storioni (arrostiti e lessati), fagiani in galantina, tinche in agrodolce, bue bollito e sciroppato, capponi in agliata inzuccherati, pesci e capponi in «limonìa», «gonfi di latte» e «galleggianti in una salsa acida di agrumi ed agresto», pasticci di carne di manzo accompagnati da imponenti torte di anguille, gelatina di carne e di pesce, lamprede, capretti arrosto e agoni anch’essi arrostiti, pesci di lago in umido, carpioni, cervi, caprioli stufati, capponi e pollastri, lingua salata, pavoni con le verze, conigli, cigni, e ancora selvaggina di penna in ondate continue. Soltanto verso la fine comparvero le giuncate e i formaggi, ma nessun dolce. Il povero poeta, con il palato ustionato dal sale e dalle spezie, pur avendo evitato le libagioni dell’ambrata malvasia, desiderava più d’ogni altra cosa un po’ d’acqua da bere, che sembrava tuttavia quasi introvabile e poté ristorarsi soltanto quando, alla fine del banchetto, comparvero i frutti, in particolare le ciliege di cui era assai ghiotto.
La mensa viscontea con il suo retaggio barbarico indicava con chiarezza che lo scopo principale di tanta imbandigione non era certo il nutrimento, bensì l’ostentazione di ricchezza e potere (durante il banchetto sfilarono anche i doni nuziali, in un tripudio di levrieri addestrati, mantelli foderati di ermellino, armature cesellate in argento, selle decorate, bacili di pietre preziose, ori, perle, fino ai settantasei cavalli da guerra destinati ai baroni del Plantageneto). La mensa dei signori era fatta per stupire e per rendere palese il rango dell’anfitrione: per quanto riguarda i cibi, gli attributi si celebravano quindi attraverso la quantità e la stravaganza, in base a precise gerarchie che regolavano l’abbondanza della portata in base al grado e al rango del commensale, alla sua vicinanza di status con il signore, la cui posizione, anche fisica al centro del convivio, rappresentava l’epicentro dell’opulenza e dell’abbondanza di cibo servito. Per molti secoli i parametri di ostentazione alimentare e la bizzarria nel presentare le vivande (gli “effetti speciali” delle dorature, come abbiamo visto, eccentricità concepite per destare meraviglia e stupore) sono stati più che sufficienti per definire il rango sociale dominante: soltanto in epoche più recenti la conferma di appartenere ad un ceto superiore si è precisata nel senso del gusto e della raffinatezza, dando luogo ad una presunta cultura alimentare di élite, attentamente codificata nel suo galateo, nei civili conversari e nel “giusto” accostamento di sapori , non più figlio soltanto della rarità e dell’esclusività, ma anche della capacità di padroneggiare l’alfabeto del gusto e la grammatica della composizione di un pasto raffinato.
Il cinema è un luogo privilegiato che permette di osservare esplicitamente le funzioni codificate che il cibo assume nei contesti di rappresentazione di status sociale. Guardare con gli occhi è dopotutto la funzione principale richiamata da un tale cibo scenografico: depurati dalla carnalità degli odori e dei sapori di cucina (con le inevitabili distrazioni e sottocodificazioni che prenderebbero il sopravvento nel richiamare la corporalità dell’atto alimentare) gli alimenti che compaiono nei film assumono inevitabilmente una connotazione simbolica e cerimoniale, diventano parte attiva di un processo di spettacolarizzazione.
Ermanno Olmi ne ha dato un saggio particolarmente incisivo nel suo Lunga vita alla signora! (1987), in cui viene narrata l’iniziazione alla vita adulta di un giovane cameriere di umili origini e fresco di scuola alberghiera, Libenzio (Marco Esposito), che insieme ad alcuni compagni, crede di aver ricevuto in sorte l’opportunità di servire a una tavola delle grandi occasioni, mentre in realtà scoprirà soltanto ipocrisia e maniere grottesche di un consesso di alto lignaggio da cui si affretterà a fuggire, rinunciando agli equivoci vantaggi che gli verrebbero concessi in quel mondo stralunato. Il film di Olmi si svolge in prevalenza nel salone delle cerimonie di un sontuoso châteauhôtel della Valsugana, nel quale, come ogni anno, viene omaggiata una decrepita signora ultracentenaria, ospite d’onore del maniero e punto di riferimento incontrastato di una variegata congrega di nobili e personaggi altolocati che tramano sordidamente per entrare nelle sue grazie. Lo sguardo incredulo di Libenzio assiste al rituale dell’apparecchiatura del banchetto, ascolta intimidito le istruzioni dei camerieri capi che orchestrano, sotto la guida di una severissima direttrice, la liturgia delle raffinate portate da servire nelle tavolate, mentre dall’alto di una poltrona, che ricorda un palco teatrale, la velata e sinistra vegliarda si limita a sorseggiare qualcosa con una cannuccia d’oro, senza toccare cibo e sorvegliando i commensali con un binocolo, quasi a voler sottolineare la natura di rappresentazione drammatica che si sta svolgendo in quell’improvvisato palcoscenico in cui si è trasformata la sala da pranzo.
Il piatto centrale, perfettamente intonato alla personalità dell’anfitriona, consiste in un enorme pesce dalle fattezze antidiluviane, grottesco e mostruoso nella sua funerea imponenza, simbolo palese di un potere oscuro e latente che, come un leviatano fuoriuscito dalle profondità marine, incombe lugubre sui destini umani fin dalla notte dei tempi. La metafora di Olmi si presenta più propriamente come una parabola: un giovane umile siede alla tavola dei potenti, ma disgustato dalla loro ipocrisia, dalle pratiche umilianti che riservano ai sottoposti, dall’insieme cervellotico di regole e cerimoniali che ne governano i comportamenti – che restano pur sempre astrusi o meschini – decide di non farsi risucchiare in quell’universo malato e fugge alle prime luci dell’alba, riguadagnando la libertà e mantenendo se non altro la propria dignità personale.
Il tema dell’ipocrisia era già stato affrontato dal regista nel film Cammina cammina (1983), ma in quel caso la denuncia era rivolta alla casta sacerdotale e al suo sistema autoreferenziale, mentre in Lunga vita alla Signora! finisce nel mirino il combinato politico-sociale che sovrasta, con sovrana indifferenza, la vita stessa delle persone ritenute fuori della propria sfera di interesse e di appartenenza. Come Olmi ebbe a dichiarare, in un lettera aperta, il film è appunto dedicato «alla gente comune, a quegli sconosciuti che praticano in silenzio e senza riconoscimenti le piccole scelte di libertà».
La ricercatezza e la prelibatezza del cibo, la sua rarità (e quindi il suo costo), insieme alle regole per gustarlo adeguatamente (il bon ton che qualifica l’appartenenza a un ceto di fini degustatori, unici a poter apprezzare fino in fondo le qualità recondite della délicatesse cucinaria) sono naturalmente i tratti distintivi che caratterizzano gli atti alimentari della ricca borghesia francese e che vengono trattati con sottile ma feroce sarcasmo da Luis Buňuel, nel suo film forse più famoso: Il Fascino discreto della borghesia (1972). I luoghi del cibo (case, ristoranti, sale da tè) rappresentano il proscenio in cui viene recitata l’eterna commedia della celebrazione di status di una classe superiore, o che tale si ritiene . Il sestetto di protagonisti (i coniugi Sénéchal, i coniugi Thévénot, Florence – giovane sorella di M.me Thévénot – e l’ambasciatore di una “repubblica delle banane” (l’immaginario stato di Miranda), don Raphaël, passa pressoché tutto il tempo del film a riunirsi per mangiare, naturalmente con classe ed eleganza. I cibi che vengono gustati o menzionati hanno la funzione di «sottolineare il complesso di regole che governano i pranzi borghesi», al cui centro troviamo, come è ovvio, la ricercatezza, elemento essenziale che «impone la necessità di distinguersi nella scelta dei piatti» e attraverso cui «il pranzo diventa, più che espressione gastronomica, manifestazione di gusto e di potere economico, status symbol al pari degli abiti e delle auto» . Si parla di caviale (ma Monsieur Thévénot non lo ordina perché teme che al ristorante gliene servano poco e che sia di dubbia qualità: «il caviale, se lo voglio lo mangio a casa mia»; in seguito farà balenare agli amici un invito in cui degustare il suo caviale alla filière accompagnato dalla macedonia con vodka e acquavite preparata da Florence), di ostriche, di escargots, di luccio alla Nantua, razze al burro fuso, vol-au-vent alla finanziera, pâté di lepre (ma anche quest’ultimo piatto viene evitato al ristorante da François Thévénot, perché egli ritiene che di norma risulti troppo salato), fois gras, omelette aux truffes, pintade aux morilles e gigot d’agnello (in italiano tradotto con «coscio»). Tra le bevande figurano nobili vini rossi (Bordeaux e Bourgogne), oltre all’immancabile champagne, al Porto, al whisky e all’aperitivo per eccellenza: il martini dry. Proprio la preparazione di questo cocktail è al centro di una delle scene più celebri del film: oltre ai dettagli per una sua perfetta preparazione, Thévénot ricorda come deve essere consumato («si beve come lo champagne: va un po’ masticato») e a riprova di ciò che non si deve fare chiama l’autista di don Raphaël, il quale, «uomo del popolo» manifesta la sua ignoranza e la mancanza di cultura gastronomica svuotando il bicchiere con un colpo solo. Altri dettagli da gourmet traspaiono dal potage di primizie del suo orto preparato da M.me Sénéchal, dai suoi flageolets «con un pizzico di dragoncello», dagli appropriati tempi di cottura del suo gigot e dal modo corretto con cui Monsieur Sénéchal dichiara che è necessario tagliarlo prima di servirlo agli ospiti.
I richiami alla haute cuisine sono continui e insistiti, così come altri elementi caratterizzanti il buon gusto borghese (abiti, automobili, gesti e cerimoniali) ricorrono quasi in ogni scena: tutto sembra voler dimostrare «come solo i borghesi possiedano la competenza necessaria per gustare cibi e bevande nel modo migliore» . È quanto dichiara esplicitamente Monsieur Thévénot: «secondo me il nutrimento ha una grande influenza sul carattere..., sulla psiche dell’individuo. Eh sì, non c’è da fidarsi di chi non mangia bene». Eppure, nel continuo avvicendarsi di pranzi e cene in cui i protagonisti sono impegnati per tutto il film, non c’è nulla che fili liscio, nessun pasto che riesca a giungere correttamente a termine. A volte neppure si riesce a iniziare (come nel ristorante, dal quale il sestetto fugge dopo aver scoperto che, in una saletta attigua, era stata allestita la camera ardente del padrone, morto nel pomeriggio); oppure ci si interrompe già all’aperitivo (quando dai Sénéchal gli ospiti fuggono, temendo una retata della polizia). In un’altra occasione la casa viene invasa da soldati di cavalleria (il colonnello è una vecchia conoscenza dei Sénéchal) per improvvise esercitazioni militari; più avanti ancora un’irruzione della polizia interrompe bruscamente il pasto, arrestando tutti i presenti (l’ambasciatore e i suoi amici non disdegnano di dedicarsi a traffici di cocaina, complice la valigia diplomatica di don Raphaël). Perfino nella casa da tè (altro rito tipico della buona borghesia) le donne non riescono a consumare nulla perché, inopinatamente, tè, tisane e caffè sono stranamente finite già al mattino.
Anche nei sogni dei protagonisti (tipico retaggio del Buňuel “surrealista”) i pasti si interrompono bruscamente: invitati a casa del colonnello (dove aleggia un forte sospetto sulla qualità del cibo che verrà servito – e che si materializza sotto forma di whisky che sa di cola e polli di plastica) il sestetto (a cui si è aggiunta la singolare figura dell’arcivescovo che si è fatto assumere dai Sénéchal come giardiniere) si ritrova su un palcoscenico di teatro dal quale fugge vergognandosi, poiché come ammette Sénéchal, «non sa la parte»; nel secondo sogno a casa del colonnello il pranzo in piedi è interrotto da don Raphaël, che, insolentito dal padrone di casa circa i vizi del suo paese, spara al padrone di casa; l’ambasciatore sogna a sua volta una cena dai Sénéchal in cui una banda di gangster irrompe massacrando tutti, mentre lui, don Raphaël, rifugiato sotto il tavolo, tenta di con-sumare di nascosto l’arrosto tanto appetito. Buňuel, mostrando l’impossibilità di soddisfare i desideri elementari (anche gli appetiti sessuali vengono regolarmente frustrati e le occasioni per darvi sfogo, come per i pranzi, risultano turbate da imprevisti e impedimenti), sembra pertanto voler sottolineare l’inconsistenza di una borghesia che vive più di apparenza che di sostanza, condannata a indossare una maschera sociale che è destinata a cadere, nel momento in cui la realtà si affaccia alla sua porta, mettendone in luce i vizi e manifestando l’oziosa ostentazione delle sue virtù. Gli intermezzi che mostrano i protagonisti in cammino lungo strade di campagna, in frettolosa e sempre più stanca marcia verso una meta inconoscibile, sembrano a maggior ragione indicare un percorso esistenziale caratterizzato da una necessità e da un’urgenza che tuttavia appare priva di scopo e di significato; oppure una fuga inutile e sconclusionata verso una meta miraggio, stando alla citazione buňeliana (non l’unica) con cui Sergio Citti mette in eterno e inutile cammino la sua masnada di “morti di fame” nel già ricordato Il Minestrone.divenuto difficile ammettere che il normale destino dell’uomo occidentale di oggi – orfano della cultura della fame, che significava grande capacità di adattamento – è quello di soccombere nella impari sfida con la natura indifferente.