Eleonora Conti - Dolciumi letterari

Come notava acutamente Alberto Savinio alla voce Dolce di Nuova Enciclopedia:

Il dolce non è propriamente un cibo. […]. Gli uomini privi di [...] fantasia tengono il dolce per un’aggiunta inutile, una superfluità, un lusso. Nell’ordine dei cibi il dolce tiene il luogo del vizio, meglio ancora di un peccato […]. L’assaporamento dei dolci richiede una inclinazione naturale alla fantasia e ai rapimenti poetici. […] Il dolce fa dimenticare quel che di necessario e dunque di cupo e mortale è nell’operazione del nutrirsi, ci riconcilia con la parte divina della vita e fa rifiorire in noi il riso.

In effetti, il dolce rimanda immediatamente all’idea del piacere e della trasgressione oppure ci risucchia voluttuosamente in una dimensione infantile, come dimostra l’abbondanza di torte e dolcetti magici presenti nelle fiabe e nelle favole, o come ci ricordano le foto di compleanno dell’infanzia, con torte ricche di panna e sormontate dalle immancabili candeline.
Non a caso, nella letteratura, i dolci spesso sono oggetto di furto, provocano epiche indigestioni, sono fonte di piacere proibito. Sono onnipresenti nelle fiabe perché i bambini sono attratti più spesso da un soffice profumo di zucchero, vaniglia e cioccolato, che non da un cibo vero e proprio. A volte sono il mezzo che adoperano adulti malvagi per farli cadere in trappola (come ricorda il vecchio monito “non accettare caramelle da uno sconosciuto!”). Rappresentano una trasgressione alla normalità, al dovere di mangiare, cosa che i bambini spesso vivono come una costrizione a sapori adulti e ripugnanti – l’amaro, il salato, il piccante – o a un aspetto poco rassicurante. Gli ingredienti per cucinare i dolci invece attirano i loro sensi: profumano, sono colorati, familiari come il latte e le uova. Polveri quasi magiche fanno cambiare aspetto e colore alle cose.
Il dolce si rivela poi particolarmente adatto a placare stati d’ansia, insoddisfazione o mancanza d’affetto, secondo un luogo comune ben supportato dalla sua composizione chimica. Un adulto che si entusiasma per i dolci e a stento trattiene la sua golosità conserva una componente bambina, che può rappresentare la sua risorsa per vivere o essere un comportamento stigmatizzato dagli adulti più seriosi. Dolci e torte, dunque, hanno il potere di mettere a stretto contatto mondo dei bambini e mondo degli adulti.


Case di zucchero, furti, abbuffate e sogni dolci



Se Gianduia diventasse
ministro dello Stato,
farebbe le case di zucchero
con le porte di cioccolato.

G. Rodari, Il gioco dei «se»

Nelle fiabe spesso i bambini vengono abbandonati quando i genitori non sono più in grado di sfamarli, in concomitanza con carestie eccezionali, motivo per cui i piccoli, affidati alla provvidenza, si ritrovano alla mercè della sorte, su una strada sconosciuta o in un bosco, facili prede di orchi e streghe. In questa realtà fatta di abbandono e fame vera, quale momentanea consolazione per i piccoli Hänsel e Gretel imbattersi in una graziosa «casina fatta di pane e ricoperta di focaccia, con le finestre di zucchero trasparente»:

Ma d’un tratto la porta della casa si aprì e una vecchia decrepita venne fuori piano piano. [...] Prese entrambi per mano e li condusse nella sua casetta. Fu loro servita una buona cena, latte e frittelle, mele e noci; poi furono preparati due bei lettini bianchi, e Hänsel e Gretel si coricarono e pensavano di essere in Paradiso.

Il sogno si concretizza davanti ai due fratellini: solo un bambino, in casi come questo, potrebbe sognare una torta o un dolce, e non piuttosto una pagnotta di pane o un pasto serio; anche se è vero che Hänsel, un piccolo ometto che deve farsi carico della sorellina, decide di riservare a sé la focaccia, più nutriente. Il topos del luogo invitante che si rivela poi una trappola torna anche nel Paese dei balocchi collodiano e i bambini devono mettere in atto le loro risorse creative e sperare nella buona stella per uscire dalla loro disavventura più forti e più ricchi di quando vi sono entrati.

Le fiabe popolari italiane raccolte da Italo Calvino a metà degli anni Cinquanta sono il prodotto di una società contadina spesso poverissima che non offre grande abbondanza di dolci e torte, fatta eccezione per qualche ciambella o frittella di carnevale. Quando vi appare un dolce, coerentemente con la logica della solidarietà in un mondo duro da vivere, il leit motiv sembra la necessità della condivisione: se il bambino è disposto a condividerlo con chi incontra sul suo cammino – che sia un essere umano o fantastico –, sarà ricompensato lautamente del gesto di generosità. Così il fiume Giordano permette alla bambina che sfugge all’Orca di attraversarlo, dato che gli ha regalato le sue ciambelle (in una rara versione italiana di Cappuccetto Rosso che Calvino racconta col titolo de La finta nonna, fiaba abruzzese); mentre la bambina golosa che ha spacciato “polpette di somaro” per frittelle allo Zio Lupo, che gliele aveva chieste in cambio della padella per friggerle, sarà mangiata lei stessa in un sol boccone mentre è rintanata nel suo lettino. E non avrà nemmeno la consolazione di risvegliarsi da un brutto sogno, perché l’incubo è diventato realtà: «E così Zio Lupo mangia sempre le bambine golose» (Zio Lupo, fiaba romagnola).

Se nelle fiabe saranno il lupo, l’orco o la strega ad avere la meglio su bambini troppo golosi, nella letteratura per ragazzi, l’eccesso di golosità provoca spesso severe punizioni ed è seguita dall’immancabile purga, come sa bene Giannino Stoppani, detto Gian Burrasca. Egli ne ricava un vero e proprio rompicapo: come mai i dolci che son così buoni fan tanto male, e le purghe, che sono così cattive, fan così bene? Una domanda che potrebbe valere anche per il monello letterario per antonomasia, Pinocchio. Una delle più colossali bravate narrate nel suo Giornalino ha per protagonista il compagno di marachelle, Gigino Balestra, figlio di un pasticcere socialista: essa ha conseguenze così drammatiche che Gian Burrasca lascia a Gigino l’onore della cronaca diretta.
Nell’intento di salvaguardare il buon nome di socialista che suo padre incarna, il bambino decide di offrire ai suoi amici, per il primo maggio, un pasticcino a testa dalla bottega di famiglia. Ben presto, però, la situazione gli sfugge di mano:

Che vuoi che ti dica, caro Stoppani? Si arrivò a un punto che io non capivo più nulla; [...] mi pareva d’essere in un paese fantastico tutto popolato di ragazzi di marzapane col cervello di crema e il cuore di marmellata uniti da un dolce patto di fratellanza condita con molto zucchero e rosolio di tutte le qualità...[…]. Si agitavano come fantasmi tutti quei ragazzi che ogni tanto urlavano a bocca piena: “Evviva il socialismo! Evviva il primo maggio!” […] So che a un certo punto la musica cambiò a un tratto e una voce terribile, quella di mio padre, rimbombò nel negozio gridando: “Ah, razza di cani, ora ve lo do io il socialismo!” e fu un diluvio di scapaccioni che piovve da tutte le parti fra le grida e i pianti.

A Gigino la realtà balena per un attimo con lucidità (il banco delle paste vuoto, bottiglie rovesciate, pasta sfoglia calpestata ovunque, ditate di cioccolata) ma, poco dopo, la mano pesante del padre gli fa perdere conoscenza. Buio, purga e collegio si materializzano nel suo presente. I riferimenti insistiti al socialismo e alla giustizia alludono a un mondo in cui i bambini devono fare i conti con adulti che predicano grandi valori ma che puniscono i piccoli quando essi, con il loro ardore e la loro ingenuità, cercano di applicarli alla realtà. La loro vitalità non viene soffocata nemmeno tra le grigie mura del collegio.
Privi di qualsiasi idealità e anzi perdigiorno dediti al crimine sono invece i protagonisti del racconto di Italo Calvino Furto in una pasticceria (da Ultimo viene il corvo, 1949). La vista e il profumo di una distesa infinita di dolci provoca in loro una sorta di stordimento e lo sgomento «di dover scappare prima d’aver assaggiato tutte le qualità di dolci», che poi coinvolgerà anche i poliziotti accorsi ad arrestarli, e tutto il racconto è all’insegna della metamorfosi e dello straniamento, del miraggio e dell’incubo («I panettoni mezzo tagliati aprivano fauci gialle e occhiute contro di lui, strane ciambelle sbocciavano come fiori di piante carnivore»). Lo spazio della pasticceria apre al desiderio infinito, ma il tempo a disposizione lo rende proibito e il racconto si gioca tutto su quest’ambivalenza. Del resto però, l’arresto è impossibile, in quell’abbuffata generale, e le cose perdono i loro confini familiari: «Quelli della Celere dissero poi d’aver visto una scimmia col muso impiastricciato, che traversava a salti la bottega, rovesciando vassoi e torte». Interessante la conclusione, col ladro che corre a far visita all’amante per la quale aveva rubato un vassoio di cannoli, nascosto nella fuga sotto la camicia: così però si sono trasformati in uno «strano impasto» che i due ragazzi passano la notte a piluccare fino all’ultima briciola dal corpo di lui.
Il binomio dolce-piacere sessuale sta anche all’origine del meditato acquisto che uno dei giovanissimi protagonisti del film C’era una volta in America (1984) di Sergio Leone compie in previsione dell’incontro con la giovane prostituta Peggy: ma non avrà poi la pazienza di aspettare la ragazza impegnata a fare il bagno e la golosa charlotte con ciliegina finirà leccata fino all’ultima briciola, direttamente sulle scale davanti all’uscio chiuso, in un’ultima struggente concessione all’infanzia.

Ma l’indigestione non è sempre in agguato, come suggeriscono le Favole al telefono (1962) di Gianni Rodari: la paura della fame sembra passata, in un’Italia toccata dal Boom. Ecco dunque i tre fortunati fratellini di Barletta che possono leccarsi per intero La strada di cioccolato e pure il carrettino di biscotto che li riporta a casa, e l’intera cittadinanza di Bologna che in Piazza Maggiore vede sorgere, per una indimenticabile giornata, un palazzo di gelato:

Il tetto era di panna montata, il fumo dei comignoli di zucchero filato, i comignoli di frutta candita. Tutto il resto era di gelato: le porte di gelato, i muri di gelato, i mobili di gelato (Il palazzo di gelato).

L’iterazione a cui Rodari ricorre per descrivere il meraviglioso palazzo (una tipica costruzione cittadina moderna, non più una casetta nel bosco o un castello incantato) sottolinea l’eccezionalità di un sogno collettivo: «Fu un gran giorno, quello, e per ordine dei dottori nessuno ebbe il mal di pancia». Nei giusti limiti, uno strappo alla regola in buona compagnia non comporta più strascichi di streghe malvagie né purghe o scapaccioni.

Piuttosto, certe abbuffate commesse dagli adulti hanno, talora, originali effetti collaterali: è in seguito a un’indigestione di zuppa inglese che la grassa parrucchiera napoletana, su cui padre Maurizio pratica l’esorcismo in un divertente film di Roberto Benigni, partorisce il “piccolo diavolo” Giuditta (Il piccolo diavolo, 1988). E talora un sogno da bambino può rassicurare anche un adulto e scongiurare il pericolo della distruzione totale che la guerra fredda porta con sé (G. Rodari, La torta in cielo):

Poi si verrà a sapere
(e la cosa sarà più comica)
che qualcuno s’era provato
a buttare una bomba atomica,
ma invece del solito fungo
l’esplosione ha provocato
(per ora nel mio sogno)
una torta di cioccolato.

Dolci mitici, rituali e della tradizione



Dolci e torte non possono mancare in caso di feste e ricorrenze speciali. Per festeggiare un anno di vita da bravo burattino, «la Fata aveva fatto preparare duegento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini imburrati di sotto e di sopra». Ma Pinocchio manderà tutto a monte per partire per il paese dei Balocchi. Dovrà aspettare molte altre disavventure, prima di redimersi sul serio.
Il tema della torta di compleanno offre spesso agli scrittori contemporanei l’occasione per riflettere sui rapporti famigliari e talora la sua preparazione o il momento del suo acquisto apre squarci inquietanti su vissuti problematici.
È proprio la preparazione della torta per il compleanno del marito a mettere definitivamente in crisi Laura Brown, giovane moglie anni Cinquanta che non si ritrova nel suo ruolo, nel romanzo americano The hours (Le ore) di Michael Cunningham (1998): troppe aspettative si addensano sulla glassa, sulla scritta di auguri, sulle rose decorative («La torta parlerà di generosità e piacere come una buona casa parla di comodità e sicurezza») e la delusione della donna è cocente («Vorrebbe aver fatto una torta che elimini il dolore, anche se solo per poco tempo»). La letteratura, il cinema, i fumetti americani molto più che quelli italiani si soffermano sul valore icastico ed emblematico della torta – glassata, colorata, elaborata – con effetti comici o drammatici. Dalle torte di Nonna Papera alle torte in faccia delle comiche, dalla torta gigante da cui fuoriesce un gangster in A qualcuno piace caldo di Billy Wilder (1959) ai cannoli siciliani avvelenati ne Il padrino – Parte III di Coppola (1990).

Ogni paese ha i suoi dolci tipici e in Italia il dolce natalizio più tradizionale è il panettone, protagonista di una serie di racconti degli anni Cinquanta e Sessanta. Oltre a rappresentare simbolicamente la città di Milano, quasi al pari del Duomo e della Galleria Vittorio Emanuele, come ricorda un personaggio di Pirandello (In silenzio, 1923), il panettone sembra il simbolo dell’opulenza del boom che solo i ricchi possono concedersi, di solito appare in racconti di ambientazione cittadina e assume dimensioni eccezionali (dai due ai ben sette chili). Per un misero impiegato che fatica a sbarcare il lunario l’unica possibilità di offrirlo ai suoi famigliari è riceverlo in dono dalla ditta, come accade al ragioniere protagonista de La gioia e la legge (1961) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che dovrà sacrificarlo per salvare l’onore e pagare un grosso debito. Oppure, come nel caso del cartolaio narratore del racconto “romano” Il Picche nicche (1954) di Alberto Moravia, si può millantare il suo acquisto per il cenone di capodanno, salvo farsi escludere dal consorzio dei ricchi commercianti della contrada, per l’irriverenza del gesto. Il panettone diventa addirittura la promessa di pace a cui si aggrappa Francesco Anfossi, angosciato protagonista del racconto di Dino Buzzati Il panettone non bastò (1952), la vigilia di Natale del 1944:

I milanesi si erano affaticati in tutti i modi perché quel giorno fosse un giorno a sé, speciale, diverso da quelli prima e quelli dopo, esonerato dalla guerra, riservato a loro. E invece, nonostante il panettone, ne era venuto fuori un giorno solito, con la solita dannata aspettazione, squallido, rassegnato e nevrastenico come tutti gli altri giorni della guerra.

Buzzati difende poi, in un altro racconto, un Natale autentico e semplice: ne diventa simbolo la vecchia tata Clementina con la sua torta casalinga di marzapane a forma di Gesù Bambino: sarà costretta a finire di prepararla in cantina e morirà soffocata da una montagna di biglietti di auguri e di merci inutili, simbolo di una follia consumistica ormai inarrestabile (La torta e una carezza, 1965).

Resiste tuttavia, nei romanzi italiani che mettono in scena mondi arcaici o legati alla campagna, la torta fatta in casa e la preparazione dei dolci rituali che accompagnano le tappe più significative della vita – fidanzamenti, matrimoni, funerali – è parte integrante del rito stesso. Molto significativa la parata di dolci nuziali preparati in casa della sorella di Maria, la protagonista di Accabadora (2009) di Michela Murgia, nella Sardegna degli anni Cinquanta:

Per tre giorni interi la casa della sposa fu un vero formicaio, un viavai di parenti e vicine di casa con le sporte piene di ingredienti freschi e vassoi in prestito su cui riporre i dolci finiti. Le sorelle Listru lavorarono quasi senza sosta, alternando i compiti per dar vita al miracolo di un esercito di capigliette ricamate di zucchero come trine, chili di tiliccas gonfie di saba, cesti colmi di aranzada dal profumo speziato, scatole di latta piene di croccanti bamboline di zucchero, e centinaia di rotondi gueffus di mandorle, avvolti uno per uno a caramella nella carta velina sfrangiata all’estremità come le torri guelfe. Nella casa non c’era una stanza che avesse un punto d’appoggio libero, e per andare a dormire Giulia e Regina dovevano spostare dai letti i cestini pieni di dolci già pronti, addormentandosi nella fragranza lieve dell’acqua dei fiori d’arancio.

Significato simbolico particolare assume la preparazione del pane nuziale «perfettamente circolare, intagliato a colombine e fiori», da offrire durante la cerimonia religiosa: ma la piccola Maria, eccitata dal mistero dell’amore, nel porselo in capo lo fa cadere a terra «con un suono croccante di ossa rotte». Non sarà perdonata, per quest’oltraggio.
Anche la torta fatta dalla mamma resta un oggetto quasi sacro, su cui non si possono mettere impunemente le mani. È questa la sostanza della raccomandazione che fa il ragazzo appena catturato, in Una questione privata (1963) di Beppe Fenoglio:

Ancora una cosa – disse Riccio. – In prigione ho una torta che mi ha mandato mia madre. L’ho appena assaggiata, l’ho appena scrostata. La lascerei a Bellini ma Bellini mi viene dietro. Datela al primo partigiano che entrerà nella vostra maledetta prigione. Guai se la mangia uno di voi.

Ma il dolce può essere mitico anche perché racchiude un piccolo universo. Lo sguardo divertito di Stefano Benni fotografa una certa Italia sonnolenta e di provincia, accalcata intorno ai tavolini di un bar che è più un luogo di incontro di habitués che una pasticceria di qualità. Ne diventa simbolo la mitica e indigeribile “Luisona”:

Al bar Sport non si mangia quasi mai. C’è una bacheca con delle paste, ma è puramente coreografica.[...] Solo, qualche volta, il cliente occasionale osa avvicinarsi al sacrario. Una volta, ad esempio, entrò un rappresentante di Milano. Aprì la bacheca e si mise in bocca una pastona bianca e nera, con sopra una spruzzata di quella bellissima granella in duralluminio che sola contraddistingue la pasta veramente cattiva. Subito nel bar si sparse la voce: “Hanno mangiato la Luisona”. La Luisona era la decana delle paste, e si trovava nella bacheca dal 1959. Guardando il colore della sua crema i vecchi riuscivano a trarre le previsioni del tempo. La sua scomparsa fu un colpo durissimo per tutti. Il rappresentante fu invitato a uscire nel generale disprezzo. [...] fu trovato appena un’ora dopo, nella toilette di un autogrill di Modena, in preda ad atroci dolori. La Luisona si era vendicata. (da Bar Sport, 1976)


Dolciumi e adulti: dolcezze, debolezze e psicosi



Il rapporto degli adulti con i dolci non è sempre sereno. Nutrirsi di soli dolci appare disdicevole per il vecchio professor Bernardino Lamis, ne L’eresia catara di Pirandello (dalla raccolta La mosca, 1923): ma il cartoccio di «amaretti, schiumette e bocche di dama» che egli acquista tre volte la settimana e che in un primo momento uno studente curioso scambia per “debolezza” di vecchio, cela in realtà la necessità di mantenersi con poco e di sfuggire all’inferno che ha in casa.
Anche l’uomo malato protagonista di Dolcezza, nei Sillabari di Goffredo Parise, è solo coi suoi pensieri ma la bella giornata di settembre che si concede girovagando per Venezia gli offre alcuni intensi momenti di piacere che non dimenticherà nemmeno in punto di morte. In attesa che apra il caffè dove farà colazione, si siede «immaginando con impazienza il fagottino di pasta sfoglia calda e pasta di mandorle, il kipferl, che avrebbe mangiato di lì a poco». La pasta diventa un concentrato di vita, un’esperienza piena e soddisfacente al cui ricordo aggrapparsi. Alcuni dolci, per il loro potere evocativo, sono diventati dei veri topoi letterari, come è il caso della madeleine proustiana che, inzuppata in un infuso di tiglio, apre le porte della memoria e permette a Marcel di far riemergere un intero mondo di ricordi e sentimenti perduti (Dalla parte di Swann. Combray, 1913).

Adulti inquieti tendono a ricorrere ai dolci per placare l’ansia data dai rapporti con gli altri. Il regista Nanni Moretti è solito mettere in scena personaggi adulti colti in momenti di difficoltà che talora sfiorano la psicosi. Indimenticabile la scena di Bianca (1983) in cui il protagonista, di notte, si farcisce fette di pane attingendo da un barattolo di Nutella alto oltre un metro. Il dolce diventa un rituale, un cibo con valenza simbolica altissima: ad ogni specialità corrispondono condizioni psicologiche diverse. Così, a un pranzo ufficiale, il momento del dessert offre lo spunto per una lezione di simbolica dolciaria:

Lei mi sta scavando sotto, mi toglie la panna, la castagna da sola sopra non ha senso. Il Mont Blanc non è come un cannolo alla siciliana che c’è tutto dentro, è come uno zaino: lei se lo porta appresso per un mese e sta sicuro. Il Mont Blanc si regge su un equilibrio delicato, è come la Sacher Torte...

- Cosa?
- La Sacher Torte...
- Cos’è?
- Cioè lei non ha mai assaggiato la Sacher Torte?
- No.
- Vabbè, continuiamo così, facciamoci del male...


Bianca costituisce un vero catalogo di torte e dolci simbolici. Nel recente Habemus papam (2011), poi, il protagonista, neoeletto papa in crisi di coscienza, mentre gironzola per Roma alla ricerca della forza interiore necessaria ad affrontare il mandato, finisce in una bottega di pasticceria. Mentre addenta una ciambellina spiega al pasticcere che soffre di un “deficit di accudimento” ma al momento sembra non poter far altro che consolarsi della propria inquietudine ricorrendo a un dolce goloso e fragrante.

Anche santi e poeti, infatti, possono essere golosi. Nel capitolo dello Speculum perfectionis che narra i suoi ultimi istanti di vita (cap.11, 112), è riportato un curioso episodio riguardante San Francesco:

Trovandosi nel luogo di Santa Maria degli Angeli, inferno dell’ultima malattia, della quale il Santo morì, un giorno chiamò i suoi compagni e disse loro: «Voi sapete a qual modo madonna Giacoma di Sette Soli fu ed è fedele e devota a me e alla nostra religione; pertanto credo che ella reputerà singolare grazia e consolazione se le significheremo mia condizione, e in special modo manderete pregandola che sì mi mandi [...] quei cibi i quali a Roma mi apprestò soventi volte». I Romani chiamano quelle vivande mostaccioli, e sono fatti di mandorle, di zucchero e di altre spezie.

La donna accorre da Francesco, come se gli avesse letto nel pensiero, portando «i cibi che il santo padre desiderava gustare, ma poca cosa egli ne mangiò, poiché di continuo veniva meno ed era vicino a morte». Guido Manacorda in Poesia e contemplazione (1947) evidenzia in Francesco una «certa candida infantile ghiottoneria» che egli accomuna a quella del Leopardi. Impossibile non ricordare allora lo scandalo suscitato dall’articolo di Savinio Il sorbetto di Leopardi, pubblicato su «Omnibus» di Longanesi il 28 gennaio 1939 in cui egli ipotizzava che il poeta recanatese fosse morto per indigestione dovuta alla sua grande passione per «gelati, sorbetti, mantecati, spumoni, cassate e cremolate». La censura fascista ne approfittò per chiudere la rivista: era impensabile che, mentre si celebrava la tumulazione delle sue spoglie al parco virgiliano di Napoli, un mito letterario nazionale potesse essere trattato in modo tanto irriverente.

La filosofia del pasticcere



Ma nella letteratura e nel cinema degli ultimi decenni si è verificato un deciso mutamento nel rapporto fra adulti e dolciumi. La figura del pasticcere, e del cuoco più in generale, assume un ruolo chiave nell’orientare le relazioni fra i personaggi. Non è raro che egli insegni a vivere, a riappropriarsi di una dimensione più umana, a conquistare l’amore. Forse la tradizione sudamericana dei romanzi con ricette ha aperto la strada a questa tendenza: da Como agua para chocolate di Laura Esquivel (1989) ad Afrodita (1998) di Isabelle Allende, la lista dei titoli è lunga. Si pensi al successo del romanzo Chocolat di Joanne Harris (1998) e dell’omonimo film di Lasse Hallstrom, in cui una seducente cioccolataia sconvolge i gretti rapporti sociali di un piccolo borgo francese, invitando a una tolleranza che passa attraverso profumi e sapori. È un vecchio pasticcere che cela un passato traumatico anche Davide, personaggio-chiave de La finestra di fronte (2002) di Ferzan Özpetek: egli fa riscoprire alla protagonista la gioia di vivere e l’amore per il marito. Infine, “il più grande cuoco di Francia” dell’omonimo racconto di Benni (da Il bar sotto il mare, 1987) è in grado di ingannare persino il diavolo, venuto a prelevarlo direttamente al ristorante, grazie alle sue leccornie fra cui spicca un’indimenticabile tavolata di dolci.

Ma forse l’esito più maturo ce lo offre il racconto di Raymond Carver A small, good thing (Una cosa piccola ma buona) che mette in scena una situazione drammatica e commovente, a tratti agghiacciante. Avendo dimenticato dal pasticcere la torta ordinata per gli otto anni di suo figlio Scotty, una madre si trova in preda alla disperazione dapprima per l’incidente improvviso che occorre al bambino proprio il giorno della sua festa e che lo ucciderà, e poi per le telefonate rancorose di cui il pasticcere la tempesta per non aver ritirato la torta. Ma sarà proprio nel laboratorio di pasticceria che i due genitori esausti e disperati e l’uomo – una vita trascorsa in solitudine a infornare torte per le feste degli altri – impareranno a condividere il dolore e a comunicarsi i propri drammi personali. La via per abbattere il muro di incomunicabilità che li separa è condividere il cibo: «Spero vogliate assaggiare alcune delle mie paste calde. Dovete mangiare per andare avanti. Mangiare è una cosa piccola ma buona in un momento come questo».


Bibliografia



Testi

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