Marilena Giammarco - Giochi narrativi e seduzione del rosa: Liala e Delly

Nel grande specchio che la riflette, la sua immagine appare perfetta: l'ovale purissimo del viso accoglie splendidi occhi azzurri sotto la corona dei cigli scuri, una bocca morbida e sensuale si apre a un impareggiabile sorriso; fulvi, i foltissimi e lunghi capelli rimandano accesi bagliori; le larghe spalle, i seni saldi, la vita stretta sui fianchi ben modellati, le cosce oblique, le lunghe gambe dalle caviglie snelle, i piedi piccoli e perfetti disegnano lei, che immaginariamente si appropria di sé, del proprio io ideale, e nello stesso tempo si espropria, alienandosi nella lucida superficie di forme del fantasma esibito. Narciso trionfa sulla ribalta rosa del Novecento, affila le armi della seduzione irretendo nelle spire del testo-oggetto soggetti femminili che agognano a perdersi nella ricerca de1l'identità. Se, com'è stato scritto, la lettura è luogo dello sviamento, esperienza claustrofiliaca che separa da se stessi e dal mondo trascinando verso il segreto spazio di un senso non detto[1], lo specchio rosa - al pari di quello famoso di Lacan - può dunque funzionare da convincente paradigma dell'universo di finzioni in cui la pratica scritturale del gioco seduttivo, evocando l'assenza, proietta il solipsismo contemporaneo.
Il femminile «day dreaming» esecrato da Coleridge, sollecitato e incoraggiato dal novecentesco mercato editoriale come strumento di controllo delle turbolenze del nostro tempo, si nutre delle seduzioni rosa[2]: silhouettes patinate e fascinose; atmosfere afrodisiache; invitanti, inebrianti sinestesie; il gioco dell’eros strategicamente proposto - e avidamente fruito - nelle pieghe testuali. E tuttavia, oltre la giostra dell'immaginario, le sue scene mutevoli e sempre uguali, le replicazioni fantasmatiche – significanti - esca -, il desiderio della donna - Narciso è attratto dall'oblio, risucchiato nel fondo di una pagina – specchio - stagno - ove non trova che il nulla: l'abolizione di sé, la perdita dell'io.
La centralità dell'eroina marca questo genere narrativo del sogno-illusione d'un protagonismo femminile che, sia pur confinato in un universo circoscritto, è in grado di funzionare ad ogni latitudine. Nel cielo di stereotipi che concorrono alla definizione delle nuances di colore, l'orizzonte rosa accoglie esperienze diversamente riconducibili a modelli autoctoni di letteratura popolare (il gotico-sentimentale per la romantic-fiction delle inglesi «maestre d’amore››, il feuilleton ridotto e aggiornato in progetto moral-educativo nei Delly, il filone psicologico delle «romanzatrici» fin de siècle che, condito d'un pizzico di dannunziano estetismo, costituisce il precedente prossimo dell'opera di Liala): esperienze, tutte, perfettamente aderenti alle attese immaginative della donna occidentale, alle sue fantasie amorose segnate di masochistico piacere. Pur nel mutare – con i sistemi di valori elaborati dal contesto sociale di riferimento - dei canoni estetici e letterari, invariata resta, infatti, l’ideologia base del rosa, legata alla concezione di un antagonismo sessuale in cui la donna, rivendicate alcune proprie presunte dignità, soggiace felice - finalmente domata e assoggettata! - ai voleri dell’uomo-padrone. Sempre idolo al centro del rito erotico che si consuma nello spazio del testo, la protagonista rinnova ogni volta, attingendo a un cospicuo repertorio di invarianti, i requisiti che la rendono inequivocabile, plurivoco oggetto di desiderio.
Nella favola di Delly, strutturata dal rigido codice del romanzo popolare secondo il classico schema della ripetizione del sempre uguale[3], il rosa dell'eroina sfuma nel bianco degli angeli di bontà di suesca memoria. Principale condizione statutaria, la verginità si accompagna di inalterabile purezza, abbagliante candore, fresca ingenuità o, anche se insaporita di provocante sensuale gaiezza, si sposa sempre alla virtù redentrice di una celestiale bellezza capace d'intenerire il cuore rude e sprezzante di qualsivoglia principe Ormanoff provi a imbattersi sul suo cammino. La giovanissima fanciulla in fiore del rosa francese - povera orfana sola al mondo - ha dalla sua il dono di un'incontaminata innocenza che eccita perché va iniziata alla vita (e al sesso), plasmata e modellata secondo i piaceri del tiranno che, appunto per questo, la prende in moglie.

            Era una creatura incantevole. Il suo volto indicava il vero tipo circasso, sebbene i lineamenti non ne fossero ancora del tutto formati, poiché essa usciva allora dall'adolescenza, e i capelli neri, morbidi e soffici, le ondeggiavano ancora sulle spalle come quelli di una bambina. [...] occhi da orientale, grandi, meravigliosi, il cui sguardo aveva la dolcezza di una carezza e il fascino squisito di un candore, di una delicatezza d'animo che nessun alito deleterio era giunto a sfiorare. Quali promesse d'ineffabili voluttà cela tale angelica figura! Ritratto-tipo, l'istantanea di Lisa di Subrans che pone il candido e soffice manto di volpe sull'abito da sposa morbido, guarnito di evanescenti, splendide trine... Come nuova Cenerentola, l’eletta creatura può legare a sé per sempre, attraverso la virtù cristiana, il cuore del suo principe: avvincente modello di schiava-regina che autorizza e nobilita il sogno ad occhi aperti di fanciulle frustrate, appagate - per un’ora - nei loro insoddisfatti desideri[4].

Mero e schietto strumento di seduzione, la bellezza in Liala conta come valore in sè. Vergine languida, sempre intenta a rattenere i fremiti della passione, l’eroina italiana ha un corpo di carne mille volte ostentato, guardato, maliziosamente gustato:

            Si guardò a lungo, mirandosi dalle gambe affusolate all'inizio della coscia forte ma non grossa. Scrutò la statuaria linea delle spalle, l”attacco dei suoi alti e fiorenti seni. E poi volse la schiena e si guardò così, stando col viso girato di profilo. E non pareva ancor soddisfatta e con atto rapido sfilò la sottoveste e rimase in brachettine. Lievi, piccine, candide, le piccole cose femminee avevano ciascuna un serpentello di pizzo che saliva lungo il corpo. E dai rettili di trina traspariva la pelle scura, così che pareva, ogni poco, veder guizzare il serpentello mirabilmente lavorato. Il busto nudo, polito, levigato, saldo e snello a un tempo si rifletteva nello specchio e la luce che colpiva alle spalle la fanciulla la proiettava sul cristallo[5].

L'iteratività strutturale della regina del rosa nostrano si annuncia con ostinata pervicacia nelle innumerevoli descrizioni di lei, della sua avvenenza, del fascino incomparabile, ripetutamente focalizzati da una sapiente regia narrativa che moltiplica i punti di vista. All'ottica della narratrice, sempre pronta a non disgiungere bellezza ed eleganza,

            Era stupenda di furore con quel suo viso dall'ovale puro, con quei suoi occhi azzurri dove il bianco ricordava l’incorruttibile smalto di certi gioielli antichi. Ella indossava un abito di cuoio, color viola, a giacca. Aveva scarpe uguali all'ab1to, non portava cappello ma al collo aveva un fazzoletto viola a enormi punti bianchi. Bianchi erano i guanti sportivi, aperti su le nocche, adatti quindi alla guida della automobile[6],

risponde l’incantata ammirazione di lui, la sua stupefatta bramosia:

            - Bella - mormorò lui guardandola tutta. - Mai veduta una donna così in nessuna parte del mondo[7].

            - Divina! - disse lui mentre gli occhi lucevano fra ammirati e commossi[8].

Bellezza davvero straordinaria, dunque, più volte confermata e sottolineata, oltre che dall'incessante contemplarsi allo specchio della protagonista medesima, dagli sguardi rapiti di un buon numero di osservatori esterni:

            Sogguardò Altera che stava ritta davanti lo specchio. Vide la figura alta e stupenda di lei, le lunghe, meravigliose gambe. Strinse un poco le labbra: sapeva, Lella, di essere molto, molto attraente, ma si rendeva conto che Altera lo era di più e soprattutto aveva maggior classe[9].

Assediata e stordita da tanto profusa rappresentazione di grazie, la lettrice è invitata a misurarsi col proprio personale narcisismo e, come Lalla della nota «trilogia», riflettendosi, lo devia, lo proietta in figura mitica:

            A fondo della piscina era posto uno specchio nel quale Lalla si rifletteva tutta, nel quale si vedeva emergere simile a mitica creatura marina[10].

L'immagine speculare le rende, con la matrice simbolica del proprio io tramutata in oggetto di finzione, con l'istanza immaginaria verso cui tutta si protende, la grande illusione, il leurre.

 

Le atmosfere


Un magnifico viale di faggi conduce all'enorme cancello mirabilmente intarsiato in ferro battuto. Dietro, nel verde trionfo del parco, si erge incantevole la palazzina in stile secentesco coperta di marmo rosa, dagli interni adorni di meravigliosi affreschi e arredati con mobili preziosi; interni ovattati, morbidi di sete e di soffici tappeti, caldi del tepore di cento caminetti. Il Castello Rosa in cui regna sovrano Cristiano Debrennes, visconte di Tarlay e signore di Rivalles, è il classico prototipo della prigione d'amore: scenario privilegiato della letteratura rosa francese - come di quella inglese -, che stempera in atmosfere soft i cupi misteri della labirintica magione gotica. Tramutato in castello dei sogni, manipolato e contaminato da elementi fiabeschi, l'antico maniero del romanzo popolare conserva però intatta la stanza della tortura, ove il maschio crudele segrega la
donna che gli si ribella. Intercambiabili fondali variano solo all'esterno lo stereotipo figurativo delle opere di Delly (dalla solare campagna di Provenza ai tepidi soffi marini della Riviera, alle algide steppe di una Russia esotica ricalcata sugli stilemi della Cartland[11]), mentre dentro tutto concorre al supplizio-martirio della prigioniera, al suo finale cedimento amoroso. Aleggia nelle dimore rosa d'oltralpe  - sub limine, dissimulata nell'edificante facciata - un'aura sacrificale e quasi perversa che prepara al piacere attraverso il dolore, l'umiliante sottomissione della vittima al suo carnefice in un gioco amoroso ripetutamente rappresentato, talora variato con il ribaltamento dei ruoli. Le sensazioni che questi ambienti rimandano sono – per le vicende che vi si svolgono, più che per gli scarni dettagli iconografici - fortemente marcate di ambiguità: insidie e pericoli s’insinuano nella splendida cornice di un idillio da favola, celano trabocchetti gli splendidi saloni, l'inganno è in agguato dietro ogni angolo. Sempre taciuto, il mistero del sesso (supremo «tranello» teso alla candida fanciulla e «senso non detto» di ogni racconto rosa qualificabile come tale) trapela costantemente nel rito d'iniziazione che le pagine producono con la subdola complicità di atmosfere allettanti, persino afrodisiache per gli odori che emanano. Profumi di rose e di tabacco si rincorrono da1l`uno all'altro libro, ad alludere a un ben inebriante mélange: femminilità e virilità, alfine, indissolubilmente avvinti…

         Egli apri silenziosamente il battente d'una porta, e Lisa entrò in una stanza ancora sconosciuta per lei: una stanza molto grande, tappezzata di un meraviglioso cuoio di Cordova, con larghi finestroni adorni d'invetriate antiche. Le raffinatezze del lusso moderno ivi si univano a un fasto orientale in mezzo al quale alcune magnifiche pelli d’orsi neri e bianchi ponevano una nota quasi selvaggia. Nella calda atmosfera fluttuava uno strano odore: era un misto del profumo preferito dal padrone di casa, dell'odore del cuoio di Russia, delle emanazioni delle finissime sigarette turche, della fragranza inebriante che si sprigionava da fasci di fiori sparsi dovunque[12].

            Con passo ancora un po' incerto, ella salì lo scalino di marmo, e dietro il signor di Tarlay varcò la soglia della stanza a forma di rotonda, col soffitto adorno di meravigliose pitture dell’epoca del Rinascimento italiano. Sul pavimento lastricato di marmo rosa erano stesi tappeti antichi. Alcuni mobili preziosi, seggiole ricoperte di stoffe di seta veneziana, avori scolpiti, oggetti d'argento niellati, marmi che il tempo aveva ricoperti di patina, formavano il sontuoso arredo di quel ritiro dove fluttuava un lieve odore di tabacco fine, misto al profumo delle rose che ricoprivano le mura esterne del padiglione[13].

Lo strazio della sacrificanda nel percepire l'ossessionante eppur attraente olezzo del suo aguzzino è il segnale che la capitolazione viene solo differita; resa, in tal modo, ancora più eccitante[14].
Anche nelle sontuose dimore di Liala, l'aroma del tabacco funge da erotico leit-motiv, seducente richiamo che diffonde nell'aria la presenza dell'uomo. Ad esso fa da naturale pendant il profumo di donna, minuziosamente citato e celebrato nelle sue molteplici espressioni: talco e lavanda, saponette e lozioni deodoranti, sali e schiume da bagno, oli odorosi, acque da toletta, colonie, essenze raffinatissime e à la page. Maniacalmente varia è - com'è noto, un vero universo olfattivo! - la gamma di fragranze che sgorgano dall'inesauribile vena della scrittrice italiana. Dalla persona, il profumo si propaga agli ambienti, interni ed esterni, in un cocktail esaltante di rose e gelsomini, resine, zàgare e mimose, fino ai limoni, aranci e mandarini, com'è il caso-limite di un libro del '76 in cui, reiteratamente invocati e condensati, scorrono in rapida successione i mille inconfondibili odori della splendida terra di Sicilia:

            Sotto di lei vide palme, mimose e qualche cosa di bianco: stelle bianche su fondo oscuro. Si accorse che si trattava di una siepe di gelsomini stellati. Poi, di essi, le giunse il profumo acuto e dolce a un tempo [...]. Ma una notte così non l'aveva mai veduta. Quasi attratto verso terra dal gran peso delle stelle, il cielo si incurvava come un drappo che gonfio d'aria al centro si affloscia ai lati. E sotto quel cielo carico di stelle, si intagliava tutto un mondo fatto di piante e di profumi [...]. Tutto taceva e il silenzio era bellissimo. Come se venisse da un sonno profondo di tutte le cose terrene, come se ogni cosa, pur dormendo, sprigionasse il proprio alito profumato[15].

Il nitore - anche figurativo - del mondo lialesco espelle dunque il morboso tormento del rosa francese, annegando ogni ombra di perversione in un cosmo di buoni sentimenti che, invece, accoglie il languore come peculiare attributo di un'accentuata sensualità scritturale. L'elemento equoreo invade le pagine della Negretti, tanto da fungere da legamento tra dentro e fuori: dalle innumerevoli descrizioni delle abluzioni corporee delle protagoniste[16] ai paesaggi lacustri, tremuli per l’incresparsi dell'onde, la lettrice è immersa in un oceano di umide sensazioni ove le sue membra - oltre che a detergersi e a purificarsi... - ambiscono a sciogliersi, ad abbandonarsi senza riserve al flusso del piacere. Immancabile referente femminile, la luna accende e potenzia l'incanto di notturne atmosfere, complice allo sgorgare di sentimenti ed emozioni:

            Sul lago lontano, su la riva che di lassù pareva remota, il chiarore della luna dominava così che le luci artificiali smorivano [...]. Ma l'acqua era uno splendore. E pareva metallo fuso, mantenuto liquido da un gran fuoco invisibile. D'un tratto lei pensò: «In barca, con questa luna... Dio mio, come deve essere bello!» E la immaginò la barca: e d'un tratto si sentì diventare madida. Con gli occhi dell'anima l'aveva veduta quella vela, e a poppa erano in due, Giordano Fiume e lei, Denise Lorena. Nella notte, nella luna, su l'acqua che pareva metallo fuso e non sciabordava sotto la chiglia. Tolse i gomiti dal davanzale, si appoggiò con la spalla e la tempia allo stipite. Un languore grande la possedeva [...]. Lasciò persiane e vetri spalancati e si allungò ancora sul letto e le parve di immergersi in una luce liquida e le sembrò che un poco di quel lago lontano fosse salito fino a lei e in esso ella galleggiasse, beata[17].

Il compiaciuto indugiare su gesti, sensazioni, fantasie, appartiene, con il gusto del dettaglio descrittivo, allo specifico narrativo di Liala, e parte integrante della sua complessa strategia del ritardo, che, assecondando desideri e tendenze dell'immaginario femminile, mira a prolungare indefinitamente il piacere. Inoltre, perfettamente in linea con lo statuto del rosa, che vuole un mondo sempre «precisamente arredato per garantire la sua rispondenza al modello e dare, attraverso la reiterata descrizione figurativa, una sensazione di presenza, di contiguità fisica››[18], ella punta decisamente anche sull'icasticità dell'immagine, aggiungendo, nella sua infallibile ricetta, un pizzico di enfasi e più d'un tocco d'iperbolica espressiva.

Le delizie della scrittura


Non di sole sinestesie olfattive è costellato l'opu1ento dominio narrativo della scrittrice italiana: è l'intero apparato dei sensi a fare il suo ingresso trionfale nella pagina! Ed allora, scrivere deve corrispondere non solo a vedere, udire, odorare, toccare, ma persino a gustare. Per stuzzicare il palato (oltre che gli occhi, con la raffinata esibizione di splendidi serviti), Liala non esita a mettere in campo un doviziosissimo buffetdi ghiottonerie. Rinviando ad altre sedi la riflessione sulle implicazioni sottese alla tematizzazione del cibo e al suo valore simbolico (sull’asse cultural-letterario Rabelais-Camporesi), mi limito a fornire, come piccolo contributo a un'ideale officina dei sensi gustativi e in assaggio, uno dei menù-tipo:

LA PRIMA COLAZIONE
Vi era su quel tavolino quanto non avrebbe mai supposto che si potesse offrire per una prima colazione. Sugo di arancia e di pomodoro, listelle di miele compresso e profumato di mimosa, fette di composta di mele cotogne, biscotti casalinghi, torta ancora tiepida, burro a medaglioni, panna nel bricco, caffè tenuto caldissimo da una moderna macchina a spirito. E c'erano minuscole fette di pane a forma di foglia, croccanti. E uova immerse nell'acqua tiepida e un enorme grappolo di uva dorata[19].

L'APERITIVO
Su quel tavolino mobile, vi era quanto piaceva a Denise: aperitivo amarissimo, noccioline, salatini, piccole olive verdi, mandorle salate[20].

IL PRANZO
Tutto vestito di bianco, con bottoni e contraspalline filettate d'oro apparve il domestico che accompagnava Denise alla sua casa. Si inchinò. Il pranzo era servito [...]. Gli portarono su un vassoio d'argento alcuni panini tondi, dorati e croccanti [...]. Spezzò il pane, ne mise in bocca un pezzo, arrotolò sulla forchetta una fettina di prosciutto e la mandò a fare compagnia al pane. Il domestico mise sul piattino posato a lato del piatto una sottile e abbrustolita fetta di mollica. Doveva servire per il caviale. Giordano Fiume dichiarò: - No. La mollica mi ingozza anche se è tostata. E poiché il caviale mi piace, lo mangio come l'ho sempre mangiato. Su un pezzo di pane spalmò il burro, vi distese il caviale, lo spruzzò con limone, dichiarò: - È diventato biancastro. Segno che è squisito. Signora Miriam, non ho mai mangiato un caviale più fine di questo. - Prosciutto, caviale, salmone affumicato [...]. - Che vino! - dichiarò Fiume. Guardò la marca. Vino italiano di grandissima Casa. E vecchio di dieci anni [. . .]. Bevve un sorso di brodo, scartò quel dischetto di pollo. Divorò l'orata al cartoccio, l'arrosto alla panna. Rifiutò il dolce e mangiò una lucida mela[21].

L’INSALATA
- [...] La conosci l'insalata folle? No? Peccato, non conosci nulla di squisito. Si tratta di una cosa dentro la quale si metto; formaggio, pezzetti di noce, filetti di acciughe[22].

IL DESSERT
- [...] guardava ora a lei ora alla coppa che ella aveva davanti: Una stupenda coppa esternamente di argento, internamente di cristallo. E che il cameriere le aveva messo davanti colma di gelato e panna. Per gli altri, il dolce era differente. Era un leggerissimo dolce di farina e frutta: ma per Denise avevano fatto preparare quel grosso gelato e quella piccola montagna di panna[23].

 E ANCORA GELATO…
Apparve nuovamente il cameriere e servì gelati. Fatti in casa in modo meraviglioso, avevano la consistenza della famosa cassata siciliana, ma una raffinatezza di ingredienti quale mai Altera aveva immaginato. Non era ghiotta di gelati, ma quello che assaggiò la convinse ad andare fino in fondo[24].

LA MERENDA
Raggiunsero nuovamente la casa, presero posto in un salotto, dove tutto era già preparato sopra una tavola circondata da divani e poltrone. C’erano cioccolata, caffè, latte, aperitivi, dolci, salatini, creme, pistacchi, patatine, olive. E il servito era color avorio con bordi di oro zecchino e tovaglietta e tovagliolini di finissimo lino con ricami a punto raso. Ricami preziosi[25].

LA CENA...
- Tagliolini al consommé. Le piacciono? [...]
- Questo è arrosto ripieno di paté. Una specialità di casa Utz.
Ma credo anche tedesca [...].
- Pesce! L'immancabile pesce [...]
- Torta gelata - dichiarò.  – Squisita[26].

E IL CENONE
In quella specie di dispensa, su una tovaglia pulitissima anche se di cotone, cominciarono a venire deposte cose che Perpetua non aveva mai visto. Un pesce con gelatina, con rabeschi gialli, con un ciuffo di prezzemolo in bocca, con tante mezzelune di limone attorno. Un pesce che era lungo un metro e lei di così lunghi non ne aveva mai visti. Poi gli antipasti ma tutto coperto di carta d'argento: poi le ciotoline di caviale e i loro contenitori dove al momento buono si doveva metter ghiaccio: poi quella cosa a fette rosa che aveva odore di fumo e che le spiegarono si trattava di salmone autentico. Panettoni, una torta inspiegabile: pizzo con panna montata. Dolci. Quelli che parevano castagne li conosceva, ma quelli che parevano datteri con l'interno verde e che le dissero essere pasta di pistacchio, neppure sapeva come fossero [...]. I camerieri servirono i raviolini in brodo. Una raffinatezza [...]. Pesce: senza lische e tutti chiesero come mai. La spiegazione fu rapida e sufficiente e forse non ascoltata: vino bianco secco in bicchieri appena appena tinti di verde [...]. Involtini al tartufo: barolo vecchio, con il suo colore di rubino [...]. I formaggi e ve ne erano di francesi pregevolissimi, furono guardati con una certa indifferenza: la grande torta venne assaporata, il tradizionale panettone assaggiato: gran festa ai boeri con liquore forte, ai torroncini, ai datteri farciti. E giubilo per lo champagne rosato. Le frutta vennero trascurate anche se vi erano ananas freschi. Caffè, liquori…[27].

La seduzione delle vivande, esplicitamente rapportabile, nel testo rosa, alla fittizia costruzione di un universo che si propone come surrogato della realtà, è, come s'intuisce, regola non secondaria di un sottile gioco narrativo che assume la seduzione erotica come modello di riferimento neppure troppo recondito.

 

Il gioco dell’eros


Nel progetto seduttivo, che mira alla cattura finale dell’oggetto del desiderio, l'uomo e la donna non possono che essere inizialmente distanti; per il genere sentimentale, com'è stato accertato, il contrasto tra i sessi si pone come condizione imprescindibile; rientra, infatti, trai piaceri della lettura immaginare nel gioco della finzione l'eroe e l'eroina scagliarsi l'uno contro l'altra, prima di pervenire all'appagante congiungimento finale. «Ma perché proprio l'ira (la hainamouration, l’odiammoramento di Lacan) deve essere fondatrice del genere? Perché di tutti i modelli di comportamento è la forma più vicina all’aggressione sessuale, senza esserlo, anzi ritardandola. Il ritardo, che in questi romanzi assume, oltre all'espediente canonico dell’incomprensione, del malinteso, dell'ira, quello originalissimo della buona creanza, funziona come figura, come grande metafora, di una concezione erotica storicamente se non biologicamente femminile, compiaciuta dei corteggiamenti, del gioco della seduzione, dei patteggiamenti e dei preparativi»[28]. Obiettivo e fine della seduzione, il sesso ne costituisce l'arcano, l'affascinante segreto: come la seduzione, il rosa occupa per intero lo spazio dei preliminari amorosi.
Il disegno narrativo di Delly (che ha come referente ideologico una forte conflittualità tra maschio e femmina, unita ad una visione marcatamente classista) prospera, come si accennava, sugli espedienti approntati dal classico feuilleton ottocentesco: equivoci, fughe, inseguimenti, ritrovamenti, colpi di scena, agnitiones sono alla base di una tecnica che trova nell’intreccio l'àmbito in cui si dipana la schermaglia amorosa. La messa in moto dei più elementari meccanismi atti a scatenare l’immaginario erotico femminile si manifesta in modo esemplare in uno dei tanti testi passibili di essere assunti come campione: Mitzi. Il primo incontro trai due protagonisti, l'affascinante e nobile Cristiano Debrennes (prototipo di una virilità usa ad imporre sempre e comunque la propria volontà) e la povera orfanella, è decisamente definibile come uno scontro: la bimbetta finisce infatti imprudentemente tra le zampe del cavallo della di lui accompagnatrice, la bella e superba Florina. Non meno traumatico il secondo impatto (con la caduta di Mitzi dentro lo stagno), mentre il clou di queste iniziali e ancora innocenti ostilità è raggiunto quando il crudele visconte si diverte addirittura ad aizzare il suo cane contro l'indifesa fanciulla. Eppure, con il procedere delle pagine, l'avida lettrice è già avvertita che il gioco che più le piace sta per iniziare. Quando Mitzi, ormai giovinetta (fiore finalmente sbocciato e pronto alla vita sentimentale), torna, dopo l’educandato, come bambinaia a Rivalles, la tensione erotica comincia a farsi elettrizzante, con la lunga opera di conquista da parte di lui scandita dalle innumerevoli fughe di lei. Tra allusioni, ammiccamenti, sfioramenti da una parte e turbamenti, rossori, ritrosie dall’altra, un crescendo di fremiti riesce a mantenere costantemente attivo il desiderio, senza appagarlo; ogni gesto, minutamente descritto, è in grado di provocare sottili brividi di piacere:

            Il signor di Tarlay si voltò. Mitzi incontrò lo sguardo di lui, che parve prima sorpreso, poi subito molto interessato. - Ah, la piccola Mitzi diventata grande!... non sapevo che foste qui! - [...] Un’espressione allegramente ironica illuminava gli occhi turchini fissi su Mitzi con tanta insistenza che essa, arrossendo, abbassò i suoi, mentre un brivido di sgomento l'agitava. [...] Cristiano fissò di nuovo su lei lo stesso sguardo d'intenso interesse e di sconcertante ardire. Quando egli fu scomparso, Mitzi rimase a lungo sotto l’impressione di un profondo malessere, che risentì anche nei giorni seguenti quando col pensiero tornava al signor di Tarlay, rievocandone, senza volerlo, l’elegante figura, il bel volto i cui lineamenti si erano fatti più virili in quei cinque anni, e gli occhi magnifici e imperiosi, che ella temeva di rivedere[29].

Precisamente a metà libro si colloca il tentativo di seduzione, classica ed esplicita dichiarazione di possesso del padrone sulla serva, dunque del potere maschile sulla storica soggezione femminile. Delineata con magistrale sapienza, la scena si svolge in un susseguirsi di accelerazioni (date dai dialoghi concitati che, immettendo direttamente nel cuore dell’azione, aboliscono la distanza narrativa e favoriscono l’identificazione) e rallentamenti (il soffermarsi sui particolari della sala: la volta, il soffitto, il pavimento, gli arredi, gli odori...). Dal malizioso alludere a Cappuccetto rosso (« - Avete paura che il lupo vi mangi? -››[30]), alle suadenti parole d’amore, alla vibrante gestualità («Con gesto agile e pronto, egli attirava a sé la giovane e avvinceva con le sue braccia le spalle frementi di lei»[31]), agli sguardi lusinghevoli di lui, ai sussulti di lei, fino al bacio arrischiato, è tutta un'inebriante cavalcata erotica, bruscamente interrotta (proprio sul più bello, of course!) dal violento schiaffo di Mitzi e da quella parola: «Vigliacco!››, che prelude all'inevitabile fuga dalla dimora-prigione. Un discreto intervallo narrativo occupa lo spazio tra la scomparsa della fanciulla e il suo ritrovamento: il racconto del temporale che si abbatte su Rivalles, lo svolgersi della festa nei saloni del castello, le riflessioni (uno dei rari squarci che Delly apre, talora, sull’interiorità) che focalizzano lo stato d’animo del protagonista, il rimorso, i suoi sentimenti ormai divenuti del tutto «puri» e «onesti». Una volta ripresa, Mitzi - secondo una prassi più che scontata - non può non cadere vittima di una grave malattia che, nel metterne seriamente in pericolo la vita (e lasciare così ancora in sospeso l’ormai prevedibile coronamento del sogno d'amore), consente al narratore di inserire una lunga parentesi sulle misteriose ascendenze della giovane. Quando, sopravvenuta la «miracolosa›› guarigione e accertata ormai la verità sulla nobile nascita della protagonista, tempo del racconto e successione degli eventi tornano a coincidere, ancora un malinteso determina la nuova fuga dell'eroina, questa volta definitivamente recuperata dall'eroe che, salvatala dai gravi pericoli che le incombono, la convince a diventare sua sposa. Ma la celebrazione del matrimonio non esaurisce l'orizzonte di attese della lettrice, che si appuntano oltre il rito liturgico e la conquista di un dignitoso status sociale cui la povera (ma aristocratica) orfana è ormai pervenuta; esse frugano verso quel «senso non detto» che è il perfetto congiungimento dei corpi, raggiungibile ora che la redenzione dell'uomo attraverso la donna-angelo ha reso possibile quello delle anime. In attesa dell'Evento, ecco allora Mitzi fuggire nuovamente, nel timore dell’amaro disinganno amoroso; questa volta, la fuga è dai propri sentimenti, che la condurrebbero ad amare il marito, ad abbandonarglisi senza più alcuna remora. Nonostante la vicinanza fisica che il matrimonio comporta, Mitzi continua infatti a respingere Cristiano: lo tiene lontano da se, lo lascia attendere, sempre rinviando l'appuntamento più importante. Ormai imminente, il cedimento dei sensi si annuncia con un ulteriore rito preparatorio: ancora un breve indugiare davanti allo specchio, e la donna finalmente si offre, spontaneamente...

            Ella si fermò in mezzo alla stanza. Più d’uno specchio rifletteva la sua immagine. Si vide snella, flessuosa nella vestaglia di seta bianca a righe d'argento, dalle lunghe pieghe morbide raccolte alla vita in una cintura di velluto turchese. E quasi non si riconobbe più in quella giovane donna dal viso roseo, dagli occhi splendenti, dal sorriso felice. Avvicinatasi a uno scrigno, prese un astuccio e ne tolse l’anello del suo fidanzamento. Quando l’ebbe in dito dette un profondo sospirò e di nuovo un'ombra velò il suo sguardo [...]. Si avvicinò a una delle vetrate aperte sulla terrazza. Ilaria era ancora tepida in quella serata di settembre. Mitzi fece qualche passo sul lastricato di marmo, volgendo lo sguardo verso una delle finestre vicine da cui trapelava una luce velata. Ella si fece ancora avanti e si trovò sulla porta dello studio di Cristiano [...]. Un lieve odore di tabacco fluttuava per l'aria. Sulla scrivania stava aperto un libro; le lettere arrivate con l'ultima posta erano su un vassoio. Parecchi mozziconi di sigarette erano ammucchiati nel portacenere d'oro cesellato [...]. Mitzi chiuse gli occhi. Già stanca, anche prima, la sua spossatezza si era fatta maggiore dopo la profonda commozione provata nel suo colloquio con Svengred. Cosicché, in quell'assoluto silenzio, si assopì. Quando, dopo poco, Cristiano aprì la porta, credé sulle prime di sognare. Mitzi.... era Mitzi? Lì nel suo appartamento? Al rumore della porta che si apriva, la giovane aveva aperto gli occhi. Trasalì, arrossì, e si alzò lentamente.
[...] La voce le tremava, ma i begli occhi in cui traspariva una commozione profonda, si fissavano questa volta in quelli di Cristiano.
[...] Egli parlava senza troppo sapere quello che diceva. E si avvicinava alla giovane donna, che ora gli sorrideva con un sorriso timido e tremante.
[...] Ella sorrideva sempre e il suo sguardo diventava ancor più soave, pieno di ardente tenerezza.
[...] Adagio adagio, ella si avvicinò a lui, e chinando la testa sulla sua spalla, disse sottovoce:
- Tu lo sai, perché, mio Cristiano. -
Egli la strinse tra le sue braccia, appassionatamente, mormorandole in un bacio:
- Eccoti dunque, fanciulla crudele e tanto cara! Finalmente
mi hai perdonato! – [32].

Su un bacio siffatto, non può che scendere la parola «Fine»; lo spazio del testo va chiuso. Il resto? È, ormai, affidato alla bianca pagina dell'immaginazione...
Il gioco dell’eros e l’emozione dell'attesa sono da Liala inseriti in un orizzonte testuale che si fa luogo di convergenza di due differenti ma omologhi piaceri: piacere di leggere e piacere di scrivere corrono su binari paralleli nei libri della Negretti; entrambe, autrice e lettrice, si crogiolano in un narcisismo scritturale - vero procedimento metaseduttivo - che attua la strategia del ritardo attraverso il compiacimento narrativo. Ai vivaci meccanismi della fabula, al variegato eppur lineare movimento di Delly, Liala oppone un mondo narrativo compatto, perseguito con un moto circolare per cui ogni cosa - anche i personaggi - è indotta a ritornare su di sé. Scrittura allo specchio che s’involve ripiegandosi, nutrendosi solo della propria autoreferenzialità. Sempre esile, addirittura sproporzionato in rapporto alla mole talvolta abnorme della narrazione, l'intreccio vive di pochi avvenimenti: uno schema di base in cui il confronto polemico tra l'uomo e la donna, assai meno accentuato che nel rosa francese e di tipo piuttosto psicologico-caratteriale, corre verso la pacificazione, non solo amorosa, ma anche interclassista (è l'utopia della conciliazione sociale a svelarsi ora, nella ricorrente, anche se non obbligata, «sistemazione» dell'eroina con il suo principe azzurro tutto moderno, spesso un borghesissimo industriale; e, ancora, alla morale rigidamente cattolica e conservatrice di Delly, la nostra scrittrice sostituisce un'etica dei buoni sentimenti che rende indistruttibili le ragioni del cuore). Nella sua smisurata espansione, lo spazio narrativo sembra voler differire ad libitum la conclusione: l'invito è a restare il più possibile insieme a sognare, nella complicità di reciproche blandizie che mimano cerimoniali erotici in cui è la donna ad avere la parte più attiva, sollecitata com'è a sfoderare tutto il suo fascino per conquistare l’amato. Non è certamente un caso se, delle centinaia di pagine che Liala copre con le pause descrittive, la gran parte siano dedicate al momento della toletta, dalla liturgia del bagno alla vestizione, con un'attenzione addirittura ossessiva per il guardaroba della protagonista, gli abbinamenti, gli accessori, i gioielli. Nei suoi libri (pur ricalcati sugli schemi consueti dell'approccio, delle schermaglie, delle lusinghe, del cedimento), l'autrice fissa il momento topico della seduzione nella fase della costruzione dell'immagine della donna, soggetto e insieme oggetto del rapporto d'amore:

            Aveva indossato il gran costume da sci che aveva confezionato per lei una famosissima sartoria italiana. Su calzoni aderenti, di un soave grigio argento, aveva un maglione stupendo, grigio argento anch'esso, intessuto, qua e là, d'argento. Come se piccole gocce di pioggia, cadendo, si fossero fermate fra la lana soffice a cercare calore. Una giacca a vento anch'essa grigia come i calzoni, aveva una bordura al cappuccio di zibellino. Una bordura sottile, preziosa, che rendeva lussuoso quell'equipaggiamento come un brillante raro rende prezioso un diadema semplice. Gli scarponi erano grigi, il volto ansioso[33].

            Fece chiamare il parrucchiere dell'albergo, gli disse: - Una acconciatura alta, per favore.
Rapidamente l'uomo le preparò una pettinatura altissima, alla quale i duttili capelli fulvi si prestarono subito, accettando ogni voluta, ogni piega, ogni costruzione. Poi, come il parrucchiere se ne fu andato, indossò l'abito verde, come aveva annunciato a Godma. Era un tubino di verde laminato. Semplice e diritto sul davanti, raccolto in drappeggi che si partivano dalla grande scollatura, scendevano, si ripiegavano sotto la gonna. Così che l'abito, dietro, pareva un ventaglio aperto con l'ampiezza in giù. Infilò il grosso anello di smeraldi. Prese la borsetta di laminato verde, buttò su un braccio il bolero di zibellino. Le scarpe erano due listelle verdi, di stoffa opaca, con tacchi altissimi e straordinariamente sottili[34]>.

Ma gli infiniti esempi che sul tema ancora si potrebbero addurre (tanti da riuscire a riempire, siano pur tratti da un unico romanzo, interi campionari di qualche multinazionale della moda) non valgono, tuttavia, solo a confermare l’interesse per la seduzione del corpo come manifestazione dell’apparire; documentano, altresì, la coazione a ripetere che vi è sottesa (e il vuoto cui essa rimanda): gusto di se nella moltiplicata riproducibilità del sembiante, che occulta e mistifica la perdita dell'essere. Così, l’iteratività della sua penna Liala riesce a giocarla a diversi livelli, sin da quello minimale delle microstrutture di frasi e periodi, ov’è spesso riscontrabile una ripresa, in contiguità o a distanza, di frasi, espressioni, verbi, aggettivi. Eccone un test piuttosto eloquente:

            Guardò suo figlio: bello, giovane, sano, pulito. Intelligente. Ricchissimo. Aveva tutti i numeri per essere assalito dalle donne. Aveva tutti i numeri per essere ingannato come lo era stato lui: perché anche lui era stato bello, sano, pulito, ricchissimo[35].

La stessa ridondanza quantitativa degli aggettivi (è «bello››, o meglio «bella» con tutti i suoi superlativi, a prevalere, naturalmente, ma quasi sempre impiegato in pluriassociazione), oltre che alla dilatazione, serve alla circolarità della scrittura, che tende dunque a tornare e a incurvarsi, formando cerchi sempre più ampi laddove le ripetizioni si rincorrono in estensione[36]. Analoga funzione, sul piano macro-strutturale, rivestono le frequenti riprese, prossime e lontane, delle situazioni narrative. Per lo più focalizzando l'ottica femminile, Liala gestisce il ritardo con grande oculatezza e lo fa prevalentemente manovrando il tempo del racconto. Sul grado zero proprio delle tecniche paraletterarie, ella immette talora anacronie, con qualche digressione e lunghi monologhi, intervallando il racconto degli scarni avvenimenti con salti all'indietro della memoria che riconducono l'azione ad un tempo anteriore, anch'esso narrato con un movimento molto lento (tutt'altra cosa rispetto non solo ai famosi «sommari» di Barbara Cartland, ma anche alle tradizionali «parentesi» di Delly). In Lascia che io ti ami, tanto per fare un esempio, la storia sentimentale dell'attrice Maggiolè Far - quasi un racconto nel racconto -, riferita una volta in prima persona dalla protagonista, è replicata dopo circa un centinaio di pagine da un altro personaggio, in un incrociarsi a distanza di punti di vista anch’esso finalizzato alla concentricità narrativa. Le volute del testo, metaforicamente individuato come ambito preparatorio all'unione d'amore, risucchiano la femminile smania di perdersi - come in una sublimata pratica autoerotizzante - nell'estasi di eccitanti fantasticherie; un gioco accattivante subìto dalla lettrice in totale connivenza con l'autrice che ne detta le regole, attenta ad imporre i giusti ritmi, a dosare la distanza narrativa scaltramente alternando mimesi e diegesi, a prospettare il punto di incontro nelle soste contemplative della protagonista (quei colloqui interiori che, in forme davvero insolite per la letteratura popolare, realizzano nella sfera onirica del sogno ad occhi aperti l'asse d'identità):

            Di colpo i pensieri si fermarono ancora ed ella tentò di immaginarsi uomo, in calzoncini, accanto a Giordano Fiume, su la barca a vela. Non vi riuscì. Ma riuscì a mettere di lato a Giordano Fiume e su la barca a vela una ragazza: lei stessa. In calzoncini e maglietta, con i crespi capelli gonfi e sconvolti dal vento, la faccia bagnata dall'acqua e la bocca aperta in un risata felice. Accanto le sedeva lui, abbronzato, lieto, tranquillo, irridente ma non sarcastico. E insieme andavano nel sole e la barca era tanto piegata che la chiglia si vedeva apparire. Fischiava il vento nel fiocco, le sartìe erano tese, ci voleva gran forza per tenere il timone. La gran vela era gonfia, il mondo fatto di sole e di aria andava incontro a loro[37] .

Pur se nei pensieri sembra infine lui il terminale di ogni desiderio, amato o odiato, ma sempre vagheggiato, coccolato, cullato nella nicchia dei sentimenti:

            E allora ella pensò a Luciano Traldi. Così bello, così pulito, così asciutto. Alto, aitante, possente e slanciato a un tempo: ma senza un grammo di grasso. E con quella mano grande, ben fatta, virile, calda, piacevolissima da toccare[38].

            Luciano Traldi le passò negli occhi dell'anima. Così bello, cosi gentile, così maschio e pur così rispettoso. Luciano Traldi...[39].

o febbrilmente, ardentemente agognato:

            Luciano Traldi, con i suoi occhi malinconici, la sua bella figura, la sua inutile giovinezza era nella mente di Altera. E un sogno leggero ma ardente era dentro di lei. Una notte d'amore con Traldi. E poi... Una notte d'amore. La desiderava nel modo più completo lei che non aveva mai sognato una notte d’amore con alcuno[40].

            E pensò all'indomani notte, quando sarebbe andata da Traldi. Una febbre leggera, fatta di desiderio e di amore, le passò nelle vene. Il pensiero di quella camera dove ardeva un camino, dov'era un meraviglioso uomo innamorato che l'attendeva, le dava una specie di vertigine[41].

fatalmente il cammino testuale torna a ripiegarsi su di lei: il suo rendez-vous con il maschio continua ad essere una partita tutta solitaria. L’atto d'amore, suggerito e alluso, mai messo in scena, deve restare entro i confini, sia pur smisurati, della fantasia. E quando, non più differibile, sopraggiunge l'epilogo, ci si accorge che tutto si è, ormai, consumato in superficie
C'è il buio, oltre lo specchio.

 

Note:



[1]Cfr. G. Sertoli, «La seduzione della letteratura», in AA.VV., Letteratura e seduzione & Discourse analysis, a cura di T. Kemeny, L. Guerra e A. Baldry, Fasano, Schena editore, 1984, in partic. le pp. 31 e sgg., e E. Fachinelli, Claustrofilia, Milano, Adelphi, 1983. Mi libero qui, fornendo i riferimenti bibliografici essenziali (peraltro noti) relativi al rapporto letteratura-seduzione. Oltre ai testi «canonici›› di R. Barthes (Le plaisir du texte, Paris, Seuil, 1973 e Fragments d'un discours amoureux, ivi, 1977) e J. Baudrillard («L'horizon sacré des apparences», «Confrontation››, 1, 1974; De la séduction, Paris, Galilée, 1979; Simulacres et simulation, ivi, 1981; Les stratégies fatales, Paris, Grasset, 1983), cfr.: La séduction, a c. di M. Olender e J. Sojcher, Paris, Aubier Montaigne, 1980; Ipotesi di seduzione, a c. di P. Meneghetti e S. Trombetti, Bologna, Cappelli, 1981.

[2] Sul «rosa››, la bibliografia è ormai nutrita. Si vedano in partic..: L. Sughi, Evasione e conformismo nella narrativa rosa, Messina-Firenze, D’Anna, 1977; A. Arslan, Dame, droga e galline, Padova, CLEUP, 1977; Invernizio, Serao, Liala, a c. di M. Federzoni, I. Pezzini, M. P. Pozzato, Firenze, La Nuova Italia, 1979; F. Lazzarato e V. Moretti, La fiaba rosa, Roma, Bulzoni, 1981 ; F. Gregoricchio, Liala. Sulla scrittrice italiana più letta e popolare, Milano, Grammalibri, 1981; M.P. Pozzato, Il romanzo rosa, Milano, Espresso Strumenti, 1982; AA.VV., La vita in rosa, a c. di S. Mezzavilla, Treviso, Trevisocomic, 1983; II successo letterario, a c. di V. Spinazzola, Milano, Il Saggiatore, 1985; AA.VV., Maestre d'amore, Bari, Dedalo, 1986; A. Arslan e M.P. Pozzato, «Il rosa», in Letteratura italiana diretta da A. Asor Rosa, Storia e geografia, vol. III, L'età contemporanea, Torino, Einaudi, 1989; E.Detti, Le carte rosa, Firenze, La Nuova Italia, 1990; AA.VV., Donne e scrittura, a c. di D. Corona, Palermo, La Luna, 1990.

[3] In favore della tesi di una stretta dipendenza del romanzo di Delly dal feuilleton ottocentesco giocano molti elementi, tra i quali la sussistenza di personaggi contrastanti in toto, o buoni o cattivi, e la costante presenza dell'antagonista amorosa.

[4] M. Delly, Schiava... o regina?, Firenze, Salani, 1954, p. 6.

[5] Liala, Il velo sulla fronte, Milano, Sonzogno, 1952, pp. 83-4.

[6] Liala, Un abisso chiamato amore, Milano, Sonzogno, 1976, p. 5..

[7] Ibidem, p. 90.

[8] Ibidem, p. 197.

[9] Ibidem, p. 24.

[10] Liala, Il velo sulla fronte, cit., p. 84. La «trilogia di Lalla» include anche i romanzi precedenti Dormire e non sognare (1950) e Lalla che torna (1952).

[11] Oltre all'ambientazione di Schiava... o regina?, il riferimento a Barbara Cartland include anche la figura di Sergio Ormanoff, modellata sul ritratto dello zar Nicola I in The passion and the flower (trad. it. La ballerina e il principe, Milano, Mondadori, 1979).

[12] M. Delly, Schiava... o regina?, cit., pp. 170-1.

[13] M. Delly, Mitzi, Firenze, Salani, 1955, p. 164.

[14] «Allorché Marta consegnò la lettera a Mitzi, questa la tenne per un momento tra le dita tremanti, e sentì salire alle narici un lievissimo e delicato profumo che a un tratto le ricordò con straziante intensità la scena del padiglione. Poiché quello stesso profumo l'aveva respirato quando Cristiano, chinatosi verso lei per avvincerla, le aveva dato il bacio che le bruciava ancora la guancia. Ebbe un gesto di orrore, un lungo brivido percorse la sua persona... e con atto violento strappo il foglietto, lo ridusse in pezzi minutissimi che gettò via a caso. Poi, lasciandosi cadere su una seggiola, scoppiò in singhiozzi» (ibidem, p. 271).

[15] Liala, Un abisso chiamato amore, cit., pp. 224-5.

[16] «[...] scese nella piscina, aprì la doccia dell'acqua; volle una gradazione tepida. E lasciò che l’acqua scendesse sulle spalle, sul suo corpo, lungo le sue reni. Guidò il getto sulle gambe, e rise, rise divertita vedendo scorrere rivoletti lucenti sulla sua pelle bruna, lucida, monda» (Il velo sulla fronte, cit., p. 84). Che brividi di piacere, in queste righe!

[17] Liala, Lascia che io ti ami, Milano, Sonzogno, 1977, p. 110..

[18] A. Arslan e M.P. Pozzato, «Il rosa», cit., p. 1035.


[19] Liala, Un abisso chiamato amore, cit., p. 228.

[20] Liala, Lascia che io ti ami, cit., p. 17

[21] Ibidem, pp. 122-4.

[22] Ibidem, p. 148.

[23] Ibidem, p. 23..

[24] Liala, Un abisso chiamato amore, cit., p. l86.

[25] Ibidem, p. 215.

[26] Liala, Lascia che io ti ami, cit., pp. 73-4.

[27] Liala, Goodbye sirena, Milano, Sonzogno, 1977, pp. 95-6 e 101.

[28] D. Galaterìa, «Erotismo e buona creanza in Georgette Heyer», in Maestre d'amore, cit., pp. 65-6.

[29] M. Delly, Mitzi, cit., pp. 95-6.

[30] Ibidem, p. 164.

[31] Ibidem, p. 166.

[32] Ibidem, pp. 340-3.


[33] Liala, Un abisso chiamato amore, cit., p. 87.

[34] Ibidem, p. 89.

[35] Liala, Goodbye sirena, cit., p. 43.

[36] «Mima era bella, affettuosa,  appassionata» (ibidem, p. 193); «[...] vide Mima come ella era nei primi giorni dei loro incontri: bella, felice, luminosa» (p. 238); «A lui appariva soltanto Mima: Mima bella, ridente, e ardita» (p. 258)

[37] Liala, Lascia che io ti ami, cit., pp. 109-10..

[38] Liala, Un abisso chiamato amore, cit., p. 34.

[39] Ibidem, pp. 75-6.

[40] Ibidem, p. 82.

[41] Ibidem, p. 126.