Barbara Troise Rioda - L’unto migliore

Pellegrino Artusi, autore di quello che si può considerare il primo libro di cucina dell’Italia unita, scrive:
‘ogni popolo usa per friggere l’unto che meglio si produce nella propria area. In Toscana si dà la preferenza all’Olio d’oliva, in Lombardia al burro, e nell’Emilia al lardo che vi si prepara eccellente’
Il breve cennoalla geografia dei grassi, tratto dall’intramontabile La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene (1891),riassume in modo chiaro la dislocazione e le abitudini di consumo che caratterizzano le aree italiane. Nella zona lombarda non c’è piatto, si può dire, nel quale, prima o poi non entri un po’di burro; non aveva quindi tutti i torti Foscolo, che in una lettera all’amante milanese Antonietta Fagnani Arese, per ironizzare sui gusti alimentari degli abitanti di Milano e dei territori circostanti, ribattezzò col nome di Paneròpoli (paese della panna) e Butirròpoli (paese del burro) la città dei Navigli.
Ma andiamo con ordine. La storia del grasso prestigioso non può essere fatta risalire ad un’epoca ben precisa, a causa delle molte e remote leggende che gli attribuiscono origini differenti.
Le abitudini culinarie legate al burro (e ai latticini in genere) si svilupparono invece, con buona certezza, sotto l’influenza della cultura barbara, longobarda e franca che, con lo sfaldamento dell'Impero, si diffuse nell’area nord occidentale per poi espandersi su tutto il suolo italiano.
L’olio (e non il burro), il grano e il vino erano i tre miti culinari della civiltà agricola latina antica. La cucina dei romani, in particolare, non conosceva che questo grasso vegetale e letteralmente grondava d’olio. Il lardo e il burro, del quale ci occupiamo in questa sezione del volume, erano i per contro i simboli della civiltà nomade e pastorale dei barbari e fecero il loro ingresso nelle cucine aristocratiche italiane qualche secolo dopo.
Troppo caro per essere consumato dal popolo comune era un lusso concesso solo alle classi agiate. E' quanto fa capire, il più grande storico dell’alimentazione del secolo scorso, Piero Camporesi, che nel suo libro Le officine dei sensi, mentreci conduce lungo i sentieri dell'iconologia del cibo, afferma:‘il burro per il suo alto costo non poteva essere molto popolare. Il buon economo non doveva girarci al largo per la sua nequizia ma per la sua “avarizia”, per il suo alto costo.’ e nell’opera Il paese della fame aggiunge lapidario ‘il burro era disponibile soltanto per i grandi signori’.
Il suo consumo crebbe a partire dall’alto Medioevo e nel corso della sua storia finì per cambiare più volte statuto passando da grasso “alla moda” per tutte le classi privilegiate (anche per quelle del sud, dove l’impiego dell’olio in cucina rimarrà sempre preponderante), ad alimento temuto e quasi demonizzato nella seconda metà del Novecento. Il momento della svolta, che ha reso dapprima il nobile grasso un alimento di uso pressoché quotidiano, ha il suo preludio già nel XV secolo, come testimonia il cuoco Mastro Martino nelle ricette del suo Libro de arte coquinaria (1464): qui il burro compare (anche se di rado), come condimento nelle ricette di piatti semplici come i ravioli in bianco. La ‘comparsa’ è significativa perché il manoscritto, in lingua volgare, contribuì in modo decisivo alla definizione del modello ‘italiano’ di cucina che, grazie alla visione aperta alle diverse esperienze gastronomiche territoriali proprie del cuoco estroso e innovatore che ne è l’autore, si diffuse ovunque.
Nel secolo successivo la cucina sfarzosa e ostentatoria delle corti cinquecentesche di tutta Italia fa regolarmente uso del burro al pari dell’olio; l’Opera di Bartolomeo Scappi, mastro dell'arte del cucinare (1570)suggerisce addirittura, secondo le norme rinascimentali, come scegliere tra i diversi condimenti: lardo e strutto per i giorni di grasso; burro per i giorni di magro (venerdì e sabato) e olio d’oliva o di mandorle per le vigilie e le quaresime. La novità sta proprio nella parziale intercambiabilità tra i tre grassi e nel fatto che il burro potesse, all’occorrenza, sostituire lo strutto e l’olio.
Una sostituibilità d’uso che trova nelle tradizioni culinarie regionali e territoriali, non poca resistenza. Tanto che l’olio per tutto il rinascimento,‘forma una delle grandi divisioni geografiche del mondo intero: uomini della cucina dell’olio, uomini della cucina del burro. Peggio che dire bianchi e neri, cristiani ed ebrei, bolscevichi e capitalisti’. Un paragone forte questo di Giuseppe Prezzolini che, nel raccontarci i gusti alimentari dello statista fiorentino (‘affezionato alla cucina con l’olio’) nell’opera Vita di Nicolò Machiavelli, non fa che confermarci quanto nel Cinquecento sia profondo il confine che ancora divide il mondo dei due grassi.
Sta di fatto che il derivato sovrano del latte, nonostante le ostilità di tipo gastronomico di cui è vittima, si diffonde lentamente a macchia d’olio (o in questo caso sarebbe meglio dire di burro) lungo l’intera penisola, diventa una componente indispensabile di tutta la cucina italiana e al tempo stesso la base di una sana e semplice alimentazione. Incomincia insomma a non essere più un' alternativa, ma una scelta.
Un prodotto alimentare ricavato esclusivamente dalla parte lipidica del latte non può che essere impiegato egregiamente come condimento per primi piatti, siano essi umili, come la polenta preparata da Tonio per Renzonel VI capitolo dei Promessi Sposi o più elaborati come i risotti, le paste, le zuppe e il fegato alla veneziana offerti ed usati come arma di seduzione dalla Locandiera di Goldoni, per non parlare poi dell’inarrivabile, succulento e untuoso timballo di maccheroni che Tomasi di Lampedusa serve al tavolo del banchetto del suo Gattopardo.
Ed è proprio nei primi piatti che la nostra materia grassa fa la differenza. Tra questi spicca uno dei grandi classici della cucina italiana: il risotto alla milanese. Bartolomeo Sappi ne è il progenitore e ne descrive la ricetta sotto il nome di: “vivanda di riso alla lombarda”, composta da riso bollito e condito a strati con cacio, uova, zucchero, cannella, cervellata (antico salume milanese) e pezzi di cappone, il tutto mantecato e insaporito rigorosamente da un burro di prima qualità.
Per la buona riuscita del risòt a la milanès il segreto sembra pertanto essere il burro, il cui sapore inconfondibile  deve aver sollecitato il palato di molti tra gli autori della nostra letteratura italiana: Giuseppe Fontana, capo cuoco del mitico ristorante milanese Savini dal 1905 al 1929, pubblica ne La Cusinna de Milan una tra le ricette in versi più celebri del secolo, tutta dedicata a questo straordinario capolavoro della cucina lombarda; Carlo Emilio Gadda, nel 1965, scrive in Meraviglie d'Italia il famosissimo articolo il Risotto Patrio, fissando alcuni capisaldi fondamentali del piatto, a cominciare dal tipo di riso da usare (e cioè il Vialone, dal chicco grosso) e dalla quantità di burro ‘che deve untare il chicco non annegarlo’; Giovanni Pascoli che, in una lettera inviata d un amico, descrive la ricetta speciale del risotto poetico ‘romagnolesco’ (cucinato dalla sorella Mariù) e inizia proprio così: ‘V’ha messo il burro del color di croco e zafferano’. Ecco, in poche parole, indicati i due pilastri fondamentali del tempio del dio risotto. Nella fanciullesca sinfonia di cipollette, fegatini di pollo, pancetta, funghi freschi, pomodorini, che compone il poeta, il burro svolge di nuovo e magistralmente il ruolo di direttore d’orchestra.
Un grasso animale così squisito è un condimento che non nobilita solo le portate più elaborate della tradizione culinaria, ma rende indimenticabili anche i piatti più semplici, come per esempio la frittata. Lo sapeva bene, già nel XVII secolo, Lorenzo Magalotti che in una delle sue canzoni fa un elenco di quanto basta per cucinarla :‘la ricetta batte in poco,/ E la spesa è molto lieve:/Uova, burro, sale, e foco: la faccenda è breve breve’. 
La frittata, dato il costo relativamente basso delle uova e per la sua versatilità, ha accompagnato, attraverso i secoli, la cultura gastronomica italiana più raffinata, ma è stata anche, e soprattutto, una pietanza povera e di comune consumo famigliare. Lo riscopre durante il suo girovagare Carlino, nel romanzo di Ippolito Nievo Confessioni di un italiano, quando, recatosi alla fiera del paese di Ravagnano (sito nella campagna friulana), ha l’occasione di imparare dalle donne del posto un umile pasto contadino: una ‘frittata rognosa’ fatta solo di ‘uova, burro e salame’.
Con il passare del tempo il büter, per usare un termine dialettale milanese, acquista una propria autonomia dagli altri piatti e una propria personalità tanto da essere mangiato da solo a crudo (o al massimo accompagnato da un pezzo di pane). Finisce addirittura per conquistare un posto d’onore, per così dire, ‘riservato’, in tavola. Lo suggerisce Il Galateo di Giovanni Della Casa che gli dedica un piattino e un coltellino, entrambi posizionati, secondo le regole di una corretta apparecchiatura, nell’angolo in alto a sinistra, sopra le forchette.
Oltre ad essersi conquistato un posto a tavola e ad essere citato nei ricettari, nei romanzi e in poesia come semplice condimento o ingrediente, il burro assume importanti ruoli simbolici legati alle proprie caratteristiche fisiche e alla propria naturalezza e semplicità (esso è infatti ricavato mediante operazioni solo meccaniche dal latte di vacca).
Talvolta compare nell'ambito dei proverbi popolari e assume significati piuttosto lontani tra loro. ‘Non farsi passare al burro da nessuno’ significa ‘non farsi manovrare’; in dialetto bergamasco ‘Iga 'l cül in dèl bötér’ (letteralmente avere il fondoschiena nel burro) significa, usando un’espressione piuttosto colorita,‘essere fortunato’. E’ spesso impiegato in senso figurativo per indicare morbidezza:‘carne morbida come burro’; sfuggevolezza:‘mani di burro’(che lasciano cadere tutto), e può assumere pure un senso dispregiativo, come quando si dice ‘dare del burro a qualcuno’, che significa ‘adulare oltremodo una persona’. Ci sono poi modi di dire milanesi che, proprio per la loro origine geografica, pur non nominando direttamente il burro lo richiamano inequivocabilmente e hanno come oggetto l’unto come : ‘corre che par unto’ parlando di uno che corre velocissimo, ‘è pan unto’ vale a dire è una cosa molto opportuna, sopraggiunta al momento giusto.
L’immagine del burro è spesso sfruttata in letteratura per fini retorici. Può essere utilizzata in immagini ‘semplici’ e immediate, cioè legate alle sue caratteristiche organolettiche, come per esempio il colore bianco, la scioglievolezza, l’untuosità; o per sviluppare concetti e immagini più ‘complesse’ e ambiziose, come quando esso evoca il passato, diventa metafora della ricerca e del ritorno alle cose semplici e vere o assume funzioni educative ed è per questo caricato di significati di tipo etico-morale.
Per quel che riguarda le immagini ‘semplici’ legate al burro sono molti gli autori ad averne fatto ricorso. Alcuni di loro sono stati ‘semplicemente’ ispirati dal colore candido: Dante procedendo lungo il sentiero infernale incontra ‘un’oca’ che definisce ‘bianca più del burro’, per Pavese ‘Nora’, la bella serva che porta le bibite ai clienti in Feria d’agosto, ‘aveva una pelle che sembrava burro bianco’ e questo le conferisce innocenza e fascino. Nella realtà il colore del burro non è sempre bianco, varia a seconda delle stagioni e può diventare addirittura giallognolo. La variabilità dipende principalmente dall’alimentazione delle vacche: più caroteni le vacche assumono con l’alimentazione, più il burro risulterà colorato. Ma per qualche motivo a noi sconosciuto gli autori della nostra letteratura lo hanno, per così dire, idealizzato e regolarmente rappresentato candido come il latte.  E’sempre vero invece che, per la sua natura, il burro si scioglie rapidamente se non viene conservato in un ambiente freddo (generalmente inizia ad ammorbidirsi attorno ai 15 gradi). Ne doveva essere rimasto colpito, nonostante il prodotto caseario non avesse raggiunto ancora il massimo della fama, anche il poeta licenzioso del XVI secolo Pietro Aretino che, in uno dei suoi sonetti lussuriosi, vi ricorre per sottolineare gli effetti sconvolgenti dell’innamoramento :‘l’amassi soltanto: più del burro mi disfo’. Per riportare esempi più recenti e forme meno raffinate d’impiego dell’immagine di scioglievolezza, si può citare il grande giallista Andrea Camilleri che nel romanzo La pazienza del ragno, per descrivere il forte imbarazzo provato dalla signorina Tina Lofaro di fronte alle domande del commissario Montalbano, scrive: ‘Tina si stava squagliando come panetto di burro esposto al sole’.
Il binomio donna e cibo è un topos ricorrente in letteratura e nella maggior parte dei casi tratteggia il profilo di una donna genuina, vera e votata alle sane virtù della tradizione. Eugenio Montale in un celebre racconto descrive le qualità di una locandiera di provincia alle quali il protagonista non riesce a rimanere indifferente e di lei scrive: ‘era quello che si dice un «pan di burro», rosea e sorridente, ignorante e deliziosa, bravissima a cucinare pietanze e dolci capaci di far resuscitare un morto’. Un genere di femmina che l’uomo, stanco di aver per mogli attrici sofisticate e celebri cantanti, non riuscirà mai più a dimenticare.
Molto bella e riuscita anche la similitudine, di uno dei primi attori italiani di talento a recitare come Arlecchino, Domenico Biancolelli (1636-1688), che delle donne dice: "esse sono come il burro, che è freddo di per sé stesso, ma quando è in padella frigge e saltella; così la donna è fredda fin che la galanteria non la strugge e la fa rosolire’.
Un’altra caratteristica del burro è l’untuosità. In letteratura essa assume talvolta un senso opposto rispetto alla genuinità e alla purezza, tanto da caratterizzare furfanti, buffoni o perdigiorno che, proprio per il loro totale abbandono ai piaceri della vita,  si sono letteralmente sporcati e macchiati di materia grassa. Ne è un esempio Margutte, il semigigante astuto dall’ottusa ‘balordia’, definito dal Pulci: ‘pinzo e grasso ed unto’, ‘unto e bisunto come un berlingaccio’ (che è una antica pastella dolce fritta nel burro).
A fianco all’attribuzione di significati così primitivi e intuitivi iniziano ad emergere, dall’alveo dei romanzi e della poesia del Novecento, significati complessi, nuovi e sicuramente meno immediati. Per fare alcuni esempi concreti il burro diventa per Italo Svevo il simbolo di un vivere (e mangiare) semplice, di una quotidianità normale, a tratti banale. Il collega di Alfonso Nitti che mangia tutti i giorni in banca: ‘si fa due uova con pane e burro, innaffiate da un bicchiere di vino’. Un pasto triste come l’immagine del personaggio di bancario frustrato e stacanovista che Svevo vuole offrire al lettore. Ballini è, infatti, un uomo dedito al lavoro, anch’egli un inetto dalla visione del mondo limitata dalle quattro mura di uno studio chiuso e isolato, nel quale ‘un cassetto del suo tavolo era destinato esclusivamente alle munizioni: del pane, talvolta del burro, spesso una bottiglia di birra..’.Tra gli oggetti famigliari e comuni e le inutili chincaglierie che lo circondano gli unici due prodotti alimentari primari che Svevo sceglie di citare sono, non casualmente, il pane e burro, entrambi emblemi, in questo caso, di una inguaribile convenzionalità e impersonalità.
Ma c’è di più. Nel Corto viaggio sentimentale lo scrittore racconta, e lo fa con una così grande maestria di semplicità e di efficacia narrativa che sembra dipingere un quadro, di una merenda frugale in compagnia di un amico. I due mangiano un buon pane casalingo caldo accompagnato da ‘un burro autentico, un po' ingenuo e aspro’. E’ proprio in questi tre aggettivi densi, concisi e memorabili che si riassume chiaramente il ruolo e il significato che l’alimento assume per Svevo. Esso è infatti sinonimo della spontaneità di un incontro tra amici, dell’ingenua e della reciproca apertura del cuore, ma allo stesso tempo della condivisione dell’inevitabile retrogusto aspro che accomuna tutte le esistenze.
Il burro si ripresenta come simbolo della primordialità e del ritorno alla cose semplici anche nell’opera di Edoardo Sanguineti (1930-2010), certamente il più interessante e giustamente il più noto tra i poeti del ‘Gruppo ‘63’ (che tentarono di evidenziare la ‘non-comunicabilità’ delle parole nell'ambito di una società massificata dal potere capitalistico e per questo cercarono di promuovere l’avvento di un nuovo e più autentico linguaggio). Nella lirica, a scopo didascalico, il Purgatorio de l’inferno, il poeta si improvvisa maestro del figlio Alessandro e gli insegna i nomi delle cose. Tra le infinità di oggetti che giacciono nel caos quotidiano d’un tavolo (un libro di storia, un resto della colazione, una cartolina) e che si affollano caoticamente in un mondo alienato, compare il nome del ‘burro’. Le opere dell'uomo, il suo lavoro, la sua civiltà, la sua filosofia, il pensiero, l’azione fanno quindi parte del mondo mercificato, ma il burro, che rappresenta un elemento di primaria necessità ancora genuino e puro, rimane uno dei pochi segni che si contrappongono al capitalismo. Lo stesso capitalismo, che con il diffondersi delle mode tenta di creare nuovi consumi e di indirizzare quelli già consolidati e che nel XX secolo modifica radicalmente l’atteggiamento verso il nostro grasso animale. Un po’ per colpa della scienza medica che lo criminalizza per motivi salutistici, un po’ per colpa della moda che lo processa perché colpevole dell’adipe in eccesso, il burro perde il suo appeal e l’immagine positiva legata all’abbondanza e la ricchezza, di cui aveva goduto fino all’Ottocento, si ribalta e muta, anche per i letterati più golosi, in una sottile presa di distanza.
L’inversione di tendenza è evidente anche nella letteratura italiana. Da una parte si ha il ‘troneggiante timballo di maccheroni’, che racchiude in sé venticinque secoli di gastronomia siciliana, descritto nel romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Dall’altra, le ricette contenute nei romanzi di Carlo Emilio Gadda che, senza bandirlo del tutto, incomincia a guardare di sbieco il grasso animale e a dosarlo con parsimonia.
Nel primo caso la pietanza orgogliosamente ‘unta’ di burro del casato del Gattopardo, o meglio ancora, la grossa ‘massa untuosa’ nella quale le ‘sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi rimanevano impigliate’, rappresenta l’intera classe sociale aristocratica siciliana. La carica simbolica del timballo è fortissima e l’unto burroso dei maccheroni è espressione del  carattere ostentatorio della cucina fastosa, spettacolare e d’apparato della nobiltà siciliana. I conviti ottocenteschi, infatti, non erano altro che un’occasione per manifestare il proprio status sociale, unita alla volontà del principe di ribadire ai commensali il proprio immutato potere.
Diverso l’approccio di Gadda, uomo dall’appetito insaziabile e famoso per la sua ingordigia, che  in tutti i suoi romanzi novecenteschi, assume un atteggiamento, che si può definire, cauto verso il burro. L’Ingegnere stesso ne era consumatore, ma in ogni sua ricetta cerca di misurarne la quantità, tanto da diventare per lui una vera e propria preoccupazione: “Burro, quantum prodest udito il numero dei commensali’ e ‘burro lodigiano di classe quantum sufficit, non più, ve ne prego’ è la raccomandazione contenuta nel già citato ‘Risotto Patrio’. Dato che la misura non era certo la caratteristica principale della sua dieta, si presume che a influenzare l’opinione dello scrittore sia stata la società del suo tempo ed in particolare i messaggi pubblicitari che si andavano diffondendo con prepotenza già dagli anni ’60. La moda del corpo perfetto e della linea a tutti costi ha posto, infatti, sotto processo alcuni alimenti tra i più gustosi e onnipresenti in cucina, come il cioccolato e il burro, riuscendone a limitare significativamente il consumo.
Con l’avvento del capitalismo, della moda, della pubblicità, il crollo morale e culturale si fa sentire pressoché ovunque, diventando presto materia di discussione e di approfondimento per molti letterati. Non è un caso che proprio in questo periodo si assiste ad un boom della letteratura d’infanzia che spesso e volentieri tratta, a fini educativi, questi temi. La letteratura per l’infanzia tra l’altro è particolarmente ricca di immagini simboliche legate al cibo e non di rado il burro fa la sua comparsa.
Ne è un esempio l’Omino di burro di Carlo Collodi. Uno dei personaggi del più bel libro italiano per bambini di tutti i tempi: Pinocchio. Egli conduce il carro che porta al seducente Paese dei Balocchi, è apparentemente bonario e mellifluo, ma in realtà è un essere infernale, è il male per definizione. Uno spacciatore di desideri che attira i bambini promettendo loro che potranno giocare all’infinito. Le caratteristiche fisiche di questa straordinaria figura collodiana gli calzano a pennello. L’Omino è infatti ‘tenero e untuoso come una palla di burro’. Un piccolo uomo come tutti noi, non è un grand'uomo. E' comune, normale e medio. Soltanto è più liscio, è più candido, più viscido, sfuggente come il burro quando lo si prende in mano, ha ‘un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre e una voce sottile e carezzevole, come quella d’un gatto che si raccomanda al buon cuore della padrona di casa’
Ed è proprio il Gatto, lusinghiere e bugiardo, un’altra figura cara a Collodi. Cieco e con gli stivali alle zampe, forma con la Volpe, la coppia più scaltra e ingorda che si possa immaginare. Celebre al riguardo la scena al tavolo dell’Osteria del Gambero Rosso, nella quale i due si abbuffano, a differenza di Pinocchio che per l’agitazione aveva perso l’appetito, senza nessuna continenza e con totale disprezzo di qualsiasi norma alimentare. ‘Il povero gatto’, dall’alto della sua bugiardaggine dice di ‘sentirsi gravemente indisposto di stomaco’, nonostante ciò divora una gran quantità di cibo e, quello che qui ci preme sottolineare, ‘si rifà tre volte a chiedere il burro’. Ecco di nuovo che il nostro prestigioso grasso ricompare a effigiare, in questa come in altre occasioni, persone o personaggi prive di continenza e sobrietà.
Il burro diventa il protagonista principale di un simpatico libricino per ragazzi, pubblicato nel 1984 dallo scrittorestatunitense Theodor Seuss Geisel (Dr. Seuss), che si intitola La battaglia del burro. Meno conosciuto in Italia, è rimasto per sei mesi in vetta alla classifica del New York Times come uno dei libri più venduti al pubblico adulto (unico libro nel suo genere a cui sia toccato un così prestigioso e prolungato riconoscimento) e questo grazie alla sua attualità e originalità. La storia racconta di due popolazioni, gli Zighi e gli Zaghi, in lotta tra loro per uno strano motivo: gli uni imburrano le fette di pane nella parte superiore, gli altri inferiore. Da questa insignificante (ma per loro importantissima) diversità scaturisce un conflitto destinato sempre più a inasprirsi con l'uso di tante e strampalate armi. Un testo di fronte al quale si resta incantati dalla costante e arguta presa in giro della stupidità gratuita, singola e di massa e che fa del Dr. Seuss uno scrittore di grande valore pedagogico. La deformazione temporanea delle cose e degli eventi è particolarmente efficace a rappresentare l'assurdo della realtà e del mondo dei grandi, che a causa della loro stoltezza arrivano a scontrarsi o, nella migliore delle ipotesi a perdere il loro tempo, per questioni inutili e banali.
La stessa stoltezza, che appare più innocua ma non per questo meno venefica, colpisce come una malattia il Cappellaio Matto e il leprotto Marzolino. I due personaggi di Alice e il paese delle meraviglie passano la maggior parte del loro tempo a gozzovigliare, mangiare, bere e divertirsi senza rendersi conto che il tempo passa. Questo atteggiamento verso la vita lo si ravvisa altresì nel preciso momento in cui i due amiconi spalmano sull’orologio del burro; che diventa qui simbolo evidente di come il tempo (orologio) venga sciupato e calpestato dai gaudenti, mediante il ‘burro’ dei piaceri terreni e delle malsane passioni.
Ma torniamo ad un esempio della nostra letteratura per ragazzi in cui il burro ha un ruolo, se è possibile, ancora più di significativo. Non uno ma tanti sono, infatti, Gli uomini di burro del mondo surreale di Gianni Rodari che, svuotati dai significati di tipo malvagio e diabolico incarnati dall’Omino collodiano, rimangono sbalorditivamente stupidi e stolti.
Riporto di seguito, vista la brevità e l’efficacia narrativa di un testo la cui lettura vale più di mille commenti, la versione integrale: Giovannino Perdigiorno, gran viaggiatore e famoso esploratore, capitò una volta nel paese degli uomini di burro. A stare al sole si squagliavano, dovevano vivere sempre al fresco, e abitavano in una città dove al posto delle case c'erano tanti frigoriferi Giovannino passava per le strade e li vedeva affacciati ai finestrini dei loro frigoriferi, con una borsa di ghiaccio in testa. Sullo sportello di ogni frigorifero c'era un telefono per parlare con l'inquilino."Pronto". "Pronto"."Sono il re degli uomini di burro. Tutta panna di prima qualità. Latte di mucca svizzera. Ha guardato bene il mio frigorifero?" "Perbacco, è d'oro massiccio. Ma non esce mai di lì"."D'inverno, se fa abbastanza freddo, in un'automobile di ghiaccio"."E se per caso il sole sbuca d'improvviso dalle nuvole mentre la Vostra Maestà fa la sua passeggiatina? "Non può, non è permesso. Lo farei mettere in prigione dai miei soldati"."Bum," disse Giovannino. E se ne andò in un altro paese.
Il burro non è solo un pezzetto di squisita materia dalle proprietà uniche ma l’elemento rivelatore di immagini e significati. è un semplice piacere della vita in ambito culinario, ma è anche metafora di ricchezza e abbondanza, almeno fino ai primi anni del XX secolo, quando, come si è visto, cade vittima delle mode e diventa sinonimo dell’eccesso fine a sé stesso e qualche volta del superfluo, dell’effimero che circonda l’uomo moderno e che finisce, con l’avvento del capitalismo, per ungere anche la cravatta l’individuo più virtuoso. L’untuosità, che provenga dal burro o da un altro grasso, rende bene l’idea dell’inafferrabilità e della sfuggevolezza del nostro tempo, tutto intriso di condimenti ingannevoli che troppe volte coprono il sapore della sostanza.
La perdita di valori nell’epoca dell’unto e bisunto è un pericolo che i letterati hanno il dovere di denunciare per mettere in guardia le future generazioni.
Ci rinnova mirabilmente l’invito Italo Calvino, che con le sue fiabe e con i suoi testi (Marcovaldo, Il Cavaliere inesistente, Il barone rampante, Il visconte dimezzato) ha acceso qualche incenso nel grande tempio della letteratura per ragazzi, consegnandoci questa massima ‘La fantasia è come il burro bisogna spalmarla sul pane per renderla nutriente’. Tra le tante metafore usate per tentare di racchiudere in una formula il senso della sua narrativa questa del burro e del pane piace particolarmente all’autore tanto che la ripeterà in molte interviste e in occasione di diversi convegni. Un’immagine semplice ma efficace che riporta l’attenzione sul contenuto e il valore della letteratura, sul fatto che la fantasia, senza una razionale morale interna, non è altro che uno spreco di energie (come il burro senza il pane).

 

Bibliografia

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